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Quaderno di “Memorie
dell’infanzia”
e
Volume 1
Luisa Piccarreta
“La Piccola Figlia della Divina Volontà”
Luglio 15-1926
Mio Gesù, amor mio, mia Mamma
celeste e sovrana Regina, venite in mio aiuto, prendete fra le vostre mani il
povero mio cuore; non vedete come mi sanguina per il duro combattimento di
dover cominciare da capo, per dire la mia povera esistenza, della mia infanzia?
A qualunque costo vorrei sfuggire questo dolorosissimo e duro sacrificio, e
tanto più duro perché inaspettato; ma una novella ubbidienza esce in campo per
martoriare la mia povera ed insignificante esistenza. Gesù, Mamma, venite in
mio aiuto, altrimenti mi sento che la mia volontà vorrebbe uscire in campo di
nuovo, per avere vita e poter dire un ‘no’ reciso a chi mi comanda. Ah, Gesù,
permetterai tu forse che io abbia che ci fare[1] col
mio volere, dopo tanto tempo che tu con tanta gelosia lo tieni legato ai tuoi
piedi come dono e trionfo della piccola figlia tua? Mi hanno imposto di pregare
per sapere da te se debbo o no farla, e tu invece di essere con me, mi hai
detto: “Ciò servirà a far conoscere la terra che doveva illuminare il sole
della mia Volontà[2], per formare il regno
suo”. Ah, Gesù, che importa a me far conoscere la mia piccola terra! E a te
deve importare che si conosca il tuo Volere, non è vero o Gesù? Ma Gesù ha
fatto silenzio ed è scomparso, ed io pronunzio con tutta l’intensa amarezza
dell’anima : “Fiat! Fiat!”, ed incomincio.
Onde dico in principio ciò che mi
hanno detto, la stessa mia famiglia.
Nacqui il 1865, 23 aprile, la
domenica in albis, di mattina; la sera stessa mi battezzarono. Diceva mia madre
che io nacqui a rovescio, ma lei non soffrì nulla nel parto, tanto che io,
negli incontri e circostanze della mia povera vita, son solita di dire: “Nacqui
al rovescio! È giusto che la mia vita sia al rovescio della vita delle altre
creature”. Onde ricordo che nella mia tenera età di tre o quattro anni, fino
all’età di circa dieci, ero di temperamento pauroso, ed era tanta la paura che,
né sapevo star sola, né dare un passo da sola; ma ciò era causato che fin
dall’età di tre anni, nella notte facevo quasi sempre sogni di paura. Sognavo
il demonio, che mi metteva spavento tale da farmi tremare; molte volte lo
sognavo che mi voleva portare con sé e mi tirava forte, ed io facevo tutti gli
sforzi per fuggire; ed io nello stesso sogno sudavo freddo, mi nascondevo,
fuggivo in braccio alla mamma mia; quindi il giorno mi restava l’impressione
dei sogni, e tale paura come se da tutte le parti il demonio volesse uscire.
Ora credo che ciò mi fece bene, perché sin da quella tenera età io recitavo
molte Ave Maria e Pater Noster a tutti i santi [di cui] io
conoscevo il nome, per avere la grazia di non farmi sognare il demonio; e se mi
veniva nominato un altro santo che io non conoscevo, subito aggiungevo un Pater, se era santo maschio, un’Ave se era donna, perché dicevo che se
non li onoravo tutti, mi facevano sognare il demonio. Ricordo che le sette Ave alla Mamma addolorata, fin da quell’età
le recitavo sempre, sicché tenevo una lungaggine di Pater ed Ave Maria; e
perciò mentre le altre bambine e mie sorelline giocavano, io restavo un po’
discosta da loro, oppure insieme con loro perché avevo paura, ma non prendevo
parte ai loro giuochi innocenti, per recitare le mie lunghe Ave e Pater Noster… Ricordo pure che qualche volta sognavo la Vergine,
che mi cacciava il demonio, ed una volta mi disse: “Figlia mia, piangi, che è
morto mio Figlio”. Io restai scossa e la compativo; ma ciò mi rendeva infelice.
Quando giunsi all’età più capace in cui potevo fare la meditazione, leggere,
non potevo appartarmi per la paura, e quindi non potevo fare ciò che volevo.
Ora, avendomi fatta all’età di
undici anni figlia di Maria, un giorno, mentre volevo pregare e meditare, la
paura mi sorprese e stavo per fuggire in mezzo alla famiglia, mi intesi una
forza nel mio interno che mi tratteneva, e sentii nel fondo dell’anima mia una
voce che mi diceva: “Perché temi? C’è l’angelo tuo vicino al tuo fianco, c’è
Gesù nel tuo cuore, c’è la Mamma celeste che ti tiene sotto il suo manto;
perché dunque prendi paura? Chi è più forte: l’angelo tuo custode, il tuo Gesù,
la tua Mamma celeste, o il nemico infernale? Perciò non fuggire, ma restati e
prega, e non aver paura”.
Questo sentire nel mio interno mi
recò tanta forza, coraggio e fermezza, che si allontanò la paura, ed ogni qual
volta mi sentivo sorprendere dalla paura, mi sentivo ripetere la stessa voce
nel mio interno, ed io mi sentivo portare come con mano dal mio angelo, dalla sovrana
Regina e dal dolce Gesù; mi sentivo trionfante in mezzo a loro, in modo che
acquistai tale coraggio che mi allontanò tutta la paura; molto più che i sogni
paurosi cessarono del tutto. Così potetti restare sola, camminare sola, andare
sola in giardino quando si stava alla masseria, mentre prima, se ci andavo,
solo che vedevo muoversi un ramo d’albero, fuggivo, perché pensavo che lì sopra
c’era il demonio.
Ricordo che un giorno, ricordando
la paura della mia piccola età, i tanti sogni del nemico, che mi rendevano
infelice la mia fanciullezza, dicevo a Gesù: “A che pro, amor mio, aver passata
la mia infantile età con tanta paura, con tanti sogni cattivi, che mi facevano
tremare, sudare ed amareggiare un’età così tenera? Io non ne capivo nulla, né
credo che il nemico avesse nessuno scopo, stante un’età così piccola”; e Gesù
mi disse: “Figlia mia, il nemico intravedeva qualche cosa su di te: che mi potresti[3]
servire a qualche cosa della mia grande gloria, e che lui doveva ricevere una
grande sconfitta, non mai ricevuta; molto più che vedeva che, per quanto si
sforzava, non poteva far penetrare in te nessuno affetto o pensiero meno puro,
perché io gli tenevo chiuse le porte, e lui non sapeva da dove entrare; vedendo
ciò si arrabbiava e cercava di atterrirti, non potendo altro, con sogni paurosi
e di spavento. Molto più che non sapendone la cagione dei miei grandi disegni
su di te, che dovevano servire alla distruzione del suo regno, si metteva sull’attenti
per indagare la causa, con la speranza di poterti nuocere in tutti i modi”.
Nostro Signore è stato tanto
buono con me, dandomi genitori buoni, e [in] più stavano attenti a non farci
sentire neppure una parola di bestemmia o meno onesta. Mi amavano, ma con amore
dignitoso e serio. Ricordo che mai mio padre, essendo bambina, mi pigliò in braccio,
né di avergli dato, né ricevuti baci; neppure a mia madre ricordo d’averla
baciata, e quando fui grande e mi misi a letto, la mamma, dovendo andare alla
masseria e mancare lunghi mesi, nel licenziarsi da me faceva atto di volermi
baciare, ed io, vedendo ciò, prima che lo facesse le baciavo la mano, ed essa
si asteneva di fare quello sfogo tutto materno.
Il babbo e la mamma erano angeli
di purità e di modestia. Sono stati larghi coi loro dipendenti: la frode, l’inganno,
non tenevano luogo in casa nostra. Era tanta la custodia che mai ci affidarono
a persone estranee, ma sempre con loro. Io mi auguro che il benedetto Gesù
abbia premiato tanta virtù, dando loro per soggiorno la patria celeste. Ricordo
pure che io ero di temperamento vergognoso, e se venivano parenti o altri a
farci visita, io me ne fuggivo sopra, per non farmi trovare, oppure mi
nascondevo dietro d’un letto e pregavo, ed allora uscivo, quando mi chiamavano
e mi dicevano che se ne erano andati; e quando la mamma mia andava a far visita
ai parenti e voleva portarmi insieme, piangevo, perché non volevo andare; ed io
ed un’altra mia sorellina, quasi dello stesso temperamento, ci contentavamo di
restarci sole chiuse a chiave, anziché d’uscire. Questa vergogna non mi faceva
prendere parte a nulla, né a feste, né a divertimenti, anche innocenti, che si
usano nelle famiglie; ero la sacrificata della vergogna, e se i miei mi
costringevano, stavo in croce, perché la vergogna, tutte le cose me le rendeva
estranee.
Onde ricordando tutto ciò, che in
qualche modo rendeva infelice la mia fanciullezza, il dolce Gesù mi disse:
“Figlia mia, anche la vergogna con cui ti circondai nella tua tenera età fu una
delle più grandi gelosie d’amore per te; non volevo che in te entrasse nessuno,
né il mondo, né le persone; volevo renderti estranea a tutti. A nessuna cosa
volevo che tu prendessi parte e che ti facesse piacere, perché avendo stabilito
fin d’allora che dovevo formare in te il regno del Fiat supremo, e dovendo tu prendere parte alle sue feste ed alle
gioie che in Esso ci sono, era giusto che nessun’altra festa tu godessi, e che
dei piaceri e divertimenti che ci sono sulla terra ne dovresti[4]
restare digiuna. Non ne sei contenta?”. Ma ad onta che ero vergognosa e paurosa,
ero di temperamento vivace, allegra; saltavo, correvo e facevo anche delle
impertinenze.
Ora, dopo, all’età di dodici anni
circa, incominciò un altro periodo della mia vita: incominciai a sentire la
voce interna di Gesù, specie nella comunione. La prima la feci a nove anni, e
nel medesimo giorno ricevetti il sacramento della santa cresima. Quindi non di
rado [la voce di Gesù] si faceva sentire nel mio interno quando facevo la santa
comunione. Delle volte rimanevo le ore intere inginocchiata, quasi senza moto,
dopo la comunione, e sentivo la voce interna che diceva: - e ora mi rimproverava
se non ero stata buona – “attenta”; e se nel corso del giorno ero stata qualche
volta distrattella, oh, come mi riprendeva, e finiva col dirmi: “Eppure mi dici
che mi vuoi bene; e dove è questo tuo bene?”.
Io mi sentivo morire nel sentirmi
dir ciò, e promettevo di essere più attenta, e Gesù soggiungeva: “Vedrò, vedrò
se sarà vero…; le parole non mi bastano, ma voglio i fatti”.
La comunione diventò la mia
passione predominante. In essa accentrai tutti i miei affetti. Ero certa di
sentir parlare nostro Signore; e quanto mi costava l’esserne priva, perché ero
costretta dalla famiglia ad andare insieme con loro alla masseria, e dovevo
stare lunghi mesi senza messa e senza comunione. Quante volte rompevo in pianto
nel vedere alberi, fiori, la creazione tutta…!
Dicevo tra me: “Le opere di Gesù
sono intorno a me; solo Gesù non è con me… Deh, parlami tu fiore, tu sole, tu
cielo, tu acqua cristallina che scorri nel nostro laghetto, parlatemi di Gesù;
siete opere delle sue mani, datemi notizie di lui…! E mi sembrava che tutte di
lui mi parlassero. Ogni cosa creata mi parlava di ciascuna qualità di Gesù, ed
io piangendo, che non potevo ricevere Colui che tutte le cose amavano, e che
sapevano così bene narrare della bellezza, dell’amore, della bontà di Gesù,
piangevo e giungevo fino ad ammalarmi. Anche nella meditazione sentivo la voce
di Gesù, ma qualche volta mi mancava; invece nella comunione, mai. E quante
volte meditando restavo le due o le tre ore senza potermi distaccare; come
leggevo il punto e mi fermavo, così la voce di Gesù sentivo nel mio interno,
che atteggiandosi a maestro mi spiegava la meditazione. Fin d’allora mi faceva
nel mio interno, l’amabile Gesù, lezioni sulla croce, sulla mansuetudine,
sull’ubbidienza, sulla sua vita nascosta… A tal proposito, della sua vita
nascosta, ricordo che mi diceva: “Figlia mia, la tua vita deve essere in mezzo
a noi nella casa di Nazareth. Se lavori, se preghi, se prendi cibo, se cammini,
devi avere una mano a me, l’altra alla Mamma nostra, e lo sguardo a san
Giuseppe, per vedere se i tuoi atti corrispondono ai nostri, in modo da poter
dire: ‘Faccio prima il mio modello sopra a ciò che fa Gesù, la Mamma celeste e
San Giuseppe, e poi lo seguo’. A seconda il modello che hai fatto, io voglio
essere ripetuto da te nella mia vita nascosta; voglio trovare in te le opere
della Mamma mia, quelle del mio caro san Giuseppe, e le mie stesse opere”. Io
restavo confusa e gli dicevo: “Mio amato Gesù, io non so fare”.
E lui: “Figlia mia, coraggio, non
ti abbattere; se non sai fare domandami che io ti insegni, ed io subito t’insegnerò;
ti dirò il modo come facevamo, le mie intenzioni, l’amore continuo di tutti e
tre, che[5] io
come mare e loro come fiumicelli eravamo sempre gonfi, in modo che uno
straripava nell’altro, tanto che poco tempo tenevamo di parlarci, tanto
eravamo assorbiti nell’amore. Vedi quanto stai dietro? Molto hai da fare per
raggiungerci; ti conviene molto silenzio ed attenzione, ed io non ti voglio
dietro, ma in mezzo a noi”.
Onde, quando non sapevo fare,
domandavo a Gesù, e lui m’insegnava nel mio interno. Cercavo quasi sempre,
quanto più potevo, di appartarmi dalla famiglia per starmi sola, per mantenere
il silenzio; prendevo il mio lavoro e chiedevo alla mamma che mi permettesse di
andarmene sopra, e lei me lo concedeva.
Sicché la mia mente stava nella
casa di Nazareth, ed ora guardavo l’uno, ora l’altro, e mi confondevo nel
vederli così attenti nei loro umili lavori, così assorbiti nelle fiamme
d’amore, che s’innalzavano tanto in alto che i loro lavori restavano incendiati
e trasformati in amore; ed io, meravigliata, pensavo tra me: “Loro amano tanto,
ed il mio amore qual è? Posso dire che i miei lavori, le mie preci, il cibo che
prendo, i passi che faccio, sono fiamme che s’innalzano al trono di Dio, e
formando fiume straripa nel mare di Gesù?”. E vedendo che non lo era, restavo
afflitta; e Gesù nel mio interno mi diceva: “Che hai? Non ti affliggere; a poco
a poco giungerai. Io ti starò sopra, e tu seguimi e non temere”.
Se io volessi dire tutto ciò che
passai nel mio interno nella mia fanciullezza, andrei troppo per le lunghe;
molto più che nel primo volume da me scritto, senza precisare l’epoca, prima o
dopo, quando fui più piccola o quando fui più grande, sta dato un accenno del
lavorio della grazia nel fondo dell’anima mia, perché così mi fu detto: che non
faceva nulla che non mettessi l’ordine dell’età, né quello che era stato prima,
né quello che era stato dopo, ma purché dicessi quello che in me era passato;
molto più che dopo tanti anni mi riusciva difficile tenere l’ordine di ciò che
era passato nel mio interno. Ed ora, per non fare ripetizione, passo avanti.
Ricordo che, ragazza, avevo quasi
una smania di volermi far suora, e siccome andavo dalle suore a scuola, io
sentivo un affetto un po’ spinto per loro, ma però le[6] volevo
bene perché volevo essere come una di loro; ma nel mio interno mi sentivo
rimproverarmi di questo affetto, e mentre promettevo di non amare altro che
Gesù, ricadevo di nuovo, e Gesù ritornava a darmi amari rimproveri. Unico
affetto che ricordo, che ho sentito in vita mia in modo speciale, che poi non
mi son sentita più amore con nessuno. Che tirannia è un affetto naturale e
forse anche innocente, al povero cuore umano! Lo ricordo con terrore; i
rimproveri interni mi mettevano in croce; mi sembrava che il mio affetto teneva
in croce Gesù, e Gesù per ricambio metteva in croce me, e perciò non godevo la
vera pace, perché è la natura dell’amore umano, guerreggiare un povero cuore.
Aver pace ed amare persone con modo speciale, non esiste nel mondo, e se esiste
significa non aver coscienza, ed ancorché fosse con fine santo o indifferente.
Ma il benedetto Gesù la fece subito finire, ed ecco come.
Una mattina pregai la mamma che
mi mandasse a far visita alla superiora, e l’ottenni con stento e sacrificio.
Mentre andai, domandai che mi facessero uscire la superiora, e dopo mi fu
risposto che stava occupata e non poteva uscire; io restai come ferita nel
sentir ciò. Andai in chiesa e sfogai la mia pena con Gesù, e lui prese occasione
da ciò per farmela finire. Mi parlò del suo amore e dell’incostanza dell’amore
delle creature, e come voleva che assolutamente la finissi, dicendomi che:
“Quando un cuore non è vuoto, io lo rifiuto, né posso incominciare il lavorio
che ho disegnato di fare nel fondo dell’anima”. Ma chi può dire tutto ciò che
mi disse nel mio interno? Ricordo che là finì, ed il mio cuore restò impavido,
senza sapere amare più nessuno.
Onde pregavo sempre Gesù che mi
facesse giungere a farmi suora, e spesso lo domandavo quando me lo[7]
sentivo nel mio interno, se doveva giungere a compimento la mia vocazione
religiosa, e Gesù mi assicurava dicendomi: “Sì, ti contenterò; vedrai che sarai
suora”. Io restavo tutta contenta nel sentirmi assicurare da Gesù, e cercavo di
disporre la famiglia per ottenere il consenso, la quale era contraria, specie
la mamma; giungeva fino a piangere, e mi diceva che mi avrebbe contentato se
avessi voluto farmi suora di clausura, ma delle suore attive, non me l’avrebbe
fatta mai vincere. Io però, a dire il vero, volevo farmi suora attiva, perché
quelle che conoscevo erano state le mie maestre, ma sopravvenne la mia lunga
malattia, e mise termine alla mia vocazione; e molte volte mi lamentavo con
Gesù e gli dicevo: “Eppure mi dicevate la bugia, mi davi la burla,
promettendomi che dovevo giungere a farmi suora”.
E Gesù molte volte mi ha
assicurato che mi diceva la verità, dicendomi: “Io non so né ingannare né burlare;
la chiamata che io facevo a te era più speciale: chi mai col farsi suora, anche
nelle religioni più strette, non può camminare, non prendere aria, non godere
nulla? E quante volte nelle religioni fanno entrare il piccolo mondo e si
divertono magnificamente? Ed io resto come da parte. Ah, figlia mia, quando io
chiamo ad uno stato, io so come realizzare la mia chiamata; il luogo è per me
indifferente, l’abito religioso per me dice nulla, quando nella sostanza
dell’anima è quello che dovrebbe essere se fosse entrata in religione; e perciò
ti dico che sei e sarai la vera monacella del cuore mio”.
Oh, grande sacrifizio che mi
s’impone dalla santa obbedienza alla mia capacità, di dover mettere su carta
quanto tra me ed il mio diletto Gesù è avvenuto nel corso di sedici e più anni.
Mi sento come schiacciata sotto di sì ingente peso; ciò nonpertanto mi accingo,
a mia grande confusione, a compierlo, ma fidente in Gesù, mio sposo diletto,
affinché voglia rendermelo meno gravoso; così potrò compierlo per la maggior
gloria di Dio e per l’amore che nutro verso la nobilissima virtù dell’obbedienza.
In te, o Gesù, con te e per te,
do principio; di me diffido, in te confido; senza di te io nulla posso; ma
sempre nel principio, nella durata del tempo che mi occorre, e nel termine, sia
fatto tutto per la maggiore gloria tua, per accrescimento del mio amore verso
di te, e per la mia grande confusione.
In una Novena del santo Natale
del mio sempre amabile Gesù, ancora in età di diciassette anni, volli prepararmi
a questa festività con la pratica giornaliera di diversi atti di virtù e
mortificazioni, a scopo speciale di onorare i nove mesi che Gesù si compiacque
stare nel verginale seno di Maria Santissima; mi proposi, quindi, di fare nove
meditazioni al giorno, concernenti sempre il sacrosanto mistero
dell’Incarnazione.
In una meditazione mi proponevo
di portarmi col pensiero lassù, in paradiso, e m’immaginavo la Santissima
Trinità in decisivo consiglio di voler riscattare l’uman genere, decaduto
nella più squallida miseria, da cui, senza dell’operato divino, giammai poteva
sorgere a novella vita di assoluta libertà; quindi mi ravvisavo il Padre in
atto di voler mandare il suo Unigenito sulla terra, il Figliuolo in atto di assentimento
alla nobile idea del Padre, e lo Spirito Santo in atto compiacentissimo di
voler essere, nel suo pieno consenso, tutto a maggior bene e salvezza
dell’umanità. La mia mente si confondeva, e si meravigliava tutto l’essere mio
nell’intuire un sì grande mistero di sì reciproco amore, così forte e sì
uguale, tra le Divine Persone, che tutto si rendeva diffusivo per il copioso
vantaggio degli uomini, e quindi consideravo l’ingratitudine degli uomini, nel
mettere in non cale il copioso frutto di sì grande amore. In questa
considerazione mi sarei stata non solo una bella ora, ma ancora tutta l’intera
giornata, se non mi avesse fatto sentire[8] una
voce nel mio interno che mi diceva: “Basta così per ora; vieni meco e vedi
altri eccessi più grandi del mio amore verso di te”.
La mia mente, quindi, veniva
trasportata a considerare il mio sempre amabile Gesù, risiedente nel purissimo
seno di Maria Santissima, Vergine e Madre, ed io rimanevo stupita nel
considerare un Dio sì grande che non può essere contenuto dai cieli, pur
tuttavia, per amor dell’uomo, così annichilito, impicciolito e ristretto, da
non potersi muovere, e quasi neppure respirare nel materno seno. A tale considerazione,
che mi faceva struggere di amore pel nascituro Gesù, dal mio interno mi si faceva
sentire una voce che mi diceva: “Vedi quanto ti ho amato? Deh! Procurami un po’
di largo nel tuo cuore; togli tutto ciò che non è mio, acciocché mi dia più
agio a potermi muovere e respirare nel tuo cuore”. Il mio cuore allora si
sentiva tutto distruggere di amore per lui, ed io gli chiedevo perdono dei
falli miei, promettendogli di voler essere tutta sua; mi sfogavo in amarissimo
pianto e, sebbene di giorno in giorno ripetevo la stessa promessa, nondimeno,
ad onor del vero ed a mia confusione, mi trovavo di aver commessi i soliti miei
difetti, a vista dei quali nel grande mio dolore esclamavo: “O mio buon Gesù,
quanto sei stato e tuttora sei benevolo verso questa misera creatura, abbi sempre
di me pietà!”.
Così passava la seconda ora di
meditazione, e poi via via la terza sino alla nona, che tralascio per non
rendermi troppo seccante delle mie insipide e per me increscevoli narrazioni. E
poiché la voce interna richiedeva da me che le stesse meditazioni si
ripetessero in ciascun giorno della suddetta Novena, altrimenti non mi dava né
tregua né riposo, m’ingegnavo come meglio potevo a far ciò: quando inginocchiata,
quando prostrata a terra, e quando ne ero impedita dalla famiglia procuravo di
seguirlo ancora lavorando, per contentare sempre il mio buon Gesù.
Così passai tutti i giorni della
santa novena, tanto che giunse la vigilia in cui il mio diletto Gesù volle darmi
la non insolita ed inaspettata ricompensa. Nella vigilia del santo Natale, io
me ne stavo sola e solerte nel dar termine alle suddette meditazioni, e mentre
mi sentivo più che mai accesa d’insolito fervore, mi si fa innanzi il
graziosissimo bambinello Gesù, tutto grazioso e bello, sì, ma tremante più che
mai dal freddo per il poco amore che gli si dava dalla ingrata creatura. Lo
vidi in atto di volermi abbracciare, ed io, fuori di me per una insolita gioia,
subito mi alzai e corsi per abbracciarlo, ma egli, nell’atto di stringerlo fra
le mie braccia, tosto mi scomparve, il che di nuovo si ripetette per ben tre
volte, senza farsi da me abbracciare, per cui mi fece restare tanto commossa ed
accesa di amore, da farmi cadere in dolce ed amoroso deliquio, che mi è
difficile poter dire a parola, né tampoco mettere su carta, giacché mi mancano
i vocaboli per ben esprimermi; però non posso negare d’essermi sentita tutta
trasformata di amore per lui, e ciò per parecchi giorni, e che poi a rilento
venne a scemarsi quell’insolito fervore provato, sino a tanto che, dopo lungo
tempo, non ne feci più conto alcuno, e nemmeno feci di ciò motto ad anima
vivente. La voce interna, però, d’allora in poi non mi lasciò mai più e, perché
vi cadevo ancora, dopo delle mie solite mancanze mi riprendeva in ogni cosa non
fatta bene; mi correggeva, insegnandomi il modo di far tutto sempre bene; mi
animava se ci cadevo di nuovo, facendomi promettere più diligenza in avvenire.
In una parola, il Signore, d’allora e sempre, ha agito ed agisce con me come un
buon padre verso un figlio tendente a sviare sempre dal diritto sentiero della
virtù, usando tutte le paterne diligenze e cure per ritenerlo nel dovere, in modo
da formarsene poi il suo onore, la sua gloria e la sua più ricercata e fulgida
corona di virtù. Ma purtroppo, per mia vergogna e confusione, mi conviene
tuttora esclamare: “Oh quanto, o Gesù, ti sono stata ingrata!”.
Il mio divin maestro Gesù, in
questo modo diede principio e vi pose mano a spogliare il mio cuore da tutte le
affezioni che ci attaccano alle creature, per cui sempre e con voce interna mi
è venuto dicendomi: “Io sono il tuo tutto, che merita di essere amato da te con
uniformità al mio amore che ti porto. Vedi, se tu non allontani da te questo
piccolo mondo che da ogni intorno ti circonda, cioè, pensieri, affetti ed
immaginazioni verso le creature, io non posso entrare del tutto nel tuo cuore e
prendere stabile possesso.
Questo mormorio continuo nella
tua mente è d’impedimento a farti sentire più chiara la mia voce, a farmi
versare in te le mie grazie, a farti innamorare totalmente di me, che sono
sposo tutt’affatto geloso. Promettimi di voler essere tutta mia, ed io metterò
mano all’opera per fare di te tutto quello che voglio. Tu hai ragione di dirmi
che tu nulla puoi fare da te sola, ma non temere, farò io il tutto per te;
dammi la tua volontà e ciò mi basta”.
E tutto ciò me lo ripeteva più
spesso nella santa comunione, in cui mi effondevo in lacrime di pentimento, e
gli promettevo più che mai di essere tutta sua, gli chiedevo perdono se fino a
quel punto non ero stata secondo il suo Volere, e mi protestavo di veramente
volerlo amare di tutto cuore, pregandolo ancora che non mi lasciasse sola, ché
senza di lui sentivo che avrei potuto far di peggio. E Gesù, facendo sentire la
sua voce da dentro il mio cuore, continuava a dirmi: “No, no; verrò assieme con
te, dovunque tu vada, affine di osservare tutte le tue azioni, per dirigere ed
equilibrare tutti i movimenti e desideri del tuo cuore”.
E così me la passavo tutto il giorno,
non solamente pensando continuamente a lui, ma intenta ancora alla sua voce,
che internamente mi riprendeva ogniqualvolta mi lasciavo trasportare un po’ a
lungo nel discorrere con la famiglia di cose indifferenti o meno che
necessarie; subito mi diceva: “Questi tuoi discorsi non mi sono graditi, ché ti
riempiono la mente di cose che a me non appartengono, e ti circondano il cuore
di una polvere nociva, in modo da farti perdere l’efficacia della mia grazia
elargitati, rendendola così debole e non più viva; deh, imita me, quando io
stavo nella casa di Nazareth, che avevo la mia mente non ad altro occupata che
a quanto concerneva la gloria del Padre mio e la salvezza delle anime; la mia
bocca non si apriva se non a fare discorsi santi, cercando con le mie parole di
indurre altri a far riparare le offese che si facevano al Padre mio, e quindi
saettavo i cuori che, spezzati dal dolore e rammolliti dalla grazia, li tiravo
al mio amore. Che dirti poi delle spirituali conferenze che tenevo con la Madre
mia e col mio padre putativo? In una parola, tutto ciò che si diceva,
richiamava Dio, e tutto ciò che si operava era indirizzato e riferito a lui;
perché non potresti fare tu altrettanto?”.
Se non che io, al suo dire,
internamente restavo muta e tutta confusa, e quindi cercavo quanto più potevo
di starmene sola, ed era allora che gli confessavo la mia debolezza, gli
chiedevo aiuto e grazia efficace per poter eseguire puntualmente quanto egli da
me richiedeva, protestandomi che da me sola non avrei potuto fare altro che
male. Guai, poi, se la mia mente o il mio cuore sfuggiva talvolta ad interessarsi
di persone a cui volevo ancor io bene; la sua voce subito mi riprendeva
aspramente, dicendomi in tono vibrante: “Questo è dunque il bene che mi vuoi?
Chi mai ti ha amato al par di me? Vedi, che se tu non la fai finita, io mi
allontano da te, lasciandoti sola ed in balìa di te stessa”. Ed io allora, a
tali e tanti altri rimproveri amari, mi sentivo spezzare il cuore, e non facevo
che piangere dirottamente, chiedendogli perdono. Se non che una mattina,
finalmente, dopo aver fatta la comunione, mi diede un lume tanto chiaro
sull’amore sì grande che mi portava e sulla volubilità ed incostanza dell’amore
delle creature, che il mio cuore ne restò tanto preso, che d’allora in poi non
è stato più capace di amare altra creatura fuori di lui. M’insegnò anche il
modo come amare le creature senza di staccarmi giammai da lui, col guardare
cioè le creature come immagini di Dio, in modo che, se mi veniva fatto del
bene, dovevo riconoscerlo come venuto da lui, primo movente ed autore di quel
bene che mi si faceva, ma che si serviva di loro per elargirmelo; se invece mi
veniva fatto di ricevere qualche male, dovevo pensare che Iddio permetteva
farmelo fare dalle creature a scopo solo del mio maggior bene, sia spirituale
che corporale. Il mio cuore, quindi, più a Dio si sentiva tirato e legato, per
cui avveniva che, mirando tutte le creature in Dio e l’immagine di Dio in
ciascuna di loro, non più perdevo la stima [verso di] loro, e se mi motteggiavano,
mi sentivo anzi più obbligata ad amarle in Dio, pensando che mi facevano fare
nuovi acquisti di meriti per l’anima mia; se all’opposto mi si appressavano con
lodi ed applausi, ricevevo il tutto con disprezzo, dicendo fra me: oggi questo,
domani possono odiarmi, in vista dell’incostanza della creatura. Il mio cuore,
insomma, acquistò d’allora tale libertà da non saperlo esprimere.
6 - Gesù
prosegue l’opera sua nell’anima: la distacca da se stessa, purificando tutto
l’interno del suo cuore.
Dopo che il mio divin maestro mi
sottrasse dal mondo esterno, facendomi allontanare da qualsiasi creatura, e mi
liberò dai pensieri ed affetti verso la creatura, vi pose mano a purificare
tutto l’interno del mio cuore, da cui faceva risuonare spesso spesso, la sua dolce
voce al mio udito, dicendomi: “Adesso che siamo rimasti soli, e non v’è più chi
possa disturbarci, non sei più contenta ora, più di prima, che eri intenta a
contentare coloro che ti erano sempre da vicino? Vedi quanto è più facile
contentare uno solo che tanti? Ora contentiamoci a vicenda, facendo conto che
tu ed io siamo soli in questo mondo; promettimi di essermi fedele, ed io
verserò in te tali e tante grazie da restarne tu stessa meravigliata. Sopra di
te ho fatto grandi disegni; sempre però che tu voglia corrispondere e conformarti
al mio Volere, mi delizierò nel fare di te una perfetta mia immagine,
cominciando tu ad imitar me dal mio nascere sino al morire. Non aver dubbio che
tu non possa riuscirvi, perché io stesso t’insegnerò un po’ alla volta il modo
da tenervisi”. Di giorno in giorno, infatti, mi ha parlato, specie dopo la
santa comunione, di che dovevo occuparmi ed affaticarmi per rendere copioso il
frutto della grazia che mi elargiva, a scopo di sua imitazione.
La prima cosa di cui tanto mi ha
parlato, è stato sulla necessità di purificare l’interno del mio cuore, e l’annichilamento
di me stessa con l’acquisto della santa umiltà, per cui mi veniva spesso dicendomi:
“Vedi, per fare che io versi nel tuo cuore le mie grazie, è necessario che ti
convinca che da te sola niente e sempre niente puoi; sappi che io mi guardo
assai bene dal comunicare grazie e doni a quelle anime che sono sempre intente
ad attribuire a sé i buoni effetti che risultano dalle loro opere fatte nella
mia grazia; queste mi fanno tanti furti dei doni e grazie, dall’amor mio loro
donati, che se li ritengono come acquistati da loro stesse, per cui sempre devi
dire: ‘I frutti che si producono nel mio giardino non sono da attribuirsi a me,
tapina, ma effetti dei doni del divino mio amore, elargiti a profusione al mio
cuore’. Abbi sempre in mente che io sono largo nel versare anche a torrenti le
mie grazie a quelle anime che conoscono se stesse, purché niente usurpino per
loro, ma ogni cosa ritengano fatta mercé la mia grazia, e facendo quella stima
che si conviene, non solo mi siano grate, ma vivano ancora in continuo timore
che ogni grazia, dono e favore, possono perdere se non mi corrispondono. Nei
cuori che puzzano di superbia, io non posso entrarvi, perché, gonfie queste
anime di loro stesse, non hanno nel loro cuore un posticino dove collocarmi, e
perché non fanno alcun conto delle mie grazie, e queste, di cadute in cadute,
vanno in rovina. Perciò voglio che tu faccia spesso spesso, anzi continuamente,
atti di umiltà, e che te ne stia come un bambino in fasce che, non potendo da
sé muovere un passo, né una mano per operare, tutto si aspetta dalla madre;
così voglio che te ne stia vicino a me, come un bambino cioè, a pregarmi sempre
che ti aiuti e ti assista, confessandomi ancora il tuo nulla ed aspettando tutto
da me”.
Oh quanto, a questo parlare di
Gesù, m’impicciolivo e mi annichilivo, in modo che, alle volte sentivo tutto
l’essere mio come disfatto ed annientato, tanto che, sentendomi incapace di
operare il bene, né abile a dare un passo, né un respiro senza essere sorretta
ed aiutata da Gesù, tuttavia cercavo di fare il possibile per contentarlo in
tutto, rendendomi umile ed obbediente.
Considerando, di mano in mano, lo
stato di vita a cui Gesù mi chiamava, messo a confronto di quello già da me
decorso, mi sentivo circondata da tali e tante miserie, che avevo vergogna di
presentarmi a qualsiasi persona, riconoscendomi come la più cattiva che sia
stata nel mondo, per cui mi ritiravo per quanto più potevo dalle creature,
dicendo fra me stessa: “Oh, se sapessero quanto sono stata cattiva e le tante
grazie che il Signore mi sta facendo, certo che non potrebbero non avermi in
orrore! Spero che Gesù non voglia permettere che sappiano l’una e l’altra cosa,
altrimenti mi getterebbe nel finale mio annientamento”. Malgrado ciò, mentre
il giorno seguente andavo a ricevere Gesù sacramentato nel mio cuore, pareva
che facesse festa, nel vedermi così annientata, e [per] altre cose concernenti
lo stato del mio perfetto annientamento in cui mi chiamava e [che] venivami
suggerendo; sempre però in modi diversi dall’antecedente. Potrei asserire,
senza errare, che le quante volte Gesù mi ha parlato, ha usato meco modi sempre
nuovi nello spiegarmi le cause e gli effetti della virtù che inculcavami, e che
altri modi diversi terrebbe, se migliaia di volte volesse parlarmi sulla stessa
virtù. O mio divin maestro, quanto sei sapiente! Ed io, che non ti ho
corrisposto, quanto sono stata ingrata! Confesso, però, che la mia mente ha
cercato sempre di afferrare la verità, come la volontà di seguirla, nell’atto
che Gesù mi ha parlato, ma che poi ho molto perduto, sia l’una che l’altra, ed
io non ho potuto effettuare sino al termine quanto Gesù chiedevami; per questo
sempre più mi umiliavo, confessando la mia dappocaggine, e promettendo in
seguito più attenzione e buon volere; ma con tutto ciò, se non ero aiutata da
Gesù non riuscivo a fare quel bene con quella perfezione da lui voluta.
Ed appunto per questo, egli
spesse volte mi ha detto: “Se tu fossi stata più umile e sempre più vicina a
me, non l’avresti fatta sì male quell’opera, ma perché talvolta hai creduto dar
principio, proseguirla e terminarla senza di me, ti è riuscita, sebbene con
tutto il tuo rincrescimento, non a seconda del mio Volere. Invocami, perciò,
nel principio di ogni tua azione che intraprendi, abbimi sempre presente per
farla meco, e così sarà compiuta a perfezione; sappi che facendo sempre così
acquisterai la più profonda umiltà; all’opposto rientrerà in te la superbia, e
questa soffocherà il germe, gettato in te, della bella virtù dell’umiltà”.
Così dicendo, mi diede tanta luce
di grazia, da farmi comprendere quanto brutto è il peccato della superbia, che
è il più grande affronto che gli si possa fare e la più orrenda ingratitudine,
poiché questa accieca talmente l’anima da farla cadere nella più enorme
empietà, cagionando così la totale rovina dell’anima.
8 - L’anima
si duole dei peccati e le mancanze commesse; ma Gesù non vuole che perda mai
più il tempo pensando al suo passato.
Questa luce di grazia fuori
dell’ordinario, accordatami spesso dal mio Gesù, mi lasciava una profonda tristezza
del passato ed un vivo timore dell’avvenire, e perciò, non sapendo che fare per
riparare il malfatto, facevo qualche mortificazione di mia volontà, ed altre ne
chiedevo al confessore, che non sempre mi venivano concesse; ma tutto ciò che
facevo sembrava ombra di penitenza, per cui non potendo e non sapendo fare
altro, mi struggevo in lacrime, pensando ai peccati commessi, ed usavo ogni
mezzo per unirmi al sempre mio amabile Gesù, giacché il timore che standogli
discosta potessi far di peggio, si era talmente impossessato di me, che io
stessa non so dire ciò che avveniva in me. E chi può dire le quante volte
ricorrevo al mio Gesù, per confidargli la pena dei falli miei, che vivamente
sentivo nell’intimo del mio cuore, per chiedergli le mille volte perdono, per
ringraziarlo delle tante grazie concessemi, e per invocarlo ad essermi sempre
più vicino?
“Vedi - gli dicevo spesso - o mio
buon Gesù, quanto tempo ho perduto, quanta grazia ho sperperata, mentre che,
sia nell’uno che nell’altra, avrei potuto tesoreggiare nell’accrescimento del
mio amore verso di te, sommo ed unico mio bene e mio tutto?”.
E continuavo così a ripetere
continuamente a Gesù il male commesso, e in un modo quasi noioso, ma Gesù
severamente mi ha ripresa, dicendomi: “Non voglio più che ci pensi al passato.
Sappi che quando un’anima si è umiliata, perché convinta di aver fatto il male,
e quindi l’anima contrita ed umiliata è stata lavata nel mio sacramento di
penitenza, ed è più disposta a morire anziché ritornare ad offendermi, è un
affronto che fa alla mia misericordia, e nello stesso tempo impedimento all’amor
mio, in quanto che ella, con la sua mente, s’involge sempre nel fango del
passato, per cui non posso farle prendere nel mio amore il volo verso il cielo,
sino a tanto che voglia continuare a stare immersa nelle sozze idee, pensando
al passato. Vedi, io del male da te commesso non mi ricordo più, avendo tutto
perfettamente dimenticato. Vedi tu forse qualche rancore in me? Oppure qualche
ombra di malumore verso di te?”.
Ed io a lui: “No, no, Signore,
che anzi sei tanto buono che mi sento spezzare il cuore nel pensare alla tua bontà
e tenerezza di amore verso di me, quantunque ti sia stata tanto ingrata”.
Ed egli: “Ebbene, figlia mia,
perché vuoi portarti ancora al passato? Quanto sarebbe meglio che pensassimo ad
amarci vicendevolmente!
Cerca perciò, d’ora innanzi, di
contentarmi, e sarai sempre in pace”.
9 - Per
l’anima le creature devono scomparire; essa deve guardare solo Gesù, ed agire
solo con Gesù e per Gesù.
D’allora in poi, infatti, non ci
ho pensato più, proponendomi di contentare il mio adorabile Gesù, sebbene
tornassi spesso spesso a pregarlo che avesse avuto la bontà d’insegnarmi il
modo come riparare il tempo malamente passato. Ed egli: “Vedi che sono pronto a
fare quello che tu vuoi, ma devi ricordare quel che da tempo ti dissi, che la
cosa più vantaggiosa è l’imitazione della mia vita; dimmi, che cosa ti manca
ora?”.
Ed io: “Signore, mi manca tutto;
non ho altro che il proprio nulla”.
E Gesù: “Ebbene, non temere, che
a poco a poco faremo tutto. Conosco quanto sei debole, ma è da me che
attingerai la forza, la costanza e la buona volontà di seguire puntualmente
tutto ciò che ti sarà detto. Voglio che tu sia retta nell’operare: un occhio
deve guardare me, e l’altro a ciò che fai. Voglio che le creature ti
scompariscano affatto, così che quando verrai da esse comandata, tutto
eseguirai come se ti venisse comandato direttamente da me, affinché con
l’occhio fisso in me non giudichi nessuno, non guardi se la cosa sia penosa e
disgustosa, facile o difficile; chiuderai gli occhi a tutto ciò che ti sarà comandato,
e li aprirai in me solo, pensando che sto sopra di te a mirare il tuo operato,
e spesso mi dirai: ‘Signore, dammi la grazia di far bene ciò che per te solo
voglio intraprendere, continuare e terminare; non voglio rendermi più schiava
delle creature’. Ondeché, se cammini, se parli, se operi, e qualsiasi altra
cosa, lo farai ad unico fine del mio maggior piacere e compiacenza. Voglio che
nelle mortificazioni, ingiurie e contraddizioni che ti venissero fatte, abbia
lo sguardo fisso in me, pensando che non sono le creature, ma io, che di mia
propria bocca ti stia dicendo: ‘Figlia, voglio farti un po’ soffrire; voglio renderti
bella per mezzo di queste sofferenze; voglio arricchire l’anima tua di nuovi
meriti; voglio lavorare sull’anima tua in modo da renderti simile a me’. E tu,
soffrendo tutto per amor mio, mi farai un’offerta in rendimento di grazie, per
averti fatto operare con merito; ed ancora ricompenserai di qualche benefizio
coloro che ti avranno dato occasione di farti soffrire a torto. Così facendo
camminerai direttamente innanzi; le cose tutte non ti daranno più inquietudini,
e godrai perfetta pace”.
10 - La
creatura deve morire a se stessa per vivere solo in Gesù: necessità dello
spirito di mortificazione e della carità.
Dopo qualche tempo che Gesù mi
fece esercitare nelle cose suddette, mi parlò dello spirito di mortificazione,
facendomi ben comprendere che se il tutto non viene informato dall’amor suo,
ancorché fossero virtù e grandi sacrifizi, se non hanno per principio, centro e
termine, l’amor suo, si rendono insipidi e senza alcun merito; e perciò mi
diceva:
“La carità è virtù che dà
splendore a tutte le altre, in modo che senza di questa tutte le opere riescono
morte. L’occhio mio non riceve alcun’attrattiva dalle opere fatte senza lo
spirito di carità, giacché dette opere non hanno accessibilità al mio cuore.
Statti perciò attenta a fare le tue opere, anche minime, con lo spirito
informato a carità, cioè fatte in me, con me e per me, con lo spirito di
sacrifizio; altrimenti non saranno riconosciute da me come mie, se non portano
l’impronta della tua e mia mortificazione. Come la moneta, se non portasse
impressa l’immagine del proprio re, non sarebbe ritenuta dai popoli come buona,
ma falsa e quindi di nessun valore, così delle tue opere, se non sono innestate
alla mia croce. Ora non si tratta più di demolire l’affetto alle creature, ma a
te stessa; voglio farti morire in te, per farti vivere solamente in me; voglio,
in una parola, imprimere in te la mia stessa vita. È vero che ciò ti costerà
più di quanto hai fatto finora, ma fatti coraggio e punto temere; non tu sola
ciò farai, ma io insieme con te, e tu con me faremo tutto”.
Mi dava quindi altri novelli lumi
circa l’annichilamento di me stessa, dicendomi: “Tu non sei e non devi
stimarti altro che un’ombra che rapidamente passa, la quale, mentre vai per
prenderla, ti sfugge. Se vuoi, perciò, divenire in me qualche cosa di grande,
stimati sempre nulla; compiacendomi del tuo vero abbassamento, verserò in te il
mio tutto”.
E nel dir ciò, il mio buon Gesù
imprimeva nella mia mente e nel mio cuore tale annientamento di me stessa, che
sentivo di volermi nascondere nei più cupi abissi, e vedendomi impossibilitata
a farlo, provavo tale rossore da vergognarmi di me stessa; e mentre mi trovavo
in questo disfacimento di stima propria, mi diceva: “Fatti sempre più vicina a
me, anzi appoggiati al mio braccio, che ti sosterrò e ti darò forza da operare
sempre e tutto per me”.
11 - L’anima
deve, per prima cosa, far morire in tutto e per tutto la propria volontà,
mortificandola costantemente in ogni cosa.
Essendo Iddio sommamente perfetto
in se stesso, non può assolutamente, uscendo fuori di sé, non aspirare che
l’opera sua non tenda sempre alla massima perfezione. Ora, se tutto ciò che è
stato creato da Dio mira a questo, e non può naturalmente cessare dal tendere
al miglioramento di sé, tanto più la creatura fornita d’intelligenza e volontà,
non deve mai mettere in non cale la sua perfezione, se brama che Iddio abbia a
trovare in lei la Sua compiacenza. Questa creatura, formata da Dio a sua
immagine e somiglianza, può veramente raggiungere la massima perfezione
richiesta da Dio, se sarà in tutto uniformata alla Volontà di Dio e
corrispondente alle grazie da lui elargite. Ora, se il Signore mi sta da
vicino, se vuole che mi appoggi al suo braccio, se con ogni sua attrattiva mi
pressa a gettarmi nelle sue paterne braccia e vuole che da lui debba attingere
tutta la forza per ben operare, non sarei io stolta ed insensata se rifiutassi
questa grazia e non corrispondessi al suo Santo Volere? Perciò io, più che ogni
altra creatura, mi sento in dovere di seguire sempre il mio amabile Gesù, che
mi dice:
“Da te stessa, tu sei veramente
cieca, ma non temere; la luce mia, più che mai, ti sarà di guida, anzi, io
stesso sarò in te e con te ad operare cose meravigliose; seguimi dunque in
tutto e vedrai. Per ora mi metto innanzi a te come specchio, e tu non farai che
guardarmi per imitarmi, ma non perdere di vista la mia persona. La prima cosa
che devi mortificare in te è la tua volontà; devi distruggere in te quell’io,
che tutto brama, fuorché il bene. Questa tua volontà sia sacrificata come
vittima innanzi a me, ed in modo tale da rendere una sola la tua e la mia
Volontà. Non sei tu di ciò contenta? Preparati, quindi, alle contraddizioni che
ti saranno date da me stesso e dalle creature”.
Quindi, come il vento fa
spogliare delle fogliuzze il calice del fiore e presenta il piccolo frutto che
in se si sviluppa, così, alle parole del mio Gesù per far spogliare la mia
volontà da ogni atto volitivo, seguivano le contraddizioni, da cui dovevo io
prendere esempio pratico nella sua imitazione: se al mattino, infatti, mi
svegliavo e subito non mi levavo da letto, la sua voce interna mi diceva: “Tu
comodamente riposi, ed io non ebbi altro letto che la croce; presto, presto,
sollevati, non prenderti tanta soddisfazione”. Se camminavo, e la mia vista si
spingeva un po’ lontano, mi riprendeva subito, dicendomi: “Non voglio che la
tua vista si porti lontano da te non più della lunghezza di un passo, e solo
per non inciampare”. Se mi trovavo in campagna circondata da fiori di ogni specie,
da piante ed alberi, ecc., mi diceva: “Tutto ho creato io per amor tuo, e tu
per amor mio privati di questo diletto”.
Se in chiesa mi vedeva girare lo
sguardo per fissarlo sugli arredi sacri, i paramenti ed altre cose innocenti e
sante, subito mi riprendeva, dicendomi ‘che altro diletto dovevo prendere se
non in lui solo?’. Se stavo comodamente seduta mentre lavoravo, dicevami: “te
ne stai troppo comoda; non pensi che la mia vita fu un continuo penare?”. Ed io
subito, per contentarlo, mi sedevo sulla metà della sedia… Lavorando con
lentezza e svogliatezza: “Presto - mi diceva - aiutati, guadagna il tempo per
stare meco in orazione”.
Talvolta mi assegnava anche il
lavoro che dovevo fare in una data ora, ed io mi affaticavo per contentarlo, e
se non ci riuscivo lo pregavo che venisse ad aiutarmi; ed egli tante volte
accondiscendeva, facendo meco quel lavoro per avermi seco libera, non per
trastullarci, ma quasi sempre per più pregare. Succedeva, quindi, che Gesù in
poco tempo, o da sola o insieme con lui, mi faceva terminare quel lavoro a cui
dovevo occuparmi tutto il giorno, e mi tirava all’orazione in cui mi teneva
tutta assorta nella contemplazione di tanti lumi e grazie che si partono da Dio
alle creature; ed io mi sentivo più invogliata di prima a farlo, ed avrei
voluto, chissà per quanto tempo, continuare a stare in orazione, giacché né
provavo stanchezza, né mai tedio, e tanta sazietà sentivo in me, che ero
contenta di non prendere altro cibo se non quello che veniva dall’orazione; ma
Gesù mi contraddiceva, e subito, all’ora del pranzo, dicevami: “Presto, presto,
non farti attendere; voglio che mangi per amor mio, e mentre prendi il cibo che
si unisce al corpo, mi pregherai di unire il mio amore al tuo, cosicché il mio
spirito venga ad unirsi all’anima tua e ogni cosa tua resterà santificata
dall’amor mio”. Se talvolta, mangiando, sentivo gusto di qualche cosa e
continuavo a mangiare, tosto Gesù mi riprendeva, dicendomi: “Ti sei forse dimenticata
che io non ebbi altro gusto se non che di mortificarmi sempre per tuo amore?
Lascia dunque di mangiare questo, e prendi invece quell’altra cosa a cui non
senti gusto”.
In una parola, Gesù ha cercato di
far morire la mia volontà anche nelle cose più minute, per farla vivere solo e
sempre in lui. Ecco perché il Signore permetteva che anche in questo amore
tutto santo e totalmente per lui mi venissero le più grandi contraddizioni;
tanto è vero che, quanto più vivo si faceva in me il desiderio di avvicinarmi
alla mensa eucaristica, tanto che il giorno precedente e tutta la notte non
facevo altro che prepararmi, per meglio dispormi a riceverlo, non chiudendo gli
occhi al sonno per i continui atti di amore a Gesù, dicevogli spesso spesso:
“Signore, fa presto, che non posso starmi senza riceverti; accelera le ore,
sorga subito il sole, che mi viene meno il cuore per il grande desiderio della
santa comunione”.
E Gesù mi diceva: “Vedi, io sto
solo e soffro senza di te; tu però non darti pena che non puoi dormire, si
tratta di un sacrificio, facendo da lontano compagnia al tuo Dio, al tuo sposo,
al tuo tutto, che è in veglia per amor tuo; vieni a sentire tutte le offese che
continuamente gli si fanno dalle creature… Deh, non negarmi questo sollievo con
la tua amorosa compagnia, affinché i palpiti del tuo amore, unendosi ai miei,
vengano a scemare, in parte, l’amarezza che mi procurano le tante offese che
ricevo di giorno e di notte, ed io non ti lascerò sola nelle tue sofferenze ed
afflizioni, ma ti ricambierò della mia compagnia”.
Ebbene, la mattina seguente, non
appena si faceva giorno, con questo grande desiderio di ricevere Gesù in
sacramento, andavo in chiesa, e recandomi dal confessore, questi, senza che gli
facessi parola, più di una volta mi diceva: “Questa mattina voglio che ti
privi della santa comunione”; il che mi riusciva tanto amaro che alle volte,
mentre mi struggevo in lacrime, non ardivo di palesare nemmeno al confessore
l’amarezza che provava l’anima mia, giacché lo stesso Gesù voleva che mi
comportassi in tal modo, altrimenti mi rimproverava, e voleva però che avessi
piena confidenza in lui, mio sommo bene, per cui gli aprivo spesso il mio cuore
e gli dicevo: “Ahi, mio dolce amore, è questo il frutto della veglia che
abbiamo fatta entrambi questa notte? Chi avrebbe potuto mai immaginare che dopo
tanto aspettare e tanto desiderarti avrei dovuto restare priva di te? Conosco bene
che in tutto e sempre devo ubbidire, ma dimmi, o mio buon Gesù, posso io stare
senza di te? Chi mi darà la forza a starmene priva? E potrò avere io mai il
coraggio di partirmene di chiesa, senza che ti porti meco in casa, mio sommo
bene? Io non so che altro fare, ma tu, o mio Gesù, se vuoi, puoi a tutto
rimediare”. Ma mentre così parlavo mi sentivo un fuoco insolito vicino a me,
poscia una fiamma d’amore mi si accendeva in me, ed una voce interna che così
mi parlava: “Chetati, chetati… Ecco che sono già nel tuo cuore; di che temi
adesso? Non più affliggerti; voglio io stesso asciugarti le lacrime… Poverina,
tu hai ragione, che non potevi stare senza di me, non è vero?”.
A questo operato di Gesù ed a
questo suo parlare, io ne restavo sorpresa, e tanto annientata in me stessa,
che rivolta al mio Gesù gli dicevo: “Se io fossi stata buona, e non così
cattiva, non avresti data l’ispirazione al confessore di contraddirmi così”. E
lo pregavo, quindi, a non permettere più simili contraddizioni, perché senza di
lui non avrei potuto affatto resistere, e avrei fatto chissà quanti spropositi.
12 - Gesù
vuole innamorare l’anima del patire per amore suo, perciò la porta ad
immergersi nel mare sconfinato della sua passione. La prima visione di Gesù
penante.
Un giorno, finalmente, dopo la
comunione, me lo sentii dentro di me tutto amore e mostrandomi tanto affetto
che io ne fui meravigliata, per cui gli dissi: “Donde, Gesù mio, tanta bontà
verso di me, così cattiva ed incorrispondente al tuo amore? Fossi almeno buona…
Ti corrispondessi almeno… Io temo che per la mia incorrispondenza tu mi abbia
da lasciare; ed invece ti veggo, ora, tutto bontà, e più d’ogni altro tempo
stringerti meco più intimamente”. E Gesù sempre più affabile: “Diletta mia, le
cose passate non hanno fatto altro in te che un piccolo preparativo; adesso
voglio venire all’opera. Voglio disporre così il tuo cuore, che tu venga ad
internarti nel mare immenso dell’acerbissima mia passione, affinché tu, quando
avrai ben compreso l’acerbità delle mie pene, l’amore che mi divorava nel
desiderio di soffrirle tutte per te, e poi, chi sono io, che per te le ho
sofferte, e chi sei tu, vilissima creatura, allora non ti opporrai ai colpi e
ai dolori della tua passione che soffrirai per amor mio, e con animo acceso di
amore accetterai la croce che io, per te, da un pezzo tengo preparata. Anzi, al
solo considerare che io, tuo maestro, tanto ho sofferto per te, ombre ti
parranno le tue pene, dolce ti sarà il patire, e giungerai a non poter stare
senza patimenti”.
A questo parlare di Gesù mi
sentivo più che mai ansiosa di patire, ma nondimeno la natura fremeva allora,
al solo pensare ai patimenti a cui dovevo sottopormi, e quindi pregavo Gesù che
mi avesse dato dinanzi al patire tanta forza e coraggio da farmi sentire amore
allo stesso patire a cui egli mi chiamava, affinché non mi servissi dello stesso,
avuto come dono, per offendere lui come donatore.
E Gesù, tutto bontà e dolcezza:
“Ciò, mia cara, va da sé, perché se non si sentisse, in qualsiasi cosa che
s’intraprende, un certo che di trasporto e di amore, non la si potrebbe certo
ben eseguire; e chi la intraprende di malavoglia, anche a portarla a termine,
non riceverà da me il guiderdone. Sappi che tu, per innamorarti della mia
passione, prima di ogni altra cosa, dovrai considerare con pacatezza e riflessione
tutto quanto che ho patito per te, affinché tu possa farti il giudizio conforme
al mio, del vero amore, che nulla eccettua pel bene della persona amata”.
Così incoraggiata da Gesù, mi
diedi a meditare la sua passione, che fece tanto bene all’anima mia, che posso
ben asserire, senza tema di errare, che tutto il bene mi è venuto da questa
fonte di grazia e di amore. D’allora in poi, la passione di Gesù si fece strada
non solo nel mio cuore e nel mio spirito, che sentiva al vivo la compassione,
ma ancora, mercé questa considerazione, tutto il mio corpo veniva preso da tale
orgasmo da provare i dolorosi effetti della stessa passione… Mi vedevo immersa
in essa come in un mare immenso di luce, che coi suoi infocati raggi tutta mi
compenetrava nell’amore di Gesù, che tanto aveva patito per me; sentivo poscia
che quegli infiniti raggi mi facevano comprendere chiaramente la pazienza,
l’umiltà, l’obbedienza e la carità di Gesù, in ciò che ebbe a sopportare per
amor mio, che io ne restavo del tutto annichilita, conoscendomi tanto dissimile
da lui. Quei raggi che m’inondavano erano, per me, tanti rimproveri, che
tacitamente mi dicevano: “Un Dio tanto paziente; e tu…? Un Dio sì umile e
sottomesso anche agli stessi suoi nemici; e tu? Un Dio tutto carità, per te
soffre tanto; e le tue sofferenze per amor suo, dove sono?”.
Altre volte, poi, Gesù stesso mi
faceva la narrazione delle acerbe sue pene e dolori, da lui sofferti per amor
mio, ed io ne restavo tanto commossa da piangere amaramente… Ed un giorno, più
che mai, mentre lavorando consideravo le acerbissime pene di Gesù, sentii il
mio cuore talmente oppresso da sentirmi mancare il respiro, e temendo che
stesse per accadermi qualche male volli distrarmi con l’uscire fuori al
balcone. Ma cosa veggo io mai? In mezzo alla strada, una folla immensa di gente
che passava di sotto al balcone, conducente il mio mansuetissimo Gesù, con la
croce sulle spalle, che veniva tirato or da una parte ed or dall’altra. Lo
scorgevo affannoso, col volto grondante sangue, ed in un atteggiamento sì
pietoso da intenerire le stesse pietre, allorché alzò gli occhi verso di me, in
atto di chiedermi soccorso. Chi può dire, ora, il dolore che provai in me? Chi,
l’impressione prodottami da scena sì straziante…? Entrai subito nella mia
stanza, non sapendo io stessa ove mi trovassi; il cuore me lo sentivo spezzare
dal dolore e, piangendo dirottamente, fra me dicevo: “Quanto soffri, o mio buon
Gesù! Potessi almeno aiutarti e liberarti da quei lupi così arrabbiati, o
almeno soffrire io quelle tue pene, quei tuoi dolori e strapazzi in vece tua,
per dare a te il più grande sollievo…! Deh, mio bene, dammi il patire, perché
non è giusto che tu debba soffrire tanto per amor mio, ed io, peccatrice,
starmi senza soffrire nulla per te”.
E Gesù, d’allora, mi accese tanto
di amore per il dolce patire, che mi riusciva più doloroso il non patire; e
questa brama si fece sì viva in me, che non si è smorzata mai più in me, tanto
che nella comunione non chiedo altro, ardentemente, che mi renda simile a lui
per mezzo del dolce patire. Ed egli pare che talvolta mi abbia soddisfatta, togliendosi
ora una spina della sua corona e conficcandola nel mio cuore, ora conficcando
qualche altra alla mia testa, e talvolta i suoi chiodi alle mani ed ai piedi,
facendomi soffrire acerbissimi dolori, ma mai pari a quelli sofferti da lui…
Altre volte mi è parso che Gesù
avesse preso il mio cuore fra le sue mani, e che lo stringesse tanto forte che,
per il dolore, mi sentivo perdere i sensi; e per tema che le persone che mi
circondavano potessero accorgersi di ciò che avveniva in me, lo pregavo
dicendogli: “Mio Gesù, di grazia, fa in modo che io soffra, ma che tutto sia
nascosto”. Mi contentò sino ad un certo tempo, ma poi, a causa dei miei
peccati, qualche cosa avvertirono esse.
13 - Gesù vuole che l’anima tocchi con mano il proprio nulla e si
disponga alla più profonda umiltà, e perciò la priva d’ogni consolazione e grazia
sensibile, occultandosi a lei.
Talvolta, dopo la comunione, Gesù
mi diceva: “Non potrai veramente somigliarti a me, mercé i patimenti che soffri
in mia presenza, giacché io mi muovo ad aiutarti; ora voglio lasciarti un po’
sola, però sii più attenta di prima, giacché non ti darò più la mano per
sorreggerti, e non sarò a correggerti in tutto. Se per il passato non hai fatto
altro che seguirmi nell’imitazione, ora farai e soffrirai tutto di buon animo,
pensando solo che ti starò cogli occhi fissi sopra di te, però senza farmi da
te né vedere né sentire; e quando tornerò a farmiti vedere, verrò per premiarti
se sarai stata fedele nel seguirmi, oppure per castigarti se mi sarai stata infedele”.
A tale intimazione restai tanto
spaventata ed atterrita, che gli dissi: “Signore, tu che sei il mio tutto e la
mia vita, dimmi, come potrò vivere senza di te, mio bene? Chi mi darà la forza
per ben comportarmi? Tu solo sei stato, tu solo sei e tu solo sarai la mia
forza ed il mio sostegno. Può essere mai che tu, dopo che mi hai fatto lasciare
il mondo esterno e tutto ciò che mi circondava, in modo che mi sento come se
nessuno più esistesse per me, vuoi ora lasciarmi in balìa di me stessa e priva
della tua presenza? Hai forse dimenticato che io sono sì cattiva, e che senza
di te nulla posso fare di bene?”.
E Gesù, con aspetto dolce e
sereno: “È appunto per questo che ciò faccio, per farti ben capire chi sei tu
senza di me. Non ti rattristare, che lo faccio per il tuo maggior bene, volendo
così preparare il tuo cuore a ricevere nuove grazie che mi riserbo versare su
di te. Sinora ti ho assistita visibilmente; adesso invisibilmente, per farti
toccare con mano il tuo nulla; ti sprofonderò nella più profonda umiltà e ti fonderò
nella mia grazia, la più eletta, per edificare sopra di te le altissime mura
di ciò che intendo fare di te. Perciò, invece di affliggerti, dovresti prendere
motivo di rallegrarti meco e ringraziarmi, ché quanto più presto ti farò oltrepassare
questo mare tempestoso, tanto più presto giungerai al porto di salvezza; e
quanto più dure saranno le prove a cui ti assoggetterò, tante più grazie ti
largirò. Coraggio, dunque, che verrò presto a consolarti nelle pene”.
Sì dicendo, si sottrasse dalla
mia vista, benedicendomi. Chi può dire la pena che sentii, il vuoto che mi
lasciò nel cuore, le amarezze che m’inondarono l’anima, e le lacrime che
versarono i miei occhi, nel vedere che Gesù, benedicendomi, si allontanava da
me? Mi rassegnai però alla sua Santissima Volontà e, dopo aver baciato da
lontano le mille volte quella mano che mi aveva benedetta, dando freno alle lacrime,
presi a dire: “Addio, sposo santo, addio… Ricordati della promessa fattami, di
farti cioè presto vedere; assistimi sempre ed ognora difendimi e fammi tutta
tua”.
Sì dicendo, mi vidi allora tutta
sola, come se per me tutto fosse finito, giacché lui solo tenevo, e mancandomi
lui non mi restava altra consolazione; e perciò, tutto ciò che mi circondava si
convertì in pene amarissime, poiché le stesse creature mi stuzzicavano in modo
tale che mi pareva ascoltarle nel loro muto linguaggio, come se mi dicessero:
“Vedi, noi siamo opera del tuo amante e amato bene; ed egli ora, dov’è?”.
Se guardavo l’acqua, il fuoco, i
fiori, le stesse pietre della mia stanza, e che so io, pareva che tutti mi
dicessero: “Ah, vedi, tutte queste cose sono opera del tuo sposo, e sebbene hai
il bene di vedere queste sue opere, non hai il bene di vedere il loro
Creatore”. Ed io: “Deh, opere del mio Signore, ditemi voi, che n’è di lui?
ditemi dov’egli trovasi. A me disse che sarebbe presto tornato, ma chi di voi saprebbe
dirmi quando dovrà tornare, quando lo rivedrò?”. In tale stato, eterni
sembravami i giorni, sempiterne le notti in veglia, le ore e i minuti come
secoli ed anni che nient’altro arrecavano che amare desolazione, da farmi
sentire venir meno il palpito del cuore ed il respiro, ed alle volte mi si
gelava tutta la persona ed ero presa da un certo fremito di morte che tutta
m’invadeva, per cui le persone di famiglia vennero ad avvertirsi del mio male.
Ma tutto ciò che allora soffrivo
venne attribuito a male fisico, e quindi la famiglia insisteva che mi dovessi
curare; e tanto mi si disse e si fece, che dovetti sottopormi alla visita
medica, che non mi fece alcun pro. Io intanto continuavo a rammentarmi di
quanto aveva detto ed operato in me il buon Gesù; mi ricordavo per filo e per
segno tutte le sue grazie, tutte le sue dolci ed affabili parole, una per una
tutte le paterne sue esortazioni e correzioni, e i singoli suoi rimproveri per
richiamarmi al dovere del suo amore.
14 - L’anima
sperimenta che non è capace di niente senza di Gesù, e che a lui deve tutto.
Gesù, il vero direttore spirituale, la istruisce circa il modo da tenere nello
stato di oscurità ed abbandono, nella preghiera, nella comunione e nelle visite
a Gesù sacramentato.
Sarei una falsaria se non
asserissi che tutto ciò che si è operato fin qui non sia stato operato se non
nella piena grazia, elargitami in gran copia dal Signore, che del mio non v’è che
il puro niente e l’inclinazione al male; sicché dico francamente d’aver toccato
con mano che, senza le tante grazie e lumi, non avrei potuto far altro che
male. Ed in vero, chi mi sottrasse dalle frivolezze del mondo se non il mio
amabile Gesù? Chi mi fece sentire quel forte incitamento a fare la novena di
Natale, con nove meditazioni quotidiane sul mistero dell’incarnazione di Gesù,
per cui ebbi tanti lumi superni e grazie celesti? Di chi quella voce che internamente
cominciò a parlarmi nell’intimo del cuore, lungo la detta novena, e che poi ha
continuato sino ad oggi, non dandomi tregua né pace se non avessi fatto
prontamente ciò che mi chiedeva? E quel modo usato nel farmi innamorare di lui,
facendosi da me vedere in forma di graziosissimo bambino? E quel farmi da
maestro, con l’insegnarmi, correggermi, rimproverarmi, per indurmi a spogliare
il cuore da quelle affezioncelle, infondendomi il vero spirito di
mortificazione, di carità e di orazione, per cui mi feci strada nell’internarmi
nel mare immenso della passione di Gesù, e da cui attinsi quella dolcezza nel
patire, e quella vera amarezza nel non soffrire; non è stata tutta grazia sua,
suo dono, anzi, opera vera di Gesù? Ed ora che vuole scherzare meco, col
sottrarsi dalla mia vista, tocco con mano che senza di lui non sento più
quell’amore sì sensibile che sentivo prima per Gesù, non più quei lumi così
chiari nelle meditazioni, da farmi stare due o tre ore assorta nella dolce
considerazione… Ora, sebbene faccio quanto più posso per continuare a fare
quello che facevo con lui, giacché mi sento ancora ripetere quelle sue parole:
‘Se mi sarai fedele verrò a premiarti; se ingrata, verrò per castigarti’, pur
nonpertanto non ci riesco, come quando mi stava visibilmente o sensibilmente da
vicino. In questo stato di privazione del mio Gesù passavo la santa giornata
quasi sempre in amarezza, in silenzio ed in aspettazione di lui, che ancor non
veniva come mi aveva promesso: “Verrò presto da te”.
L’unico conforto, intanto, era il
riceverlo in sacramento, giacché qui certo lo trovavo e non potevo dubitare,
tanto più che, alle reiterate mie suppliche, mi contentava quasi sempre col
farsi sentire palpitante nel mio cuore, sebbene non così amoroso ed affabile
come prima di mettermi alla prova, ma piuttosto severo e senza farmi parola.
Passato, finalmente, quel periodo di tempo, facendo ogni cosa voluta da Gesù
alla men peggio, me lo sentii tornare nel cuore e mi parlò in questi termini:
“Dimmi, figlia del mio Volere, tutto ciò che vuoi; manifestami tutto ciò che è
passato in te di dubbi, di timori, e tutte le tue difficoltà, a fine
d’insegnarti il modo di comportarti in avvenire, in cui sarò assente”.
Ed io, allora, gli feci fedele
narrazione, dicendogli: “Signore, vedi, senza di te niente ho potuto fare di
bene: la meditazione mi è riuscita molto disgustosa, da non aver il coraggio di
offrirtela; nella comunione non sentivo di trattenermi a lungo, mancandomi le
attrattive del tuo amore; mi son sentita sempre vuota e sempre penosa della tua
assenza, che mi ha fatto provare agonie di morte; la natura, di tutto voleva
sbrigarsi subito per sfuggire quella pena di vedersi sola, e tanto più che il
trattenermi a lungo mi sembrava perdita di tempo; ma il timore, però, che al
tuo ritorno venissi da te castigata se mi fossi resa infedele, mi ha fatto continuare.
Aumentava poi l’interna mia pena il considerare che tu, mio bene, di continuo
vieni offeso, ed io, di quegli atti di riparazione, di quelle visite a te
sacramentato, che mi facevi fare, niente ho potuto far bene senza di te, perché
non trovavo Colui col quale potermela intendere… Ora che sei meco, dimmi un
po’, come dovevo io fare?”.
Ed egli, benignamente
ammaestrandomi, mi diceva: “Hai fatto male a startene così turbata; non sai tu
che io sono spirito di pace, e che la prima cosa che ti ho raccomandato è stata
di non funestarla mai nel tuo cuore? In quanto all’orazione, poi, quando non ti
senti raccolta, non devi pensare ad altro, se non a startene tranquillamente in
essa, ma non al motivo perché non ti sia riuscita; facendo come tu dici, vieni
tu stessa a procurarti la stessa distrazione. Umiliati invece, confessandoti
meritevole di quelle [sofferenze], e statti tranquilla; e come agnellino nelle
mani del carnefice, che mentre viene ucciso gliele lambisce, così tu, mentre ti
vedrai percossa, abbattuta e sola, dovrai rassegnarti alle mie disposizioni,
ringraziarmi di tutto cuore, riconoscendoti anzi degna di quelle pene, e mi
offrirai tutte le tue amarezze, tedi ed angustie, come sacrifizio di lode, di
soddisfazione, ed in riparazione delle offese che mi vengono fatte. Facendo
così, la tua orazione [salirà] come incenso odorosissimo sino al mio trono,
ferirà il mio cuore ed attirerai su di te novelle grazie e nuovi carismi. Il
demonio, poi, vedendoti così umile, rassegnata e tutta inabissata nel tuo nulla,
non avrà più forza di avvicinarsi a te e si morderà le labbra per sdegno. Ecco
come condurti in tale stato, per acquistare meriti ove credevi di demeritare.
In quanto alla comunione poi, non
voglio che ti affligga quando non ti senti di trattenerti a lungo, priva delle
attrattive del mio amore. Fa quanto puoi per ben ricevermi; ringraziami dopo di
avermi ricevuto; chiedimi quelle grazie ed aiuti di cui hai bisogno, e del
resto non ti dar alcun pensiero, giacché quello che ti fo soffrire nella
comunione non è altro che un’ombra delle pene che soffrii nel Getsemani. Se ora
ti affliggi tanto, che sarà di te quando ti farò partecipe dei flagelli, delle
spine e dei chiodi? Ti dico questo, perché il pensiero che metto ora in te delle
pene maggiori, ha valore di farti soffrire con più coraggio queste minori…
Quando nella comunione ti troverai dunque sola ed agonizzante, pensa un po’
all’agonia di morte che soffrii per te nell’orto del Getsemani, e mettiti
vicino a me, per fare allora un confronto tra le tue e le mie acerbe pene. È
vero che ti sentirai ancor là, sola e priva di me, ma vedrai ancor me solo ed
abbandonato dai più fidi amici, che per aver omessa l’orazione li scorgerai
addormentati; mi vedrai, coi lumi che ti darò, in mezzo alle più acerbe pene,
circondato da aspidi e da vipere velenose, da cani idrofobi, quali sono i
peccati di tutti gli uomini che furono, sono e saranno da venire al mondo,
compresi anche i tuoi, che nell’assieme mi pesavano tanto allora, da farmi
agonizzare, e mi sentivo come se stessi per essere divorato vivo; e fu per
questo che, sentendo il mio cuore e tutta la mia persona come messa sotto la
pressione d’un torchio, sudai vivo e copioso sangue da bagnare anche il
terreno; e a tutto questo, aggiungi ancora l’abbandono del Padre mio…
Ora, dimmi tu: quando il tuo
penare si è esteso a tanto? Se ti trovi dunque priva di me, vuota di ogni consolazione,
ripiena di amarezze, colma di affanni e pene, portati con la mente presso di
me, procura asciugarmi quel sangue, ed in sollievo della mia acerbissima agonia
offrimi quelle tue ben lievi pene, e troverai così modo ed esca con cui
trattenerti meco dopo la comunione. Non voglio con ciò dirti che [tu] non debba
soffrire, giacché la mia privazione per se stessa è la pena più dura ed amara
ch’io possa infliggere alle anime care; ma tu, intanto, pensa che col tuo
penare e con la conformità alla mia Volontà mi darai gran sollievo e
consolazione. Finalmente, in quanto alle visite che mi farai ed agli atti di
riparazione, ho da dirti che io, nel sacramento del mio amore che ho istituito
per te, continuo a fare ed a soffrire tutto ciò che feci e soffrii nel corso di
trentatré anni di vita mortale. Amo nascere nel cuore di tutti i mortali, e
perciò ubbidisco a chi dal cielo mi chiama ad immolarmi sull’altare; mi umilio
nell’aspettare, nel chiamare, nell’ammaestrare, nell’illuminare, e chi vuole
[può] ristorarsi di me sacramentato; a questi do consolazione, a quegli
fortezza, e prego perciò il Padre che lo perdoni; vi sto per arricchire gli
uni, per sposarmi agli altri, veglio per tutti; difendo chi vuol essere da me
difeso; divinizzo chi vuol essere divinizzato; accompagno chi vuol essere
accompagnato; piango per gli incauti e per gli scapestrati; mi rendo adorante
in perpetuo per reintegrare l’armonia universale e per compiere il supremo disegno
divino, qual è la glorificazione assoluta del Padre, nel perfetto omaggio da
lui richiesto, ma che non gli viene dato da tutte le creature per cui mi sono
sacramentato. Perciò voglio che tu, in ricambio di questo mio infinito amore
verso il genere umano, mi faccia quotidianamente trentatré visite, onorando con
esse gli anni della mia umanità, passati tra voi e per voi tutti, figli miei,
rigenerati nel mio preziosissimo sangue, e che, insieme, tu unisca te a me in
questo sacramento, avendo mira di far sempre le mie intenzioni di espiazione,
di riparazione, d’immolazione e di adorazione perpetua.
Queste trentatré visite le farai
sempre, in tutti i tempi, ogni giorno, ed in qualsiasi luogo potessi trovarti,
giacché io le accetterò come se venissero fatte alla mia presenza sacramentale.
Il tuo primo pensiero, al mattino, devi farlo volare a me, prigioniero d’amore,
per darmi il tuo primo saluto d’amore per me, e quindi la prima confidenziale
visita in cui, tu a me ed io a te, ci domanderemo scambievolmente come abbiamo
passata la notte e c’incoraggeremo a vicenda; e così, l’ultimo tuo pensiero e
l’ultimo tuo affetto della sera sarà che tu venga ancor da me, affinché ti dia
la benedizione e affinché ti faccia riposare in me, con me e per me; e tu
intanto mi scoccherai l’ultimo bacio d’amore, con la promessa d’unione con me
sacramentato. Le altre visite me le farai come meglio ti si presenterà
l’occasione più propizia a concentrarti tutta nel mio amore”.
Mentre Gesù così parlava, io
sentivo scendere nel mio cuore un non so che di grazia, la quale lavorava in me
in modo tale da farmi sentire il cuore quasi liquefatto d’amore, e la mente
circonfusa da tante idee che si sperdeva in un’immensa luce di amore, per cui
mi feci ardita a supplicarlo così: “Mio buon maestro, di grazia, te ne
supplico, deh, statti meco e sempre più vicino, affinché sotto la tua direzione
io prenda l’attitudine e l’abitudine a farle bene, giacché conosco, a prova,
che tutto posso con te, ma senza di te sono incapace di fare alcunché di bene,
ma solo capace di fare tutto il male”.
E Gesù, sempre benigno, mi
soggiunse: “Sì, sì che ti contenterò in questo, come ti ho appagata in tante
altre cose. Io voglio soltanto la tua buona volontà, ed io, qualsiasi aiuto tu
voglia da me, te lo darò ben volentieri ed a profusione”.
Ah, quanto è stato buono con me
il dolce Gesù, poiché mai la sua promessa è venuta meno! Anzi, ho da dire il
vero, che egli ha dato ed ha fatto per me più di quanto mi aveva promesso,
perciò ci son riuscita a contentarlo; e dal suo operato, lungi da me discaccio
qualsiasi dubbio o perplessità di cuore, se mi dicessero non essere ciò che si
opera in me se non che frutto di fantasia, giacché in quei giorni passati nella
privazione del mio Gesù non potevo concepire nemmeno un buon pensiero, né dire
una parola informata allo spirito di carità, né sentivo per alcuno nessuna
attrattiva di bene.
15 - Gesù
sollecita l’anima, per arricchirla ed abbellirla di più ed unirla più
intimamente a sé, a sostenere una terribile lotta contro i demoni.
Nel corso del tempo in cui Gesù
sempre più si è appressato a me, mi ha parlato e mi si è fatto vedere, ho ben
compreso ancora che Gesù, quando se ne viene con modi insoliti, non ha altro di
mira che di disporre l’anima mia a nuove e pesanti croci; ed infatti, prima
l’attira a sé con gli stratagemmi della sua grazia, per cui l’anima si sente
vincolata di amore, e poscia le presenta l’obbiettivo delle sue attrattive,
affinché non ardisca menomamente opporvisi. Ed in vero, un giorno, dopo la
comunione, mi sentii più intimamente unire a lui coi dorati lacci dell’amore, e
mi fece una tempesta di amorose domande, e fra le altre: “Mi vuoi tu veramente
bene? Sei tu disposta e pronta a fare ciò che io voglio da te? Se volessi da
te, ancora, il sacrifizio della vita, saresti disposta, per amor mio, ad
accettarlo di buon animo? Sappi che, se sei pronta a fare tutto ciò che io
voglio, farò io a te e per te ciò che tu vuoi da me”.
Ed io: “Sì che ti voglio bene,
mio amore e mio tutto; può darsi, forse, oggetto più bello, più santo, più amabile
di te, mio bene? E poi, perché domandarmi se sia o no pronta a fare ciò che tu
vuoi, mentre è da gran tempo che ti ho consegnata la mia volontà, ti ho pregato
a non risparmiarmi punto, anche se tu volessi farmi a pezzi, e son disposta,
purché potessi darti sempre gusto? Io mi sono abbandonata in te, sposo santo;
opera quindi in me e su di me liberamente come meglio ti aggradi, fa di me
quello che tu vuoi, ma dammi sempre novella grazia, che da me sola nulla
posso”.
Ed egli: “Ma veramente sei tu
pronta a tutto ciò che io voglio da te?”.
A questa iterata sua domanda, io
mi sentivo schiacciare, mi vedevo confusa ed annientata; ma fidente in lui, con
coraggio gli dissi: “Mio sempre amabile Gesù, nella mia nullità io sono quasi
vacillante e tremebonda, ma diffidando di me confido animosamente in te, da cui
mi sento venire quella prontezza di animo che mi farà affrontare e sormontare
qualsiasi ostacolo e cimento”.
E Gesù a me: “Ebbene, voglio
purificare l’anima tua da ogni minimo neo che potesse impedire l’amor mio in
te; voglio provare la tua fedeltà verso di me, affinché possa averti come tutta
mia; voglio constatare che tutto ciò che mi hai detto sia vero… Perciò voglio metterti
alla prova di un’asprissima battaglia; ma tu in questo nulla hai da temere, ché
io sarò tuo braccio e tua forza, e nulla di sinistro soffrirai, giacché io
combatterò assieme con te e per te. La battaglia dunque è pronta; i nemici sono
in tenebroso nascondiglio, ad escogitare il più aspro agguerrimento, ed io darò
loro libertà di assalirti, di tormentarti e tentarti in ogni modo, affinché
quando tu ti sarai liberata, mercé le armi delle tue virtù, che vibrerai contro
i vizi opposti da loro, essi resteranno scornati per sempre, e tu ti troverai
in possesso di maggiori virtù, e l’anima tua ritornerà come un re, il quale,
dopo aver vinta la battaglia, glorioso fa ritorno al suo regno, fregiato di
corone, medaglie e meriti, menando seco immense ricchezze. Così l’anima tua,
abbellita ed arricchita di nuovi meriti, avrà da me non solo nuovi doni, ma io
stesso a lei mi donerò. Coraggio dunque, che io, dopo la riportata vittoria
della pugna sostenuta contro i demoni, immediatamente dopo formerò in te la mia
stabile e perenne dimora, e così saremo sempre uniti. È vero che io ti metto in
una prova molto dolorosa ed in un’accanita e sanguinosa lotta, giacché i demoni
non ti daranno riposo né tregua, né di giorno, né di notte; ma tu intanto abbi
sempre di mira quanto io ti propongo. Nel mio nome darai principio alla pugna;
durante l’agone questo nome sarà da te continuamente invocato, ché ti servirà
da baluardo di sicurezza; e questo[9]
metterai come suggello al compimento della tua più dolorosa prova, incominciata,
sostenuta e terminata vittoriosamente nel mio Volere, che vuol renderti
onninamente simile a me; per cui non c’è altra via, né altro mezzo per
giungervi, se non per mezzo d’indicibili ed immense tribolazioni, le quali poi
ti verranno ben ricompensate”.
Chi può dire, ora, come restai
costernata e impaurita nel sentire dal buon Gesù presagirmi l’accanita guerra
che dovevo sostenere contro i demoni? Mi sentii gelare il sangue nelle vene,
rizzare uno per uno tutti i capelli; la mia immaginazione si riempì tutta di
neri spettri, che mi figuravo in atto di volermi divorare viva; già sembravami
che d’ogni intorno fossi circondata di spiriti infernali. In questo stato sì
doloroso ed angosciante, mi rivolsi al mio Gesù, dicendogli: “Signor mio, abbi
tu pietà di me! Deh, non lasciarmi sola e così abbattuta di animo; non vedi che
i demoni mi si appressano con tanta rabbia, che di me certo non lasceranno neppure
la polvere? Come potrò loro resistere, se tu ti allontani da me? A te è ben
nota la mia freddezza ed incostanza nel bene; sono tanto cattiva da non saper
fare altro che male senza di te, mio bene; dammi almeno novella grazia, e sì copiosa,
da non poterti più offendere. Non sai tu qual è la pena che più strazia l’anima
mia? Ah, è il solo pensiero che tu possa lasciarmi sola nel diabolico cimento,
per cui mi sento sbigottire e venir meno per la paura… Chi mi darà, in tal
caso, animo per avventurarmi nel presagito combattimento? A chi rivolgerò la
mia supplica, mercé la quale possa ottenere l’insegnamento pratico, per debellare
il nemico? Fin da ora però benedico il tuo Santo Volere, e con le parole della
tua e mia Santissima Madre, rivolte da lei all’arcangelo Gabriele, ti dico con
tutto lo slancio del mio cuore: ‘Ecco la tua serva, si faccia di me secondo la
tua parola, che è di vita eterna’ ”. A tali mie parole, Gesù riprese a dirmi:
“Non affliggerti tanto; sappi che
giammai permetterò loro[10] che
ti tentino sopra le tue forze; e sappi ancora che giammai io metto le anime in
battaglia con loro, per fare che periscano; infatti, io prima misuro le loro[11]
forze, dono la mia grazia efficace, e poi le introduco nell’aspra pugna, e se
qualche anima talvolta precipita, non avviene mai per mancanza della mia
grazia, ma perché non ha voluto tenersi unita con me, mercé la continua
preghiera; omessa questa, è andata costei mendicando dalla creatura quella
sensibilità smarrita del mio amore, senza considerare che soltanto io posso
riempire e saziare il cuore umano; oppure, fondandosi costei nel proprio
giudizio, si è di molto discostata dalla via sicura dell’obbedienza, credendo
superbamente che il suo fosse più esatto e più equilibrato del giudizio di chi
è guida di anime in vece mia… Quale meraviglia, che anime di sì dura tempra vi
precipitino?
Ti raccomando, dunque, prima di
ogni altra cosa, la costante preghiera, ancorché avessi a soffrire pene di
morte, non tralasciando quelle preghiere che sei solita di fare; anzi, quanto
più prossima ti vedrai al precipizio, tanto più nella preghiera fidente
m’invocherai, nella piena certezza di essere da me aiutata. Di più voglio che
da ora innanzi apra il tuo cuore al confessore, palesandogli tutto ciò che si
svolgerà in te, nelle mani del quale ciecamente metterai la soluzione problematica
del tuo avvenire, senza disanimo; e di quanto ti sarà detto, nulla tralascerai
di mettere in esecuzione, rammentandoti allora ciò che ti dico ora: che sarai
circondata da fitte tenebre, e tu ti troverai come chi non ha occhi, per cui ha
bisogno d’una mano amica che lo guidi. Per te, l’occhio sarà la voce del
confessore, che come luce e vento dissiperà le tenebre; la mano sarà
l’obbedienza, che ti farà da guida e da sostegno per farti giungere a porto
sicuro. Per ultimo ti raccomando il coraggio; voglio che entri con intrepidezza
in battaglia, poiché la cosa che più fa temere un esercito nemico è notare il
coraggio e la forza con cui gli avversari si avventurano alla pugna,
affrontando essi, senza punto temerli, i più sinistri attacchi. Così i demoni,
nulla più temono che un’anima agguerrita del suo coraggio, che si basi su di
me, ed a me poggiata entri in mezzo a loro, rendendosi invitta sterminatrice di
chi si para dinanzi, in modo che, atterriti e spaventati, vorrebbero darsi a
precipitosa fuga, ma non possono, perché legati dalla mia Volontà, sono
costretti a subire il più grande tormento e la loro maggior disdegnosa resa.
Coraggio dunque, coraggio, che se mi sarai fedele, ti somministrerò sempre più
copiosa la mia grazia e novella forza, affin di riuscire vittoriosa su di loro”.
Chi può dire, ora, il cambiamento
che successe allora nel mio interno? Quale orrore, ahimè, s’impossessò di me!
Quell’amore verso il mio amabile Gesù, che poco anzi sentivo vivamente in me,
si convertì in odio atroce, il quale mi cagionava una pena indicibile, che
l’anima si sentiva straziare al pensare che quel Signore, che era stato meco
tanto benevolo, ora veniva da me come aborrito e bestemmiato, come se fosse
divenuto il più crudele nemico; e poi, quel non poterlo più guardare nelle sue
immagini perché sentivo impeto d’odio, il non poter avere in mano corone del
santo rosario, né baciarle, perché ero portata a ridurle in frantumi,
richiedeva tale resistenza che la natura tremava da capo a piè. Oh Dio, che
pena amarissima! Io credo che se nell’inferno non ci fossero più pene, la sola
pena di non potere più amare Dio sarebbe quella che formerebbe l’inferno, come
fu, è e sarà orribile. Il demonio, talvolta, mi metteva innanzi tutte le grazie
che il Signore mi aveva elargito, come se fosse stato un dilettevole lavorio
della mia fantasia, e mi spingeva quindi a darmi alla vita libera e più comoda;
altre volte, poi, me le manifestava come vere, e mi rimproverava col dirmi:
“Vedi il gran bene che Gesù ti voleva? Ed ora mira la ricompensa che ti ha data
in cambio della tua corrispondenza alle sue grazie, lasciandoti, come vedi,
nelle nostre mani: sei nostra, ora, sei tutta nostra; per te tutto è finito,
essendo divenuta come un trastullo infantile; non c’è più da sperare ch’egli
possa riamarti...”.
A queste infernali parole di
satana, io mi sentivo come sopraffare da un inesprimibile sdegno contro del
Signore e da una estrema disperazione di salvezza, tanto che, avendo talvolta
fra le mani immagini, fui spinta dalla forza dello sdegno e della disperazione
a romperle a pezzi; se non che, nell’atto stesso che ciò facevo, piangevo a
calde lacrime, e nel contempo baciavo e ribaciavo i pezzi di detta immagine. Se
mi si domandasse come ciò avveniva, non saprei rispondere altro, che mi sentivo
costretta a fare l’una e l’altra cosa; mi convinco però, ora, che l’atto di
romperla mi veniva dal demonio con impeto irrefrenabile, mentre l’atto di
baciarla me lo sentivo come effetto della grazia che operava in me. Ripensando
perciò, subito dopo, a ciò che avveniva in me, sentivo l’anima straziata dal dolore;
ed i demoni scorgendo ciò che facevo, credendosi corrisposti, facevano festa,
se la ridevano e, facendo un chiasso indiavolato di assordanti grida e rumori,
mi dicevano: “Vedi come ti sei resa nostra? Non ci resta a fare altro che
portarti all’inferno anima e corpo, e quanto prima vedrai che ciò faremo!”.
I poverini però non [vedevano] il
mio interno, che era sempre unito al mio Gesù, al quale volevo un mar di bene,
e perciò baciavo e ribaciavo quei pezzi d’immagine, piangendo. Essi, che sono
affatto alieni dalla preghiera, ogniqualvolta mi vedevano prostrata per terra,
per pregare, si arrabbiavano tanto, che ora mi tiravano la veste ed ora la
sedia a cui ero appoggiata, e m’incutevano tale timore da farmi smettere
talvolta la preghiera, credendo potermi così liberare da loro. E tutto ciò
succedeva specie di notte, e quindi me ne andavo a letto; e per conciliare il
sonno, mentalmente pregavo, e questi, accorgendosene forse, mi molestavano col
tirarmi di dosso coperte e lenzuola e cuscino, e non potendo i miei occhi
chiudersi al sonno, restavo allora in veglia, come colui che sa di avere presso
di sé un crudele nemico che abbia giurato di togliergli a qualunque costo la
vita, e che attende l’ora propizia per vibrargli il colpo fatale di morte. Mi
sentivo quindi costretta a tenere gli occhi sempre spalancati, affine di
potermi accorgere quando sarebbero venuti per portarmi all’inferno, e quindi
avrei opposto al loro infernale disegno la più fiera resistenza… In questo
stato di animo, i miei capelli si sollevavano, come spine, sulla mia testa;
tutta la mia persona era presa da un sudor freddo che, agghiacciando il sangue
nelle vene, me lo sentivo penetrare sin nelle midolla delle ossa, ed i nervi
attratti mi facevano prendere certi moti convulsivi, per la paura.
Altre volte, poi, mi sentivo
incitata a tali tentazioni di suicidio che, trovandomi presso qualche pozzo, mi
sentivo spinta a gettarmi giù; oppure, vedendo un coltello od altra cosa micidiale,
sentivo di volermi con esso ammazzare, per dare fine a tale stato di vita; se
non che, conscia, io, dell’arte diabolica, fuggivo, schivando così il pericolo
in cui mi vedevo, ma mi toccava però sentire queste diaboliche voci: “È inutile
il tuo vivere, dopo aver commessi tanti peccati! Il tuo Dio ti ha abbandonata,
giacché gli sei stata infedele!”; e mentre ciò dicevano, mi facevano credere
come se realmente avessi commesso tante scelleratezze, che mai anima al mondo
[ne] avesse fatte tante, e che perciò non ci sarebbe da sperare più
misericordia… Anche nel fondo dell’anima sentivo ripetermi: “Come puoi tu
vivere, sì nemica di Dio? Conosci tu quel Dio che hai tanto oltraggiato,
bestemmiato ed odiato? Hai ardito offendere quel Dio immenso che dappertutto ti
circonda? E non pensi che hai ardito offenderlo sotto gli stessi suoi occhi? Ed
ora che hai perduto quel Dio dell’anima tua, chi ti darà più pace, chi da noi,
tuoi e suoi nemici, ti libererà…?”.
Nell’udir ciò provavo in me tanta
pena che mi sentivo morire e, sciogliendomi tutta in lacrime, mi sforzavo a
pregare come meglio potevo, ma i demoni, per accrescere il mio terrore, mi
molestavano con inusitate vessazioni, percuotendomi in ogni parte del corpo,
pungendomi le membra con non so quali armi pungenti, e mi soffocavano ancora la
gola in modo tale da farmi credere già prossima la morte… Una delle volte,
mentre mi prostrai a pregare il buon Gesù che mi usasse misericordia e che mi
sostenesse con novella forza, per resistere a sì diabolico cimento, mi sentii
tirare da sottoterra i piedi, e poi vidi questa aprirmisi dinanzi, e da questa
uscire rosseggianti fiamme, che tutta m’investirono, ma nel ritirarsi da me
fecero violenza per sprofondarmi in essa; ma all’invocazione di Gesù mi lasciarono
incolume e libera.
Dopo aver subìto quanto ho
narrato, ed altro ancor di più, tanto che mi credevo quasi morta, venne il mio
sempre pietosissimo Gesù a farmi riavere e a darmi novello vigor di vita, e
poscia mi rincorò, facendomi ben capire che in tutto quel [che era] successo
non v’era stata alcuna offesa, giacché la mia volontà aveva avuto tanta
ripugnanza al male, da farmi provare pena amarissima al solo pensiero
dell’ombra del peccato; mi esortò quindi a non dare mai retta al demonio,
essendo spirito malvagio e perciò bugiardo, e dopo avermi detto: “Abbi pazienza
ancora a soffrire altre molestie, che poi ti sarà data completa pace”, mi
scomparve, lasciandomi sola, ma tutta ricreata di novello spirito.
Questo avvicinamento di Gesù, con
le sue consolanti ed incoraggianti parole, succedeva di tanto in tanto, e
specie quando mi vedeva pressoché in fin di vita, oppure quando mi doveva
esporre a più aspri e novelli tormenti diabolici, allora più che mai si faceva
vedere tutto festante e raggiante sprazzi di luce superna, che è impossibile a
chi viene investito da quella non avere tutta la capacità di apprendere la
verità.
Dopo di che mi trovai di nuovo
esposta al cimento di novella lotta, e piena di dubbi, per cui cadevo in uno
stato, il più triste ed angoscioso. Che dire, poi, del demonio, avverso alla
comunione? Basta dire che usava ogni arte per non farmela fare, ora provando a
convincermi che dopo tanti peccati di odio verso Dio era in me una sfacciata
baldanza appressarmi a ricevere il Dio sacramentato, e che, se avessi ardito
comunicarmi, non Gesù sarebbe venuto in me, ma il più nefando demonio, che dopo
fieri tormenti mi avrebbe cagionato la morte eterna. È vero però, ancora, che
dopo la comunione soffrivo pene indicibili e mortali, sicché a stento potevo
riavermi, giacché mi riducevo in uno stato d’immobilità, ma subito mi riavevo,
tosto che invocavo il nome di Gesù, oppure richiamandomi all’ubbidienza avuta
di non giacere in tale stato; quindi trionfava in me sia l’ubbidienza che
l’invocazione di Gesù, facendomi provare sollievo e gran refrigerio in mezzo a
sì acerbe pene. Ciò nonostante, pure pregavo il confessore che mi facesse
astenermi dalla comunione, per non provare quelle angosce di morte, ma questi
s’imponeva e mi comandava, in precetto di santa obbedienza, che assolutamente
dovevo farla; ma per parecchie volte me ne astenni, prevedendo la guerra che mi
avrebbero fatta i demoni, e talvolta la facevo senza apparecchio[12] e
quasi senza ringraziamento per non soffrire tanto. La sera, poi, mentre facevo
per pregare o meditare, questi[13],
dapprima mi smorzavano la lampada, e poi emettevano tali strazianti ruggiti, oppure
voci così flebili, come se venissero da moribondi, da farmi spaventare ed
omettere la preghiera. È impossibile dire ciò che facevano questi cani
infernali contro di me, non solo per incutermi terrore, ma di più, per farmi
tralasciare qualsiasi bene spirituale, nel corso di tre anni all’incirca, in
cui soffrii questo duro cimento, tranne qualche settimana di tregua, tregua per
altro che[14] non cessava del tutto, ma
solo si mitigava in parte.
17 - Gesù
insegna a Luisa il modo da adoperare per allontanare questi spiriti infernali,
e dunque [ella] supera la prova a cui il Signore la sottopose.
Chi non è stato sottoposto dal
Signore a tali diabolici combattimenti stenterà, certo, a credere le dette
prove, da me purtroppo sopportate; a chi poi mi presta fede e volesse sapere
come venissero esse a cessare, dirò come il Signore, mio Gesù, in una comunione
fatta, m’insegnò il modo da adoperare per allontanare questi spiriti infernali,
ed ecco come: ridurli all’estremo loro avvilimento, non solo col disprezzarli e
non curarli affatto, come se fossero da meno delle stesse formiche, ma quanto
col concentrarmi totalmente in Dio mercé l’orazione e la contemplazione, con
l’introdurmi specialmente nelle sacratissime piaghe di Gesù, uniformando il mio
spirito a quello di Gesù, penante nella [sua] umanità per reintegrare l’uomo,
non solo della grazia perduta, ma ancora per sollevarlo a quella [vita]
sovrannaturale ed a quello spirito di Gesù trionfante, che nella [sua] umanità
vinse il mondo, la carne ed il demonio, col rendersi vittima di amore, di espiazione,
di riparazione, di soddisfazione e di propiziazione presso l’eterno suo Padre,
a cui offre il suo cuore, nel quale palpitano di amore tutti i suoi figli,
redenti dal suo preziosissimo sangue e ritornati a novella vita di grazia. Ed
in vero, non appena cominciai a fare quanto Gesù mi aveva insegnato, sentii
infondermi tanta forza e coraggio da scemare in pochi giorni ogni timore.
Quando, dunque, i demoni facevano strepiti e rumori, dicevo loro con disprezzo:
“Si vede bene che voi, poverini, non avete altro mestiere che questo, e per
passare il tempo vi esercitate in tali sciocchezze e balordaggini; proseguite
pure, che quando vi sarete ben stancati prenderete riposo. Io, meschinelli
miei, ho ben altro da fare, poiché per mezzo della preghiera voglio farmi
strada per introdurmi nelle piaghe sacratissime di Gesù, affin di ottenere più
amore al patire”.
Ed essi, più arrabbiati, facevano
più forti rumori, si avvicinavano e, affettando ostentazione di futile
violenza, fingevano di avvicinarsi per portarmi via, mentre dalle loro bocche
d’inferno vomitavano una puzza orribile ed un’afa sì soffocante, che investendo
tutta la mia persona mi cagionava internamente un certo brivido che cercavo di
reprimere col farmi coraggio, e con forza dicevo loro: “Bugiardi che siete!
Fingete avere del potere su di me per portarmi via, ma se ciò fosse vero
l’avreste fatto fin dal primo giorno; ma siccome tutto ciò e falso, poiché
quello che vi viene dato dall’Altissimo Dio è tutto per il mio maggior bene,
perciò cantate sempre lo stesso ritornello, sino a tanto che non crepiate di
rabbia e di sdegno… Io intanto mi avvalgo di tutti i vostri tormenti per ottenere
il maggior numero di conversioni di peccatori, giacché ho accettato dal buon
Gesù a tal uopo il patire, solo a condizione di poter applicare le mie
sofferenze a pro di quelle anime, mercé la mia volontà uniformata a quella di
Dio”.
A tali parole si mettevano essi
ad urlare ed a ringhiare come cani legati alla catena, che vorrebbero spezzare
per avventarsi tosto al ladro che loro si avvicina. Ed io, con più calma di
prima, dicevo loro: “E che, non avete altro da fare? Avete sbagliato i vostri
conti, certo, giacché non vi trovate più ai vostri calcoli, essendovi stata
tolta qualche anima che, ravvedendosi, è ritornata nelle braccia di Gesù, mio
bene; perciò avete ragione di lamentarvi”.
Se poi mandavano sibilanti
lamenti, come se li compatissi, burlandoli dicevo loro: “I poveri meschinelli
non si sentono bene… ; voglio perciò procurarvi un vero sollievo a tanto
vostro male”, e subito mi prostravo a pregare con fervore per la conversione
dei più ostinati peccatori, facendo per loro tanti atti di amore verso il mio misericordioso
Gesù, chiedendogli in ricambio le anime più perverse; ma questi, accorgendosi,
cercavano tutti i mezzi per distogliermi dall’orazione; ma io, applicando
questo patire in riparazione di tanti oltraggi che continuamente si fanno al
buon Dio, dicevo loro con sogghigno: “Razza dei più vili che siete, non vi
vergognate di scendere a tali bassezze per incutere timore a me e distrarmi,
che niente altro sono che il puro nulla? Non vi fate perciò tenere e prendere
da vili esseri da burla e da buffonate?”. Ed essi, mordendosi le labbra,
bestemmiavano e scagliavano le loro invettive contro di me, cercando d’indurmi
a bestemmiare ed odiare il buon Dio. Ed io, che sentivo pene indicibili
sentendo strapazzare da loro il nome santo di Dio, mi mettevo a considerare la
bontà del Signore, che merita tutto l’amore degli esseri dotati di ragione, e
quindi, quella pena amarissima che mi avevano procurata, la trasformavo in
lodi, offrendole a Dio in riparazione delle bestemmie che gli si fanno, da chi
si ricorda di lui soltanto per bestemmiarlo, e dicevo fervorosamente:
“Accettate questi miei atti di
amore e riconoscenza, in soddisfazione del disamore e sconoscenza, che come
affronto vi viene fatto dai peccatori”. Ma essi non si arrestavano ancora,
tanto che usavano ogni possibile arte per muovermi a disperazione; ed io dicevo
loro: “Non mi curo né di paradiso, né d’inferno; mi preme solo di amare e fare
amare ancor da altri il mio buon Dio. Il tempo presente mi è concesso non per
pensare al tempo futuro, ma solo per corrispondere a chi mi ha prevenuta nella
bontà ed amore, per rendermelo sempre più propizio. Il paradiso e l’inferno lo
rimetto nelle sue mani, ed egli, che è tanto buono, mi darà quello che più mi
conviene, per poterlo sempre più glorificare…”.
E poi dicevo loro: “Sappiate che
questa è dottrina insegnata dal mio buon maestro Gesù Cristo, il quale mi ha
fatto conoscere che il mezzo più efficace per acquistare il paradiso è il
protestare continuamente di non voler mai avere la volontà di offendere Iddio,
anche a costo della propria vita, quanto sprezzando[15] la
vana apprensione di aver agito male, quando però in questo manca la volontà, il
che è farina del vostro sacco, o meschinelli, che volete smerciare ai gonzi,
per gettare nel loro animo dubbi e timori, e ciò non è perché amino di più
Iddio, ma per indurli alla totale disperazione… Ma io, sappiate che non intendo
perdere del tempo a considerare se abbia o no fatto del male, ma mi basta
l’intenzione non ritrattata di volerlo[16]
sempre più amare; dinanzi a qualunque offesa a Dio mi è sufficiente la protesta
fatta in contrario, il che mi dà la vera calma e pace e mi libera da ogni
timore, e l’anima mia si sente più libera di spaziare i cieli in cerca
dell’unico e sommo mio bene”. Ora, chi può dire la rabbia da cui furono presi i
demoni, vedendo che tutte le loro arti ed astuzie riuscivano a loro danno e
confusione, e dove credevano di guadagnare vi perdevano? L’anima mia, invece,
dalle stesse tentazioni ed artifizi diabolici sentiva, anziché perdere,
acquistare più veemente amore verso Dio ed il prossimo, giacché seguendo
l’insegnamento ricevuto da Gesù Cristo, quando questi mi percuotevano,
umiliandomi, cioè, ringraziando il mio Dio ed accettando tutto ciò che soffrivo
in penitenza dei miei peccati, ancora lo offrivo a lui come atti di amore, di
espiazione e di riparazione per le tante offese che di continuo si fanno nel
mondo; e spesso, quando i demoni mi tentavano di suicidio, dicevo loro: “Né a
voi, né a me, è dato distruggere la propria vita; a voi solo è dato di
tormentarmi, per farmi più guadagnare, ma non vi è data facoltà a poter
togliere la mia esistenza, che io, poi, a vostro marcio dispetto, voglio in Dio
sempre vivere per poter più amare il mio Dio, per essere sempre utile nel
sovvenire spiritualmente il mio prossimo, al quale applico quanto da voi mi
viene dato di soffrire”.
Finalmente capirono che non c’era
più per loro speranza di ottenere nulla, anzi s’avvidero che facevano grandi
perdite di anime, e perciò cominciarono a fare lunghe soste, a fine di
riprendere l’aspro combattimento quando io meno me l’aspettassi.
18 - L’ultimo
assalto dei demoni. Luisa vede Gesù penante una seconda volta, e accetta lo
stato di vittima.
Intanto, per me cominciò una
nuova vita di sofferenze, che proverò alla meglio di narrare.
La famiglia, vedendomi molto
sciupata, volle menarmi in campagna per farmi rimettere in salute; ma Iddio qui
mi chiamava per assoggettarmi a nuovo stato di vita. Stando dunque in campagna,
i demoni, un giorno, vollero fare l’ultimo tentativo, che riuscì per me tanto
penoso da farmi perdere le forze e venir meno, tanto che verso sera perdetti
totalmente i sensi, ed ero ridotta quasi in uno stato di morte, quando mi venne
fatto di vedere Gesù circondato da innumerevoli nemici, tra i quali vi erano
quelli che aspramente lo battevano, altri che lo schiaffeggiavano, e di altri,
chi gli conficcava le spine nella testa, chi gli spezzava le gambe e chi le
braccia, e lo conciarono in modo tale che lo ridussero quasi a pezzi; e dopo,
tutto pesto, lo deposero nelle braccia della Madonna Santissima. E perché ciò
avvenne poco discosto da me, la Vergine Madre, dopo che lo prese fra le
braccia, tutta dolente e sciolta in dirotto pianto, m’invitò ad appressarmi
dicendomi: “Vedi, figlia mia, come mi han ridotto mio Figlio…? Considera un poco,
come gli uomini trattano il loro Signore, Creatore e sommo loro benefattore:
non gli danno tregua né riposo, ed ora me lo danno tutto pesto. Considera le
enormi offese che essi commettono trattandolo in tal modo, e i terribili
castighi che saranno da Dio, suo Padre, versati su di loro”.
In intanto[17]
cercai di ravvisarlo in quel penoso suo stato, e lo mirai tutto sangue, tutto
piaghe, ed il suo corpo quasi trinciato e ridotto allo stato di morte, per cui
provai in me tale pena che, se mi fosse stato dato, avrei voluto mille volte
morire, soffrendo in me la stessa passione acerbissima di Gesù, pur di non
vedere più soffrire tanto, tanto, il diletto mio amante Gesù; ed a tal vista
ebbi vergogna delle mie lievissime sofferenze procuratemi dai demoni, in
paragone di quelle del mio Gesù, inflittegli dagli uomini. La Santissima
Vergine, intanto, vedendomi tanto commossa, mi soggiunse, piangendo ancora:
“Avvicinati a baciare le piaghe del mio dolcissimo e sommo bene; ed intanto,
dimmi, vorresti renderti vittima per amor suo? Vorresti soffrire in vece sua,
che tanto soffre per te, le offese che gli vengono fatte dagli uomini perversi
e scellerati? Con l’offrirti tu vittima, gli darai sollievo e ristoro in tanto
suo penare; non sei tu disposta a questo sacrifizio per amor suo, che tanto ti
ama?”.
A tal vista provai in me tale
annientamento da non potersi credere. Mi vedevo, infatti, tanto cattiva ed indegna,
che non ardivo pronunziare parola di assentimento; e poi mi sentii tremare in
tutta la persona, e [sentii] tale estrema debolezza, che appena mi sentivo un
fil di vita, tanto più che da lontano scorgevo i demoni in concilio fra loro,
che si agguerrivano e strepitavano, decisi a che, se io accettavo di rendermi
vittima per il sollievo di Gesù, dovevano fare su di me quegli acerbi strazi
che gli uomini avevano già fatto al mio Signore. Tale annunzio mi causò sì
indicibili dolori e contorcimento di nervi, che credetti di finirla[18]; ma
riavutami alquanto, mi avvicinai a baciare tutte le piaghe del mio Gesù, le
quali, dietro i miei baci, si cicatrizzavano e risanavano; ed il mio Signore,
che poco anzi mi sembrava quasi morto, riprese novella vita; e nello stesso
tempo ricevetti tali lumi circa le offese che si fanno a Gesù, e tale attrattiva
di amore verso il mio sommo bene, che in cuor mio mi decidevo a rendermi
vittima, ancorché dovessi subire mille atroci morti, ché un tanto buon Signore
tutto da me meritava in ricambio di tanto suo amore. Tutto ciò avvenne mentre
silenziosamente baciavo le sue piaghe, giacché correndo i miei sguardi agli
sguardi moribondi di Gesù, vedevo che a vista d’occhio acquistavano essi
vivacità e gettavano in me tali saette e dardi infocati di amore che,
penetrando nel fondo del mio cuore, non potevano non attendere da me la
corrispondenza ai tanti inviti che internamente facevami provare il mio Gesù.
Si aggiunga, ancora a questo, che la Santissima Vergine mi dava tali
incitamenti di benevolenza verso Gesù, che non mi è dato esprimere... Facevami
comprendere come se dovessi divenire una sola cosa con Gesù; ma come ciò si
svolgesse nell’animo mio, non lo saprei dire affatto. È certo, però, che uno
sguardo più penetrante di Gesù, con uno sprazzo di vivida luce, ricreò talmente
il mio spirito che mi sentii di acquistare nuova vita; e poi Gesù prese a
dirmi: “Hai tu notate le enormi offese che mi si fanno dalla maggior parte
degli uomini? Tutti quanti, chi più, chi meno, camminano per le vie dell’iniquità,
per cui senz’accorgersi, moltissimi di loro, propendendo sempre al male,
d’abisso in abisso precipiteranno nel caos infernale.
Vieni meco ad offrirti, ancor tu,
dinanzi alla divina giustizia oltraggiata, come vittima di riparazione per le
tante offese che ognora si fanno, affinché il mio celeste Padre voglia rendersi
propizio nell’accordarci la conversione dei peccatori, che ad occhi chiusi
bevono alla fonte avvelenata del peccato. Sappi però che un duplice campo ti si
para dinanzi, l’uno di sofferenze più o meno atroci, e l’altro di
singolarissime grazie. Se rifiuti il primo, non potrai certo partecipare a
quelle grazie che si promettono a chi avrà valorosamente combattuto; ma se
accetti, sappi che io non più ti lascerò sola, ma verrò in te a soffrire tutto
ciò che di oltraggio mi si fa dagli uomini, il che è certamente una grazia
singolarissima, che a pochi è stata accordata, giacché [gli uomini] non sono
disposti ad entrare nel centro del campo delle sofferenze. In secondo luogo è
grazia ancora singolarissima, che ti prometto di sublimarti a tanta gloria per
quante sofferenze ti saranno da me comunicate. In terzo luogo ti darò per
aiuto, e come guida e conforto, la mia Santissima Madre, a cui è dato
concederti qualsiasi grazia, a misura della tua corrispondenza. Ti pare poco,
forse, questo immenso mio bene? Ebbene, fanne la prova, e ti troverai elevata
al di sopra di tutti i mortali”.
Sì dicendo, mi parve che mi
affidasse alla sua Madre Santissima, la quale, di buon animo e con volto
giulivo, mi accettava, ed io pure, con gratitudine, mi offrii a Gesù e alla
Santissima Vergine, pronta ad assoggettarmi a tutto ciò che da me si voleva.
Riavutami poi da questo primo deferente atto di conformità della mia volontà a
quella di Gesù, mi trovai per la prima volta immersa in tali pene di annientamento
di me stessa, come giammai avevo provato fino a quel momento. Mi vedevo meno
che un misero vermiciattolo, che non sa fare altro che strisciare stentatamente
la terra, e perciò mi rivolsi al Signore, dicendogli: “Aiutami tu, o mio buon
Gesù, che la tua onnipotenza, in me e fuori di me, mi fa tanto peso che mi
atterra... Veggo bene che se tu non mi sollevi, il mio nulla finirà col
disfarsi. Dammi dunque il patire, che lo accetto, ma ti prego di darmi maggior
forza, giacché in questo stato più che mai mi sento morire”.
Da quel giorno ebbi maggior
grazia ed aiuti superni; le visite del Signore si alternavano con quelle della
Vergine Santissima, con un quasi continuo moto di via vai, a seconda che mi
attaccavano battaglia i demoni, i quali, quanto più mi vedevano disposta al
patire, tanto più si manifestavano arrabbiati… È inutile dire che, se le
sofferenze subite sin qui da parte dei demoni sono state indicibili, quasi
ombra sembrano ora, messe a confronto delle più lievi pene accettate dalle mani
di Gesù, con animo disposto di espiare e riparare le moltissime e gravissime
offese che si fanno dall’uomo a Dio; ma io che confido in Dio, che atterra e
suscita, che affanna e consola, sono disposta a soffrirle per la sua maggior
gloria e per il bene del mio prossimo, come lo vuole il Signore.
19 - La
vittima incomincia a fare il suo ufficio, prendendo parte alle pene di Gesù,
incoronato di spine, per riparare per i peccati, specie di superbia. Incomincia
per Luisa l’inedia.
Non erano passati che pochi
giorni dacché mi ero assoggettata allo stato di vittima, dopo i tanti iterati
inviti del mio Gesù e della Vergine Madre, allorché mi sentii per una seconda
volta perdere i sensi, mentre il Signore mi si fece vedere con la corona di
spine in testa, e tutto grondante sangue, ed avvicinandosi a me, benignamente
mi disse:
“Figlia mia, vedi un po’ che mi
fanno soffrire gli uomini, tutt’affatto disamorati di me. È tanta la loro
superbia in questi tristi tempi, che ancor l’aria che respirano me l’hanno
infettata; anzi, è tanta la puzza di questa, che non solo si è sparsa per ogni
dove, ma è giunta fin anche al trono del Padre mio, lassù nei cieli… Come puoi
considerare, lo stato di questi miseri, tende a far serrare per essi le porte
del cielo; essi non hanno più occhi per conoscere la verità, perché dal peccato
della superbia ne è venuto l’offuscamento totale della loro mente e la
depravazione del cuore, per cui si son lasciati andare ad ogni stravizio e
turpitudine; ed io, in vista della loro perdita, ne soffro acerbe pene ed
indicibili spasimi e dolori. Deh, dammi tu un sollievo ed una riparazione ai
tanti torti che mi si fanno continuamente… Non vorresti tu mitigare almeno i
miei dolori, che mi procura questa corona di pungentissime spine?”.
A tal vista ed a tali parole
provai in me tale annientamento e vergogna di me stessa, che subito gli
risposi: “Mio dolcissimo Gesù, al vederti così grondante sangue ed al sentirti
sì dolorosamente parlare, mi sono tanto confusa ed ho provato tale
raccapriccio, da non farmi punto pensare a domandarti codesta corona per
poterti sollevare in tante pene; ma ora che soavemente da te mi viene offerta,
te ne ringrazio, ed insieme ti prego di darmi novella grazia per poter ben
patire”.
Allora Gesù si tolse la corona, e
dopo averla conficcata nella mia testa, incoraggiandomi a ben soffrire, mi
disparve. Ora, chi può dire gli acerbi spasimi che provai nel ritornare in me
stessa? Ad ogni movimento di testa, i dolori si facevano sempre più acuti, e le
punture le sentivo penetrare negli occhi, nelle orecchie, dietro la nuca e
persino nella bocca, che si strinse in modo tale da impedirmi di poter prendere
qualsiasi cibo.
In questo stato di sofferenze la
duravo da due a tre giorni, e quindi senza cibo per non sentire più acerbi
spasimi; e quando questi si erano alquanto mitigati e prendevo qualche cosa per
ristorarmi, subito dopo il mio Gesù sensibilmente mi premeva con la sua mano la
testa, e le pene venivano rinnovate con più intensità di spasimi e dolori, in
modo che talvolta giungevo a perdere totalmente i sensi.
Da principio, questo stato di
vittima fu per me duplicatamente[19]
angoscioso, sia per ciò che soffrivo a piacimento del mio buon Gesù, sia
ancora per le continue inquietudini che mi venivano da parte della famiglia,
giacché questa, vedendomi tanto soffrire, e non potendo arrivare ad indurmi a
prendere alcunché di cibo, si ostinarono a credere che io mi avessi[20]
procurato questo male per non voler più restare in campagna e, naturalmente,
attribuivano ogni rifiuto di cibo a mero mio capriccio e per fare che ci
ritirassimo subito in città. Per questo duplice motivo di sofferenze la mia
natura voleva risentirsi, giacché non era vero quanto mi si attribuiva dalla
stessa [famiglia]; ed il Signore, poi, giustamente mi riprendeva, giacché non
voleva in me questo risentimento, altrimenti mi minacciava che avrebbe ritirata
la sua grazia.
20 -
Sofferenze da parte della famiglia. Sommo timore e ripugnanza di Luisa che gli
altri possano accorgersi delle sue sofferenze e di quanto le accade; ma il Signore
fa che se ne rendano conto.
Una sera, più d’ogni altro tempo,
mentre si stava a tavola, ed io in tale stato di sofferenze da non poter aprire
la bocca per prendere qualsiasi cibo, la famiglia, prima con le buone e poscia
con sdegno, mi spingevano ad obbedire, ma io, perché non potevo contentarla, mi
misi a piangere, e per non essere vista mi recai in altra stanza ed ivi seguitai
a piangere ed a supplicare il mio Gesù e la Vergine Santissima che mi
concedessero aiuto e forza per sopportare tale cimento; ma mentre ciò facevo
perdetti i sensi, esclamando di cuore:
“Oh mio buon Dio, che dura pena è
il dover sopportare la famiglia, irritata con me per sì ingiusta causa! Deh,
non permettere che mi abbiano più a vedere in questo stato di sofferenze,
poiché sento tale vergogna di essere vista in tale stato, da preferire
piuttosto la morte che far conoscere ciò che passa tra me e te, mio Dio. E ciò
lo sento tanto vivamente in me, senza saper dire il perché, che non posso far a
meno di andare a nascondermi in quei luoghi ove non possa essere veduta da anima
vivente. Quando poi sono sorpresa all’improvviso, e tanto da non aver il tempo
di celare le mie pene e le mie dolci ed amare lacrime, mi sento come annientare
e disfare il mio essere qual neve al fuoco, ed in questo stato tutta la mia
persona sente in sé un non so che di calore non naturale, che dapprima mi fa
versare copiosi sudori e poi mi fa agghiacciare e tremare dal freddo. Deh, mio
buon Gesù, tu solo puoi rimediare a questo mio stato, facendomi restare sempre
nascosta agli sguardi altrui, e facendo credere alla famiglia che io mi
apparto da loro solo per pregare e non per altro motivo; e che questo bramo,
che sia solo noto a te, mio Dio”.
Mentre così mi sfogavo in
lacrime, ed in preghiere e voti, Gesù si fece vedere in mezzo ad innumerevoli nemici,
che gli facevano ogni sorta di insulti, e vi erano di quelli che lo
calpestavano sotto i loro piedi, chi lo tirava per i capelli, ed altri che lo
bestemmiavano con vituperevoli e diabolici sarcasmi. A me pareva che il mio
amabile Gesù volesse sottrarsi da sotto quei fetidissimi piedi, guardando a sé
d’intorno, come se andasse in cerca di qualche persona che con mano amica lo
liberasse, ma mi accorgevo che non trovava nessuno che si fosse prestato
all’uopo.
Considerando io, poi, il grande
affronto che si faceva a Gesù, piangevo amaramente, ed avrei voluto andare in
mezzo a quei lupi rapaci per liberare il mio Gesù, ma non ardivo, conoscendomi
inetta, e perciò da lontano facevo fervorose istanze presso Gesù perché mi
avesse fatta degna di soffrire in vece sua quelle pene, o che al meno me ne
avesse fatto parte, esclamando: “Deh, o Gesù, potessi io prendere su di me
queste pene per sollevarti e liberarti da questi nemici!”.
Ma mentre ciò dicevo, quei
furibondi nemici, quasi che avessero intesa la mia preghiera, con impeto si
avventarono contro di me, come cani arrabbiati, percuotendomi, strappandomi i
capelli e calpestandomi sotto i loro piedi; ed io intanto, pur soffrendo,
sentivo dentro di me un contento nel vedere che così potevo procurare a Gesù un
po’ di tregua; ma quei nemici, vedendomi forse così contenta, mi scomparvero,
mentre Gesù mi si fece dappresso per compatire me, ed io per compatire lui,
sebbene non ardivo profferire parola.
Gesù intanto, rompendo per primo
il nostro silenzio, mi disse: “Figlia mia, tutto ciò che hai visto fare di me è
un nulla, è un puro nulla in paragone di tutte le offese che continuamente mi
si fanno dalla maggior parte del genere umano, giacché la loro cecità li tiene
ingolfati nelle cose terrene, ed in modo tale da farli giungere ad essere
spietati e crudeli non solo verso di me, ma ancora verso loro stessi; hanno
ripudiato ogni verità soprannaturale, col darsi a tutto potere in cerca di oro,
ma questo li ha gettati nel fango di ogni laidezza, e son caduti nel totale
disprezzo del loro eterno destino. Chi, o figlia, metterà argine
all’inondazione di sì mostruosa ingratitudine, che si allarga sempre più nel
mondo dei falsi gaudenti? Chi avrà compassione di tanta gente che mi costa
sangue e vive come sepolta nel lezzo delle cose terrene? Deh, tu vieni meco a
pregare, a piangere ed a riparare le offese che si fanno al Padre mio da tanti
ciechi, che sono tutt’occhi per tutto ciò che sa di terra, mentre poi non hanno
mente e cuore che per disprezzare e calpestare le tante mie grazie, mettendo
tutto ciò che fu operato da me per loro vantaggio, sotto i loro immondi piedi,
quasi fosse vile fango. Deh, sollevati almeno tu sopra tutto ciò che sa di
terra; aborrisci e disprezza tutto ciò che non appartiene a me; innamorati
sempre più delle cose che sanno di cielo, quindi non ti facciano più impressione
gli insulti che ti vengono dalla famiglia, ora che hai visto soffrire me,
insulti di gran lunga più abominevoli; ti stia solo a cuore l’onor mio ed il
ripararmi dalle tante offese che mi si fanno continuamente, e poi considera la
perdita di tante anime. Deh, non lasciarmi solo in mezzo a tante pene che mi
straziano il cuore…! Ma sappi, però, che tutto ciò che adesso soffri è un nulla
in paragone di tutte quelle pene che soffrirai in appresso; non te l’ho forse
detto e ripetuto più volte, che voglio da te l’imitazione della mia vita? Vedi
un po’ quanto sei ancora dissimile da me. Perciò fatti coraggio e nulla temere,
che così potrai giungere in certo qual modo ad aiutarmi”.
Dopo questo parlare di Gesù,
ritornando in me stessa, mi accorsi che ero circondata da persone di famiglia
che piangevano e si turbavano tutti, temendo che mi trovassi in fin di vita;
perciò si affrettarono a menarmi in città, affin di farmi osservare dai medici.
Non so dire, ora, quale pena sentissi in me, nel pensare che la famiglia era
conscia del male fisico che si era impossessato di me e per cui dovevo
assoggettarmi alla visita medica. Mi sciolsi, quindi, in lacrime, e lamentandomi
col mio Gesù gli dissi: “Quante volte, o mio buon Gesù, non ti ho detto che
voglio teco patire, ma sempre però nel nascondimento? Questo è il solo mio
contento, e tu adesso, perché anche di questo mi privi? Deh, dimmi tu ora, come
farò a far tornare in pace la mia famiglia? Tu solo, o mio buon Gesù, puoi suggerirmi
il modo da tenervi. Deh, sollevami un poco, affinché essi per causa mia non
abbiano ad affliggersi tanto; non vedi quanto sono rattristati? Non senti ciò
che dicono ed intendono di fare? Vi è chi la pensa in un modo, chi in un altro;
chi vuole che mi faccia usare[21] un
rimedio, e chi un altro. Sono tutt’occhi e sempre intenti sulla mia persona,
in modo da non lasciarmi più sola, impedendomi così di riacquistare la perduta
pace. Deh, aiutami in tante pene, una più acerba dell’altra, in guisa tale da
farmi sentire mancare la vita!”.
A questo mio dire, il mio buon
Gesù, con tutta dolcezza, mi disse: “Figlia mia, non volerti tanto affliggere
per questo, ma cerca piuttosto di abbandonarti come morta fra le mie braccia;
sino a tanto che tu terrai gli occhi aperti per notare ciò che fanno e dicono
le creature sul conto tuo, sappi che io non posso agire liberamente su di te.
Vuoi tu, dunque, non fidarti di me? Non hai tu forse sperimentato quanto bene
ti voglio? Ebbene, sappi che tutto ciò che permetto che avvenga su di te, sia
per mezzo dei demoni o da parte delle creature, è diretto da me per il tuo
maggior bene, che ad altro non tende che a condurre l’anima tua a quello stato
ultimo a cui ti ho eletta. Voglio perciò che te ne stia tranquillamente fra le
mie braccia e ad occhi chiusi, senza guardare né investigare quanto avviene
intorno a te, ché all’opposto ci perderai il tempo e mai potrai arrivare a
quello stato di vita a cui sei chiamata. Poi, in quanto alle persone che ti
circondano, non darti alcun pensiero; usa loro profondo silenzio, sii benigna e
sottomessa in tutto; fa in modo che la tua vita, il tuo pensiero, il tuo
palpito, i tuoi respiri ed affetti, siano continui atti di riparazione,
placanti la divina giustizia, offrendo insieme le molestie che ti procureranno
le creature”.
Dopo di avermi Gesù così
ammaestrata, disparve. Allora mi concentrai in me stessa, e feci quanto più potetti
per rassegnarmi alla Divina Volontà, quantunque alle volte piangessi
amaramente, giacché fui messa dalla famiglia in tali strettezze, fino ad essere
obbligata ad assoggettarmi alla visita medica, che giudicò non essere altro la
mia infermità che un fatto tutto nervoso, e quindi mi vennero ordinate
medicine, passeggiate, bagni freddi e continue distrazioni, e nel contempo [il
medico] raccomandò a tutti che si guardassero bene di menomamente muovermi
durante il periodo di assopimento, che in caso contrario mi avrebbero piuttosto
spezzata anziché sollevarmi, se avessero voluto mettermi in tutt’altra posizione
da quella in cui mi trovavo.
Quindi mi si suscitò dalla
famiglia, in questo tempo, una tacita e finta guerra, giacché vi era chi mi
ostacolava l’andata in chiesa, chi mi toglieva la libertà con la sua continua
compagnia anche in casa, chi mi pressava a farmi prendere le medicine e tutti
gli altri espedienti ordinati dal medico, e chi, finalmente, voleva farmi la
guardia fin nella notte. Dopo di che fu facile per loro accorgersi di tutto ciò
che spesso spesso mi accadeva. Dopo un lungo periodo di tempo, però, non potendone
più, mi feci coraggio a lamentarmi così col mio Signore: “Oh, quanto mi è
penoso, mio diletto Gesù, il modo con cui si porta meco la mia famiglia, perché
è giunta a privarmi anche delle cose a me più care; difatti sono priva di
tutto, ed anche dei tuoi stessi sacramenti! Chi l’avrebbe mai pensato, che io
dovessi giungere a questo stato di vita, senza potermi più avvicinare a te in
sacramento, sia per visitarti che per riceverti sacramentalmente? Chissà dove
questo stato di vita andrà a finire! Deh, dammi tu, o Gesù, novello aiuto e forza,
altrimenti la natura mi verrà meno!”.
E Gesù, facendosi vedere, subito
mi diceva: “Coraggio, figlia mia, sono io in tuo aiuto: che temi? Pensa che
ancor io ho sofferto da parte di ogni ceto di persone, e di queste vi fu chi la
pensava in un modo e chi in un altro, e tanto che le cose più sante che io
facevo erano da esse giudicate sinistramente come difettose ed anche cattive, e
perfino giunsero a dirmi che io ero indemoniato, tanto che mi facevano
guardare dagli altri con occhi torvi e mi tenevano fra loro di malavoglia,
macchinando il modo ed il mezzo come togliermi al più presto la vita, perché la
mia presenza si era resa per molti intollerabile, perché ero di riprensione per
i malvagi, mentre ero di tanta consolazione per i buoni.
Non vuoi tu, dunque, renderti
simile a me, che ti voglio a parte delle sofferenze che soffrii da parte delle
creature?”.
Ed io a lui: “Tutto abbraccio,
per amor tuo”.
21 - La croce
di sapere che i propri patimenti sono noti agli altri; e questa fu anche una
pena di Gesù.
Parecchi anni passai così,
soffrendo sempre, ora da parte dei demoni , ora da parte delle creature, ed ora
da parte di Gesù, che mi metteva a parte delle sue pene; ed in questo stato
giunsi alle volte a soffrire in modo tale da vergognarmi di me stessa, e
soprattutto provavo in me gran rossore di farmi vedere da qualsiasi persona.
Veramente per me è stato sempre gran sacrifizio il comparire in una conversazione
anche famigliare, anche quando mi trovavo in stato di perfetta salute; ma ora
più che mai, essendo in stato di sofferenze, provo tale rossore e tale
turbamento di spirito da farmi stupidire. La famiglia intanto, vedendo che a
nulla approdavano le cure ordinatemi dal primo medico, procurò farmi visitare
da altri ancora, che non riuscirono a farmi migliorare in salute; ed io,
versando sempre lacrime amarissime, dicevo al mio amabile Gesù: “Signore, non
vedi come le mie sofferenze si rendono sempre più manifeste a tutti? Non solo
la famiglia, ma ancora gli estranei sanno le cose mie, ed io, che mi veggo per
questo tutta confusione…
A me pare che tutti quelli che mi
vedono mi segnano a dito, come se avessi commessa qualche scelleratezza, oppure
come se le mie sofferenze fossero le più contagiose, il che mi fa provare pene
indicibili; e non so dirti veramente cosa è successo in me, che spesso spesso
tornano ad agitarmi queste cattive apprensioni, che in fine, se si va in fondo,
sono false. Deh, tu solo, o Gesù, puoi liberarmi da tale pubblicità e da tale
mia apprensione; a te sta il farmi patire di nascosto; te ne prego, te ne scongiuro,
per tua bontà, esaudiscimi!”.
Finse dapprima nostro Signore di
non ascoltarmi, per cui si aumentarono in me le pene, ma poscia, compatendomi,
con tutta bontà mi disse: “Figlia mia, vieni a me, che ti voglio consolare; hai
ragione di lamentarti così, perché ne soffri, ma fa d’uopo ricordarti quanto di
più ho sofferto io per amor tuo. Anche le mie sofferenze furono sino ad un
certo punto del tutto nascoste; ma quando, poi, la Volontà del Padre mio volle
farmi patire pubblicamente, allora prontamente andai incontro ad ogni
disprezzo, obbrobrio e confusione, sino ad essere spogliato delle vesti, e nudo
comparii in mezzo ad un numerosissimo popolo.
Potresti tu, ora, immaginare
maggior confusione di questa? Eppure la mia natura sentiva in sé viva questa
specie di confusione, ma l’occhio mio era fisso alla Volontà del Padre mio, e
quella pena e sofferenza era da me offerta in riparazione delle tante offese
che vengono fatte dagli uomini, col commettere le più nefande azioni al cospetto
del cielo e della terra, senza alcun rossore; anzi vengono esse commesse ad
occhi aperti e menandone vanto ed ostentazione, quasi avessero compiuta qualche
opera grandiosa. Ed io, ad onta di tutto questo, dicevo al Padre mio: ‘Padre
santo, accettate la mia confusione ed i miei obbrobri in riparazione delle
tante colpe che si commettono da tanti, che sfacciatamente e senza ritegno ti
offendono pubblicamente, con grave scandalo dei piccoli fanciulli; perdonate,
dunque, loro, e date superni lumi, acciò vedano la bruttezza del peccato e,
convertendosi, ritornino sul sentiero della virtù’.
Ora, se tu vuoi imitarmi, non
devi partecipare a questa specie di sofferenze tollerate ancor da me per il
maggior bene di tutti? Non sai tu che i più bei regali che posso dare alle
anime che più mi si son rese care, sono le croci e le pene che tanto mi
toccarono da vicino? Tu sei ancor bambinella nella via della croce, e perciò ti
senti troppo debole, ma quando ti sarai fatta più grandicella ed avrai ben
conosciuto quanto è prezioso il nudo patire, allora più vivo si farà in te il
desiderio di patire; appoggiati, dunque, in me e riposati, che così acquisterai
fortezza ed amore al patire”.
22 - Luisa si
vede costretta a starsene a letto per periodi di tempo; si accentua
l’impossibilità di mangiare. Viene chiamato per la prima volta il confessore,
il quale la libera dallo stato d’impietrimento.
Dopo aver passati sei o sette
mesi all’incirca in questo stato di sofferenze, si accrebbero ancor di più,
tanto che fui costretta a starmene a letto, giacché spesso spesso perdevo i
sensi e la bocca mi si stringeva tanto, da impedirmi affatto di prendere cibo
alcuno, ma appena ci riuscivo ad ingoiare qualche goccia di bevanda, che veniva
rimessa subito per i continui conati di vomito, che peraltro sempre si presenta
nelle maggiori sofferenze. Non venendo intanto a capo con medicinali nel corso
di diciotto e più giorni di cura, si pensò di mandare per[22] il
confessore, a scopo unico di confessarmi. Venuto questi e trovatami in quello
stato quasi d’impietrimento, mi diede l’obbedienza di sciogliermi da quello
stato di assopimento mortale e, segnandomi di croce, [mi] aiutò a sciogliermi
dall’attrito nervoso; e quando mi riebbi del tutto, mi si fece a domandare:
“Dimmi, che cosa tu hai?”.
Ed io, tacendo il tutto, gli
dissi solo: “Padre, questa deve essere cosa del demonio”.
Ed il confessore, senza altra
interrogazione e senza alcuna esitazione, mi disse: “Non temere, che non è il
demonio, e se lo fosse, il padre, in nome di Dio, lo discaccerebbe da te”.
Indi, riuscì a darmi il solito
moto alle braccia, a farmi aprire liberamente la bocca ed a farmi prendere
alcunché di ristoro. Ritiratosi poi il confessore, mi misi a considerare che
tutto ciò che si era operato in me era d’attribuirsi alla santità di questo
santo sacerdote, e lo tenni quasi per miracolo, tanto che fra me stessa, nel
pieno mio contento, dicevo: “Vedi un po’, se l’avessi durata in quello stato
poco altro tempo, certo che avrei dato termine alla mia vita, mentre ora mi
sento rinata a novella vita”.
Ne ringrazio sempre e ringrazierò
Iddio che, mercé la santità di questo suo ministro, mi ha ridonata la sanità.
Non posso però celare che in quello stato di morte ero del tutto rassegnata, e
che ora, pur vedendomi libera, non provi un certo rincrescimento di non essere
già morta; ma il Signore non lo permise, giacché aveva da compiere i suoi
disegni su di me, e perciò in giornata diede segno di volermi vittima perenne,
col farmi sorprendere di tanto in tanto da quello stato di prima, ma mi riavevo
però da me sola. Poscia mi rimisi in salute, e scesi per un altro periodo di
tempo alla chiesa, per adempiere ai miei doveri religiosi[23]. In
questo frattempo, nel comunicarmi, [ricevendo] Gesù in sacramento, quando
dovevo essere messa a parte delle sue pene e sofferenze, Gesù me lo diceva, e
tante volte mi determinava l’ora in cui doveva egli venire a comunicarmele; il
che, preannunziato e poscia comunicato da Gesù e da me sofferto, non pensavo di
dirlo al confessore, giacché credevo che al solo pensiero di volerlo manifestare
sarei divenuta l’anima più superba di questo mondo, ancorché avessi scorta
della santità nel mio padre spirituale, e ciò per un pezzo di tempo, giacché
dallo stato di sofferenze partecipate da Gesù mi riavevo senza alcun aiuto
umano, ma tutto lo faceva Gesù. Dopo avvenne che Gesù, nel comunicarmi le sue
pene e dolori, non più potetti come prima riavermi da me stessa, tanto che la
famiglia dovette di nuovo, un giorno, mandare per il confessore, il quale, dopo
avermi fatto riacquistare i sensi, mi disse:
“D’ora innanzi, quando scenderai
in chiesa, o prima di comunicarti o dopo che avrai terminato il ringraziamento,
vieni al confessionale affinché ti dia la benedizione di grazia, per farti sempre
riavere dallo stato di sofferenza, senza che io venga in casa tua”.
23 - Una
nuova croce durissima per Luisa: la soggezione, come vittima, alla potestà dei
sacerdoti. Sofferenze penosissime che ebbe da sopportare da parte loro.
Una mattina, fra le altre, il
Signore, dopo che mi feci la santa comunione, mi fece capire che in giornata
sarei stata sorpresa da quello stato di assopimento totale, giacché m’invitava
a tenergli compagnia col partecipare alle sue pene, che soffriva per le offese
dei malvagi uomini. Ed io, conoscendo che il confessore non era in città,
subito gli dissi: “Mio buon Gesù, se vuoi comunicarmi le tue pene, tu stesso
dovrai avere la bontà di farmi riavere, che in caso contrario la famiglia non
potrà mandare per il confessore, perché questi trovasi in campagna”. Il
Signore, tutto bontà, mi disse: “Figlia mia, la tua fiducia deve essere posta
tutta in me; statti tranquilla e tutta fiduciosa e rassegnata, perché l’una e
l’altra cosa, riposte in me, rendono l’anima luminosa, facendo stare a posto
tutte le altre passioni, di modo che, attirato io da quei raggi di luce, da me
stesso comunicati, prendo possesso dell’anima e la informo tutta in me, per
farla vivere della mia stessa vita”.
Al suo dire non potetti opporre
il mio, e dovetti perciò rassegnarmi alla sua Santa Volontà, ed offrii la comunione
già fatta, come l’ultima della mia vita; dando, quindi, l’ultimo addio a Gesù
in sacramento me ne uscii di chiesa, e sebbene rassegnata, sentivo pur
nonostante un certo sconforto in me, pensando a ciò che stava per succedermi;
perciò tutto quel giorno non feci altro che piangere e pregare il Signore che
mi avesse comunicata novella forza per farmi riavere, in caso che fosse[24] per alienarmi
dai sensi. E di fatto, in quel giorno stesso fui sorpresa da quello stato
mortale, che mi riuscì troppo amaro, poiché con una croce nuova e pesantissima
mi trovai ridotta in tale stato; [croce] che io stessa giudico e stimo come la
più grave e pesante di quante altre ho dovuto subire sino a questo momento.
Mentre rientrai in quello stato
di mortali sofferenze, mi rassegnai tutta a fare la Volontà di Dio e a dispormi
a ben morire. La famiglia, intanto, vedendomi in quello stato, e tanto
soffrire, cercò di mandare per un altro sacerdote, [che] chissà avesse voluto
usarmi la carità di farmi riavere; ma chi per un verso e chi per un altro,
quasi tutti, domandati a prestarsi, si rifiutarono a venire in casa, e dovetti
così passare la bellezza di dieci giorni in quel continuo impietrimento di vita
mortale, ma senza morire. Finalmente, all’undicesimo giorno, si prestò il
confessore[25] a cui ero andata a
confessarmi per la prima comunione, quando ero ancor piccina. Questi venne e mi
fece riavere, come l’altra volta mi aveva fatto rinvenire il mio proprio
confessore. In questo rinvenimento compresi due cose: l’una, che non era la santità
sola del sacerdote che mi faceva riacquistare i sensi, ma soprattutto la
potestà data da Dio al sacerdote, come suo ministro; e la seconda cosa che
appresi fu nel ravvisare i disegni di Dio su di me, che era[26] per
involgermi nella rete soggettiva dei suoi ministri. Da qui mi ebbi una lunga
guerra da parte dei sacerdoti; e vi fu, infatti, chi disse essere lo stato mio,
tutto finzione, e ciò per farmi tenere da santa; chi diceva di essere io
meritevole di bastonate, per cui non avrei dovuto più cadere in quello stato di
vero infingimento; chi mi credeva indemoniata, e chi molte altre cose ancora,
di cui il tacere è sempre bello; e perciò io non sapevo come fare, giacché se
la famiglia si faceva un dovere per non farmi stare tanto a penare in quello
stato, e ne andava in cerca di qualche sacerdote per farlo venire, lo sa Iddio
a quali strani rifiuti fu essa sottoposta, tanto che non ne poteva più, e
specie la mia povera mamma, che per me ha versato un fiume di amarissime lacrime.
In quanto a me, taccio; dico solo che il Signore voglia perdonare tutti coloro
che mi hanno dato motivo di più soffrire, e voglia ricompensare centuplicatamente
quelli che hanno meco sofferto, specie la mamma mia.
S’immagini, dunque, quanto amara
mi è riuscita quella soggezione, che per riavermi debba avere assoluto bisogno
del sacerdote. Lo sa Iddio, quante volte non lo abbia io pregato, versando
amarissime lacrime, perché mi avesse liberata da sì dolorosa soggezione al suo
ministro! E quante volte non gli ho resistito quando era per chiedermi lo stato
di vittima, volendo che avesse accettato su di me le sue acerbissime pene?
Facevo allora, più che mai, violenza a me stessa per resistere, dicendo al mio
buon Gesù: “Signore, allora accetterò lo stato di vittima, a cui tu mi chiami,
quando mi avrai promesso che tu stesso mi farai riavere senza la venuta del
sacerdote, altrimenti non voglio sottopormi ad un sì pesante giogo”.
E resistetti così, per quanto
potetti, sino al terzo giorno; ma chi può resistere a Dio, se incondizionatamente
egli lo vuole? Nei tre giorni di resistenza usata verso il mio Dio, uscivo
spesso in queste espressioni contro le sue promesse, dicendogli con calde ed
amare lacrime: “Signore, tu non stai più alla tua parola datami. Come, dicevi
che il tutto si sarebbe svolto tra te e me sola, ed ora vuoi far sottentrare un
terzo per farmi riavere, per cui sarò costretta a far conoscere ciò che passa
tra te e me? E dire, poi, che questo non è condiscendente a venire quando tu
mi metti in condizione di non potermi riavere. Non hai tu notato i tanti strani
rifiuti ed umiliazioni che la famiglia ha dovuto subire, a torto, dai
sacerdoti, che nulla ci credono? Si può, certamente, farne a meno, e così
staremo contenti; contenta cioè io, nell’accettare le tue sofferenze su di me,
quante volte tu lo voglia, e nel tempo stesso più contento ancora sarai tu
stesso, che mi farai riavere quando lo vorrai, ed in questo modo non potrai
essere scontento di me, perché sarai contento della mia condiscendenza a fare
il tuo Volere”. Ma per quanto io dicessi, Gesù taceva e, fingendo ascoltarmi,
sembrava che avesse voluto esaudirmi in tutto, che, secondo me, era giusto e
santo; ma invece prese a dirmi: “Figlia mia, non temere; io son quelli[27] che
dà le tenebre e quelli che dà la luce; ora è stato il tempo delle tenebre, ma
il tempo della luce presto verrà. Sappi, ancora, che è mio solito di
manifestare le mie opere a mezzo dei sacerdoti; ad essi ho dato la potestà di
ben conoscere, giudicare ed incoraggiare l’anima a proseguire senza
perplessità, se il tutto è secondo il criterio della rivelazione, oppure a far
sospendere e tralasciare tutto quello che ritenga non essere, a seconda del
criterio di esse rivelazioni”.
È inutile dire che al parlare di
Gesù dovetti ammutolire e, a torto collo, senz’altro assoggettarmi al suo
espresso Volere; ma posso però tacere ora, a chi sono obbligata di manifestare
il tutto in precetto di obbedienza, quante stranezze e contraddizioni ho dovuto
sopportare nel corso di quattro anni circa? E ciò sia detto da me perché così
mi viene comandato, e non [per] fare appunto a quei sacerdoti che in questo
periodo di tempo mi assoggettarono a prove durissime: basta dire che si giunse
a farmi stare in quello stato di sofferenze, d’inabilità, di immobilità e
d’impietrimento, sino a diciotto giorni continui, e giù di lì, che fu per me
veramente stato di morte senza morire, giacché inabilitata a qualsiasi moto non
potevo prendere né una goccia d’acqua, né soddisfare alle naturali necessità;
fu insomma darmi, ancor vivente, come morta nelle mani dei sacerdoti, che a
loro piacimento ed a marcio mio dispetto mi facevano star vivente in stato di
vera morte.
Iddio solo sa quello che passai
in quei quattro anni di vero martirio. E quando qualche sacerdote si compiaceva
di chiamarmi a vita, non usava nemmeno la carità di dirmi: “Abbi pazienza, fa
la Volontà di Dio...”, ma in vece rimbrotti e ramanzine, che si fanno talvolta
ai capricciosi ed ai disubbidienti, che con l’agire a loro proprio talento si
son poi trovati nella via del male.
24 - Luisa si
piega con la grazia alle pene e contraddizioni che le vengono dai sacerdoti.
Gesù, servendosi dell’epidemia del colera, la mette sul lucerniere, facendo
pubblica la sua condizione di vittima.
Oh, quanto sono stata cattiva e
lo sono tuttora, perché risento ancora vivamente quando mi si dà la taccia,
sebbene a torto, di anima capricciosa e disobbediente! Se io volessi
investigare la ragione per cui, pur non volendo risentirmi, lo sento però sempre
vivo in me, dovrei trovarla nella causa efficiente di essere molto dissimile ancora,
nel mio pensare ed agire, da quello del mio sempre amabile Gesù. Egli, che in
tutta la sua vita è stato veramente il bersaglio in ogni specie di contraddizione,
non ha mai serbato in sé il minimo risentimento, ma sempre imperturbato ha
dovuto con piena calma sopportare in pace insulti sopra insulti, affronti
sopra affronti, e questi, innumerevoli e per tutto il corso della sua vita; ed
io, invece - ho pur vergogna a dirlo - ho versato chissà quante volte
amarissime lacrime, e [mi sono] lamentata col mio dolcissimo Gesù, sino a
risentirmi con lui ed a fargli, per quanto più potevo, resistenza, per fare che
non mi assoggettasse alle sue aspre pene e sofferenze, per non essere colpita
al vivo dall’ingiusta taccia di capricciosa e disobbediente. Ma quanto è stato
buono il Signore verso di me, miserabile e cattivella, che ad onta della mia
resistenza, fingendo dapprima di non più curarmi e nulla dicendomi, si
allontanava, ma per poco, ché tosto all’improvviso veniva a sorprendermi nella
mia desolazione causata dalla sua lontananza, e mentre con le sue dolci moine e
carezze m’induceva a compiere il suo Santo Volere, facevami cadere di nuovo
fra le braccia della mortale sofferenza, comunicatami direttamente dal mio
amabile Gesù; e quando veniva il confessore[28] a
farmi rinvenire, questi, con tono severo, mi diceva: “Non voglio che tu vi
ricada più in questo stato”.
Ed io, menomamente risentita, gli
dicevo: “Padre mio, non sta in mio potere di cadere o non cadere in questo
stato di assopimento mortale. È vero che sono capricciosa, disobbediente e
buona a nulla, ma dico la verità, che la pena più straziante per me è il non
poter obbedire; e con ragione, padre mio, sento questa pena, perché mi vedo
priva di quella virtù che è stata la gemma più fulgida e preziosa del mio Gesù,
senza della quale non sarò mai a lui gradita. Oh, quanto mi dispiace e che pena
io provo nel vedermi tanto dissimile da lui! Che bene può fare, qual bene operare
un’anima disobbediente?”.
A tali umilianti parole, che mi
uscivano dal fondo del cuore, in cui sentivo palpitante d’amore il mio diletto
Gesù, il confessore con qualche parola d’incoraggiamento mi lasciava, quasi
più contento delle altre volte innanzi venuto. Malgrado, però,
l’incoraggiamento avuto poco anzi, malvolentieri opinavo che, se il Signore non
mi avesse accertata che mi avrebbe egli stesso liberata dall’anzi detto stato
senza dell’intervento del confessore, pur accettando su di me le sue pene e
sofferenze in riparazione di tanti peccati che si commettono continuamente
dalla maggior parte degli uomini, ero disposta ad opporgli ogni resistenza,
affine di ottenere quanto io mi proponevo. Ma se la creatura propone in un
modo, Iddio, nella sua imperscrutabile sapienza, fa in modo che si eseguisca,
dalla stessa, tutto ciò che ha disposto su di lei.
Fece quindi Iddio, in questo
periodo di tempo, che il colera incominciasse di giorno in giorno ad infierire
sempre più, tanto da intimorire la nostra buona cittadinanza[29]; ed
io un giorno, più che mai, mi misi con fervore a supplicare il Signore che
avesse fatto cessare questo flagello della giusta ed inesorabile ira di Dio,
sdegnato a causa degli innumerevoli affronti commessi dai malvagi uomini.
Mentre, dunque, così pregavo, mi si fece vedere il mio amabile Gesù, che mi
disse: “Ebbene, io sono per contentarti, purché tu voglia offrirti vittima di
riparazione, soffrendo ben volentieri quanto di grave ed affliggente sarà
trasmesso all’anima ed al corpo tuo”.
Io, allora, a lui: “Signore, se
il male passasse tra te e me, sarei prontissima ad accettare tutto ciò che tu
voglia fare su di me; all’opposto, non posso, ché tu ben sai come la pensano e
si conducono i sacerdoti verso di me”.
E Gesù, molto benignamente, mi
rispose: “Figlia mia, se avessi voluto opinare su ciò che gli uomini erano per
fare sulla mia umanità, certo non avrei operato la redenzione del genere umano,
ma invece io non ebbi altro intendimento che la loro eterna salvezza. Fu
l’amore grande che mi divorava, che mi fece fare il sacrifizio di tutto e di
tutti; e quelle stesse pene e sofferenze, quegli stessi dolori e dispiaceri che
le creature ingiustamente mi davano col loro pensare ed agire contro di me, io
li offrivo all’eterno mio Genitore per la loro eterna salvezza. Ti sei
dimenticata che io voglio da te l’imitazione della mia vita? Sappi che per
imitarmi in tutto ciò che feci nel corso di 33 anni, non solo devi
assoggettarti ai miei travagli, alle contraddizioni, pene, dolori e sofferenze
di morte, ma ancora devi subirle in quel modo che furono sopportate da me. A
questa condizione si chiede da te l’imitazione della mia vita, se lo vuoi;
altrimenti, imitarmi a tuo piacere, non è né sarà mai di mio gradimento tutto
ciò che potrai fare. L’atto più bello ed a me più gradito è quello fatto
incondizionatamente dall’anima, in quanto che si assoggetta in modo da non
aver più la sua volontà nell’agire, ma in tutto e per tutto dipende dalla
Volontà mia; procura tu, dunque, di fare quest’atto eroico di morire alla tua
volontà e di vivere sempre nella mia, affinché io possa trovare in te le più
gradite compiacenze. Per ora voglio che ti renda vittima di amore, di
riparazione e di espiazione per quelle stesse persone che non solo ti sono
contrarie, ma ancora di gran molestia, considerando che essi sono figli miei,
redenti col mio proprio sangue, e se tu veramente sentissi amore, dovresti
anche assoggettarti a dare tutto per la loro salvezza”.
A questo giusto parlare di Gesù,
potevo io opporgli resistenza? Ed è perciò che accettai quello stato di vittima
a cui mi voleva. E difatti, sino a sera fui sorpresa da quello stato di
sofferenze, da lui comunicatemi, ed in cui vi rimasi per ben tre giorni,
senz’affatto riavermi. Riavutami dopo, non s’intese più parlare del colera,
tranne che a pochi folleggianti, che dovettero pagare il loro contributo alla
morte. Però la maggior parte dei cittadini furono scossi da questo flagello di
Dio, tanto che il confessore, quando venne a farmi riavere, scherzevolmente mi
si fe’ a dire: “In questi passati giorni, è stato tra noi un grande
missionario, il quale ha fatto molto bene nel suo ministero di predicatore; si
son viste, infatti, ai nostri piedi prostrarsi certe facce, che forse in vita
loro non si erano mai degnate di passare nemmeno davanti ad una chiesa, essendo
state sempre restie ad ogni sentimento religioso, mentre alla chiamata di
questo eccellente predicatore si sono arresi alla grazia, di[30] cui
hanno prodotto[31] frutti di vita eterna”.
A questo, mi feci a domandare
dove questi predicasse; ed egli: “Non solo in tutte le chiese, ma ancora fuori
di queste, cioè in piazza, nei circoli, nelle botteghe, in casa; insomma, in
tutti i luoghi arrivò la sua potente parola, e con tale unzione di grazia che
molti si son ridotti a penitenza”.
Ed io: “Come si chiama costui?”.
Egli mi rispose: “Porta un bel nome; da tutti si fa appellare Don Coletto,
flagello di Dio”, volendo indicare il colera.
25 - Cambio
di confessore. La prima ubbidienza che il nuovo confessore le ingiunse fu
l’assoggettarsi come vittima alle sofferenze, soltanto con la sua autorizzazione.
Un’altra mortificazione stavami
intanto preparando il Signore, la quale venne a colpirmi dopo il suddetto
colera, e fu quella di dovermi assoggettare al rapido cambiamento del confessore,
che essendo religioso fu chiamato dai suoi superiori alla vita più ristretta
del convento; ed io, che ero contenta di lui, giacché sin qui è stato l’unico
che non mi abbia dato da soffrire, giacché tutto quel chiasso che di sopra ho
accennato fu fatto dagli altri sacerdoti e mentre questi stava in campagna,
specie nel tempo che serpeggiava il colera, a dire il vero ne soffrii molto
all’annunzio di questa partenza; non già che ci avessi il più piccolo attacco,
ma solo perché mi trovavo nella grande necessità di ricorrere a lui, e come[32] più
facile a prestarsi alla carità di farmi riavere. Addoloratissima, dunque, feci
ricorso al Signore, manifestandogli la mia acerba pena.
E Gesù, al solito tutto dolcezza,
mi disse: “Figlia mia, non volerti affliggere per questo; essendo io il padrone
dei cuori, posso volgerli e rivolgerli come a me pare e piace. Se egli, come
confessore, ti ha fatto del bene, non é stato altro che un mio messo che da me
riceveva il tutto, e a te lo dava come io disponevo; e così farò per gli altri:
li disporrò cioè a venire da te, e darò loro tutte quelle grazie che serviranno
all’uopo. Di che, dunque, tu temi? Figlia mia, quante volte ho da ripeterti che
sino a tanto che tu avrai occhi per mirare, ora a destra ed ora a sinistra,
posando ora su questa ed ora su quest’altra cosa il tuo sguardo, non potrai
camminare bene e speditamente nella via del cielo? Se non lo fisserai solo in
me, andrai sempre zoppicando; l’influsso della mia grazia non si potrà da te
eseguire; perciò voglio che con santa indifferenza te ne stia riguardo alle
cose che ti circondano, ma sempre però intenta a compiacere me, eseguendo tutto
ciò che voglio da te; altrimenti non potrai avere sugli altri la preferenza
nello stato di vittima”.
Riflettendo bene sulle parole ascoltate
dalle labbra di Gesù, il mio cuore acquistò tale forza che non feci più caso
dell’allontanamento del confessore, pur avendo fatto tanto bene all’anima mia.
Iddio m’ispirò, quindi, di assoggettarmi alla direzione di colui che mi
confessava[33] quando io ero ancor
fanciulla, e di questa scelta non mi sono mai pentita, anzi, spesso spesso ho
esclamato verso Dio: “Sii sempre benedetto, o Signore, che mi hai confusa,
giacché ti sei servito di ciò che a me compariva contrario e quasi dannoso
all’anima mia, mentre tutto considerando è riuscito un fatto meraviglioso per
la tua maggior gloria e per il bene dell’anima mia. Sempre così, mio Dio!”.
Ed invero avvenne che a questo
ministro di Dio, da lui proposto e da me chiamato, io cominciai ad aprire il
mio cuore, che era stato sempre chiuso a tutti gli altri confessori, i quali,
per quanti sforzi ed insistenze mi avessero fatte, e per quanto io stessa mi
sforzassi ad aprire il mio interno, pur non so dire quale restringimento di
cuore sentivo in me, per cui rimandavo di volta in volta [l’aprirmi], sino a
questo punto, poiché al solo pensiero di dover dire ad altri cose che passavano
fra me e Gesù, provavo in me tale rossore e ritrosia, che era lo stesso come se
dovessi dire i più laidi peccati, che per grazia di Dio non conosco, né ho
avuto mai sentore. A questo [confessore], invece, in parecchie volte mi aprii
in modo da fargli conoscere tutto minutamente, benché senza ordine. Se mi si
domandasse la ragione per cui avevo sentita tanta ripugnanza nell’aprirmi prima,
per tutta risposta direi: ‘non so dirlo’; se da parte del confessore, credo di
no, perché egli era così buono, fiducioso e tanto paziente nel sentirmi, che
avrebbe presa cura esattissima dell’anima mia, qualora fossi stata disposta ad
aprirmi con lui delle cose che passavano tra me e Gesù; egli era tutt’occhi su
di me, affinché camminassi per la via diritta della virtù. Da parte mia, non lo
credo nemmeno, poiché sentivo nell’anima sì grave incubo da sentirne tutta la
volontà di liberarmene, ed ancora l’ansia di sapere come egli la pensasse al
riguardo; ma ciò, lo ripeto, mi fu impossibile di farlo. Ritengo, perciò, che
la ragione per cui non abbia potuto aprirmi prima di ora, sia stata per sola
permissione e Volontà di Dio, per poi obbligarmi a riferire tutto il corso
della mia vita all’attuale confessore di cui sto parlando. Questi però aveva
un’attitudine tutta speciale a saper penetrare non solo nel mio interno, ma
quanto[34]
piena volontà e pazienza nel sentirmi, per cui, trovando io in lui questa buona
disposizione, a poco a poco mi feci coraggio ad aprirgli tutto il mio interno,
facendogli leggere come su di un libro, foglio per foglio, anzi parola per
parola, tutte le grazie che il Signore mi aveva comunicato, tanto più che il
mio buon Gesù molte volte s’imponeva a farmi manifestare tutto ciò che mi
diceva e succedeva in me; e quando alle volte sentivo gran ripugnanza a
manifestare qualcosa, tosto mi riprendeva vivamente, sino a minacciarmi che si
sarebbe ritirato; e perché il dirmi ciò era lo stesso che farmi sentire la pena
più atroce, per il timore che mi abbandonasse, ogni difficoltà fu da me
superata, facendo in verità molta violenza a me stessa.
Lo stesso dico da parte del
confessore, che era sempre intento a domandarmi, ora una cosa ed ora un’altra.
A volte, infatti, mi domandava donde avvenisse quel mio assopimento, quale la
causa, quali gli effetti; e talvolta, vedendomi restia, mi comandava in
precetto di obbedienza, mettendomi innanzi il timore che potessi vivere nella
più diabolica illusione, mentre dicendo tutto - soggiungeva - “saremo entrambi
più sicuri e tranquilli, giacché il Signore non permette mai che un suo
ministro, che voglia agire rettamente nella ricerca della verità, si possa
ingannare, quando l’anima è obbediente”. Altre volte, poi, sembravami riguardo
a ciò, che Gesù ed il confessore se la intendessero fra loro prima che Gesù mi
avesse assoggettata a qualche sofferenza, giacché mi accorgevo che il
confessore, nel domandarmi, era già a cognizione della verità, per cui dicevo
fra me: “È meglio dirla questa cosa anziché tacerla, tanto più che egli già la
conosce, e come onninamente è avvenuta in me; ma se la tacessi, chissà che non
sarebbe spinto a cambiare il suo metodo di direzione”.
Tutto questo, invece, non
avveniva nel confessore degli anni passati, il quale non solo non mi faceva
nessuna domanda, ma nemmeno cercava d’indagare la verità riguardo allo stato
d’impietrimento che avveniva in me, né se ciò avvenisse per opera di Dio o del
demonio, oppure se fosse un fatto tutto naturale, cagionato da infermità corporale.
In una parola, niente egli domandava, e niente io dicevo; ma aveva però
sollecita ed instancabile cura d’investigare se fossi o no rassegnata alla Volontà
di Dio, nel sopportare le croce che il Signore mi aveva mandata; e ne soffriva
tanto, quando non mi trovava del tutto paziente a sopportarla. Mentre il
secondo confessore che prese la mia direzione, come seppe da me che il Signore,
nel farmisi vedere, mi domandava se volevo assoggettarmi a quello stato di
vittima, prima di ogni altra cosa m’ingiunse che io dovevo dire a Gesù, prima
di accettare lo stato di sofferenza: “Signore, non posso né devo accettare il
patire a cui vuoi assoggettarmi, se prima non ho licenza dal confessore. Se
vuoi, va prima da lui, e domandagli il suo consenso, affinché non abbia a risentirsi
meco”.
26 - Gesù
sollecita Luisa ad offrirsi come vittima perpetua, in continuo stato di
sofferenza, per risparmiare gli uomini da nuovi meritati castighi, e specie da
una guerra, e per preparare la via, così, a nuove grazie di santificazione per
lei.
Una mattina, quindi, dopo la
comunione, mi disse il mio amabile Gesù: “Figlia mia, le iniquità che si commettono
dagli uomini sono tali e tante, che la bilancia della mia giustizia ha
eccessivamente trasmodato la sua equilibrazione[35]. La
preponderanza del male mi fa uscire fuori con l’equiponderanza[36] dei
flagelli che verserò su di loro, specie una fierissima guerra, in cui e per cui
farò della carne umana strage inaudita. Ah, sì - proseguiva piangendo - ho dato
loro i corpi, acciocché fossero tanti santuari in cui potessi spesso spesso
deliziarmi, ed invece li hanno cambiati in cloache di marciume, di cui è tanto
il fetore, che mi hanno costretto ad allontanarmi totalmente da loro! Ecco,
figlia mia, la ricompensa a tanto mio amore ed a tante pene sofferte per loro!
Chi mai al mondo è stato sì largo nel beneficare, ed ora nell’indugiare tanto
alla giusta vendetta? Ah, nessuno è stato simile a me! Qual è intanto la causa
di tanto loro pervertimento? Non altro, figlia mia, che il troppo bene che ho
sempre nutrito per loro; ma ora proverò a ridurli al loro dovere coi più
spietati castighi”.
A questo doloroso parlare di
Gesù, il mio cuore si sentì traboccare di amarezza e spezzare ancora per il
dolore, nel considerare che un Dio così buono debba essere tanto vilipeso dagli
ingrati e malvagi uomini, per cui lo costringevano, per schivarli, a
nascondersi nel mio cuore come luogo di rifugio. Eppure, chi può dire ora tutta
la pena ed amarezza che sentivo in me nel pensare che questi erano per essere
castigati dal flagello della guerra, per cui mi pareva come se io stessa
dovessi soffrire? E di più sentivo una gran brama di sopportare io quei
castighi, anziché vedere soffrire altri, pene, dolori e morte di guerra.
Cercai, quindi, di placarlo con ogni modo di compatimento, per quanto fu in mio
potere, e poscia gli soggiunsi:
“O sposo santo, risparmia loro i
flagelli che la tua giustizia tiene preparati, e se la molteplicità delle loro
iniquità è così grande, come tu dici, v’è ancora il mare immenso del tuo sangue
in cui puoi farli tuffare; così essi usciranno purificati e la tua giustizia
resterà soddisfatta. Per ora e per sempre, se non hai luogo dove deliziarti,
vieni ognora in me, che ti offro tutto il mio cuore affinché trovi in esso
riposo e delizia, sebbene, ho purtroppo da aggiungere che ancora il mio cuore è
come una sentina di vizi; ma sono disposta, mercé la tua efficacissima grazia,
a purificarlo ed a farlo divenire come tu lo vuoi. Deh, mio bene, placati, che
se fosse necessario ed utile anche il sacrifizio della mia vita, oh, quanto
volentieri lo farei, purché potessi vedere le tue immagini risparmiate dal tuo
fiero flagello!”.
Gesù allora, troncandomi la
parola, riprese a dirmi: “Figlia diletta del mio cuore, se volentieri ti offri
a soffrire, non già come per il passato, cioè ad intervalli di tempo, ma in
continuazione, io certo risparmierò gli uomini; ma sai come? Ti metterò in
mezzo, tra la mia giustizia e le iniquità degli uomini, e quando metterò mano
alla mia giustizia col mandare fulmini di flagelli per punire le iniquità di
questi, trovandoti tu in mezzo, sarai colpita tu da quelli, e resteranno gli
uomini immuni dai colpi della mia giustizia. Se vuoi condiscendere a tanto,
sono pronto a risparmiare gli uomini; diversamente non potrai vedermi placato,
né io potrò più a lungo astenermi”.
Restai sbigottita e tutta
confusa, tanto che la natura fremeva e tremava, ma vedendo che Gesù attendeva
da me una risposta affermativa o negativa, gli dissi, quasi costretta a parlare:
“O mio divinissimo sposo, da parte mia sarei disposta a qualsiasi sacrifizio,
ma come si rimedierà da parte del confessore, se venendo di tanto in tanto
m’ingiunge di non dovermi assoggettare al patire senza un previo suo consenso?
Sarà, ora, possibile che venga tutti i giorni, se mi assoggetti senza la sua
obbedienza? Se, poi, vuoi che mi sottoponga a compiere questo sacrifizio senza
della sua obbedienza, sono pure pronta, purché il riavermi dipenda non da lui,
ma da te solo, mio sommo bene”.
Allora Gesù, vero sposo di
perfettissima obbedienza e che tutto ha sacrificato per il massimo decoro di
questa virtù, mi disse: “Non sia mai, figlia mia, che si agisca contro questa
mia sposa di sangue; piuttosto portati dal confessore e domandagli la sua obbedienza.
Se egli vorrà sentirti, gli dirai per filo e per segno tutto ciò che ti ho
detto, ed in più aggiungerai che tutto ciò non sarà soltanto per il bene delle
creature attualmente viventi nel peccato, ma ancora per il bene di quelle che
sono per venire al mondo, e soprattutto per il tuo massimo bene che ti
assoggetti a queste non interrotte sofferenze, quasi mortali, giacché in questo
futuro stato a cui stai per sottoporti, mercé l’ubbidienza, ti purificherò in
modo tale, che l’anima tua sarà fatta degna di elevarsi a formare meco il
mistico sposalizio, e dopo tutto questo farò l’ultima tua trasformazione in
me, da divenire ambedue insieme come due ceri liquefatti al medesimo fuoco, che
trasfusi uno nell’altro diverranno un solo corpo, e così uniti per l’unico
pensiero, per l’unico amore e per la stessa opera di riparazione, ci
trasformeremo io in te e tu in me, in modo tale da restare tu crocifissa in me,
con me e per me… Non saresti tu contenta se potessi tu dire: ‘Gesù, mio sposo,
è crocifisso in me, ed io, sua sposa, crocifissa in lui’? Allora sì che potrai
dire che non vi è cosa che ti renda dissimile da Gesù”.
Persuasa, quindi, della ragione
espostami da Gesù, quando venne il confessore gli manifestai tutto ciò che
avevo udito da Gesù, ed ancor quello di volermi fare soffrire senza limiti di
tempo, il che, se fu da un canto tenuto da me per vero, dall’altro mi convinsi
che le dette sofferenze avrebbero avuto la durata di una quarantina di giorni e
non più. Ma purtroppo, da quel giorno sino al momento che scrivo sono passati
dodici anni che continuo in questo stato di sofferenze, e chissà quanto la
durerò ancora![37]
Ne sia sempre però benedetto il
Signore, e siano sempre adorati i suoi inscrutabili giudizi! A me resta a dire
che se avessi compreso che avrei dovuto passarmela continuamente a letto, non
mi sarei, forse, sì facilmente assoggettata allo stato di vittima perpetua,
giacché la mia natura si sarebbe talmente spaventata che difficilmente avrei
avuto il coraggio di sottopormi ad un tanto sacrificio; ed altrettanto posso
dire, senza dubbio, del confessore, il quale, se avesse conosciuto il
sacrifizio che gli toccava di fare tutte le mattine per farmi riavere, non avrebbe
certo accondisceso a farmi stare sino a quel tempo che avesse voluto Iddio.
Posso ancora asserire che sono
stata sempre amante di questo mio dolce patire, e sempre più rassegnata, [sia]
quando sono stata in continue pene, dolori e sofferenze, che quando ne ero
priva. Eppure, quando incominciai a vivere nello stato di vittima perenne, non
conoscevo ancora la preziosità della croce, poiché questa mi fu fatta conoscere
dal Signore, lungo il corso di questi dodici anni.
Tornando ora al confessore, a cui
avevo manifestato quanto l’amabilissimo Gesù voleva da me, mi disse: “Se tutto
ciò che mi hai detto è veramente Volontà di Dio, ti sia concessa la santa
obbedienza, ché in realtà si può fare da me il sacrifizio di farti riavere ogni
mattina; ché se impedimento vi è, lo trovo nel mio rispetto umano, che con la
grazia del Signore sarà vinto da me”.
L’anima mia molto si rallegrò
allora, pensando che le creature stavano per essere risparmiate dal terribile
flagello della guerra, sebbene la natura cominciasse a fremere, e tanto da
farmi passare qualche giorno nella più grande tristezza. La mattina seguente,
perciò, nel portarmi in chiesa, avendo ricevuto Gesù nel mio cuore, gli dissi:
“Dolcissimo Gesù, vedi un po’ in quale mare tempestoso è immersa l’anima mia;
invece di essere in tranquilla pace per ringraziarti dei lumi dati al
confessore, per cui ha creduto concedermi l’ubbidienza di eseguire quanto tu
vuoi da me, tuttavia sono conturbata e molto confusa, prima, per lo stato di
sofferenza a cui stai per sottopormi, e poi, e questo è più allarmante per me,
è perché dovrò forse stare in quello stato senza più ricevere te, che sei la
mia vita. Chi potrà, mio bene, resistere senza di te? Mi darà, forse, altri la
forza a resistere, se non mi sarà data da te, che sei tutta la forza, onde
possa trovare un ristoro alle mie pene e sofferenze, se non mi sarà dato di
avvicinarmi a te in sacramento?”.
Mentre così mi sfogavo con Gesù
nel mio cuore, per la pena delle future sue privazioni, mi sciolsi in
dirottissimo pianto; e Gesù allora, compatendomi e compassionandomi,
affabilmente mi disse: “Figlia mia, non temere; io già conosco la tua
debolezza, ed ho preparato novelle e speciali grazie che sosterranno la tua
fragilità. Non sono forse io onnipotente in tutto, in modo da poter supplire in
tutt’altro modo alla privazione di ricevermi in sacramento? Rassegnati adunque,
e mettendoti come morta nelle mie paterne braccia, offriti vittima volontaria
per riparare le tante offese che io ricevo continuamente dal genere umano; così
potrai farmi risparmiare gli uomini dai meritati flagelli, ché se tu
volontariamente farai il sacrifizio di tutta te stessa, dandoti vittima di
amore, di espiazione e di riparazione, nelle mie braccia per l’eterna salvezza
di tutti, ti prometto che neppure un solo giorno ti farò stare senza venire a
visitarti. Se fin ora sei stata tu che sei venuta a me, d’ora innanzi, ti assicuro,
sarò io che immancabilmente ogni dì verrò a te a visitarti; queste visite
potranno essere brevi; saranno però sempre salutari e di grande consolazione
all’anima tua. Sei contenta? E giacché mi è nota la tua adesione alla mia Volontà,
sappi che sin da questo momento sei già vittima perenne in stato di minori o
maggiori sofferenze, a seconda che io lo voglia e lo richieda la riparazione
dovuta alle colpe che si commettono dalle creature”.
Ora, chi può dire le grazie che
il Signore incominciò a farmi? Il voler narrare tutto ciò che il mio amante
Gesù ha fatto a me sinora, dacché accettai il perenne stato di vittima, mi è
proprio impossibile, specie se si volesse singolarmente e distintamente
conoscere [dette grazie]. Dirò solo per ora, succintamente, quelle che più
hanno fatto breccia sul mio cuore; e poi successivamente, come mi sarà dato ricordare,
contenterò la santa obbedienza, che senza pietà mi ha imposto di narrare le più
intime grazie, che per mia grande vergogna stento tanto a rivelare. E prima di
ogni altra cosa dirò, circa l’anzidetta promessa fattami da Gesù, che essa è
stata sempre inappuntabile, poiché dal principio sino a questo momento [non è
venuta meno], e credo che lo sarà, senza dubbio, sino alla fine.
Ricordo bene che sin dal primo
giorno in cui mi confisse nel letto, amorosamente mi diceva: “Diletta del mio
cuore, io ti ho voluto mettere in questo stato affinché potessi più liberamente
venire teco a conversare. Dapprima, infatti, ti liberai dal mondo esterno e poi
da ogni occasione di trattare con le creature; indi purificai il tuo interno in
modo che né più pensiero né più affetto di terra restò in te, ed in luogo di
quelli vi misi pensieri ed affetti tutti celesti, traboccanti di amore verso di
me; ed ora che ogni cosa ti è diventata estranea ed io teco tutto famigliare,
voglio immedesimarmiti in modo che non solo l’anima, ma anche il corpo, possano
stare a mia disposizione, e rendere l’uno e l’altra perpetuo olocausto innanzi
a me. Se non ti avessi confinata in questo letticciuolo, non avresti potuto
avere il bene di essere così spesso visitata da me, giacché avresti dovuto
prima disimpegnare i doveri di famiglia, con grande tuo sacrifizio, e poi
ritirarti nell’oratorio del tuo cuore ad attendere una mia fuggitiva visita. Adesso,
non più; siamo rimasti soli, e non vi è chi possa ostacolare la nostra
conversazione ed ancora le vicendevoli comunicazioni dei nostri dolori e delle
nostre pene, ed a mia somiglianza potrai partecipare a quanto di gioia e
contento mi viene dai pochi buoni, ed a quanto di amarezze, dolori ed affanni,
mi viene dai malvagi. D’ora innanzi le mie consolazioni saranno tue, e le tue
saranno mie; così pure le mie afflizioni e le tue saranno comunicate vicendevolmente,
ed accomunate in modo tale da far totalmente scomparire quel ‘tuo’ e quel
‘mio’, ma il ‘tuo’ ed il ‘mio’, sarà appellato ‘nostro’. Insomma, tu prenderai
interesse delle cose mie come se fossero veramente tue, ed io, a pari, delle
tue che, certo, sono ancor mie, tranne che le tue imperfezioni.
Sai tu come ho fatto io e come mi
comporterò teco? Al par di un re che di fresco si sia sposato ad una nobile
regina, il quale, bramando starle sempre vicino, se per poco è obbligato ad
allontanarsene, la sua mente ed il suo cuore sono in continuo movimento per
lei, per cui cerca di sbrigare al più presto possibile ogni sua faccenda per
far presto ritorno a lei; ritornato, è tutt’occhi su di lei, per scorgere se
qualche ombra di amarezza vi fosse in lei; e se vuole parlarle, la fa ritirare
dalle persone che la circondano, la prende seco, la conduce nelle sue stanze,
vi chiude le porte e vi mette fuori [una] persona di sua massima fiducia per far
loro la guardia, affinché nessuno ardisca interrompere la loro conversazione,
oppure ascoltare i loro segreti colloqui. Stando così soli, tutto si comunicano
tra loro, e se qualcuno imprudentemente volesse loro togliere la pace e recare
qualche disturbo, sarebbe immediatamente allontanato dal re come disturbatore
della sua gioia, e quindi severamente punito. Così ho agito teco, mettendoti in
questo stato; guai perciò a chi volesse distoglierti dal medesimo, ché non solo
mi dispiacerebbe, ma sarebbe ancora da me punito. E tu di ciò ne sei
contenta?”.
28 - Gesù
chiama l’anima ad una perfetta conformità con la sua Volontà; vuole in essa un
distacco assoluto da tutto ed una perfetta povertà.
Se alle tante grazie che il mio
diletto Gesù mi ha elargito sinora non volessi corrispondergli col più grato
amore, meriterei di essere appellata col nome più abbietto ad ogni razza umana;
e dal cielo e dalla terra mostrata a dito alle future generazioni come l’anima
più ingrata che sia esistita sinora, e come la più sciagurata fra tutti i
reprobi, se non assecondassi in tutto e per tutto il suo Santissimo Volere. Ed
invero, che non si direbbe d’un povero straccione che rifiutasse ad un
ricchissimo signore di mettere in massa comune gli immensi suoi beni coi pochi
e luridi cenci di quello, all’unico scopo di volerlo rendere padrone al par di
lui, rispettando la semplice condizione di prendere conveniente cura d’interessarsi
di tutto come di cosa sua propria? Diverrebbe egli, così, la favola della
città, e degna di essere tramandata ai posteri, i quali, pur raccontandola, non
la crederebbero vera. Così, appunto, ha fatto meco Gesù: ha messo in massa
comune tutti gli infiniti suoi beni con le mie imperfezioni, e mi ha resa
padrona del suo, ed egli padrone del mio nulla, a patto però che io avessi cura
del suo, che elargisce gratuitamente, mentre egli, a costo d’immensi
sacrifizi, ha comprato da me… Cosa mai? Ho vergogna a dirlo: non solo il mio
nulla, ma le stesse imperfezioni, che vuol ridurre a perfezione. Oh, quanto non
gli sono obbligata! Egli, che non si è stancato mai, né si stanca, né si
stancherà mai di ripetermi ogniqualvolta mi ritrova dissimile da lui: “Io
voglio da te perfetta conformità alla mia Volontà, in modo che la tua volontà
venga a disfarsi totalmente nella mia”.
E di più, quante volte notava in
me il benché minimo attacco a cose indifferenti, dolcemente mi pressava a
distaccarmi dicendomi: “Figlia mia, bramo da te un distacco assoluto da ogni
cosa che non sia mia; ossia tutto ciò che sa di terra, voglio che sia tenuto da
te come sterco e marciume, che ti sia orrido anche a guardarlo, perché le terrene
cose, fin quando che non sono di assoluta necessità, solo a tenerle d’intorno e
guardarle con compiacenza ne agghiacciano il cuore, e adombrando le cose
celesti impediscono che abbia luogo quel mistico sposalizio che da un pezzo ho
promesso di voler fare con te. Sappi che io nulla apprezzai delle cose di
quaggiù, tranne quelle puramente necessarie; perciò mi assoggettai alla nuda
povertà, che pure voglio far seguire da te, disprezzando tutto ciò che non ti
sia necessario… In questo letticciuolo, con l’imitarmi nella povertà, devi
considerarti più che una vera poverella, e così solo potrai dirti
effettivamente povera; mai entri in te la brama di acquistare, perché voglio
che in te ci sia la vera povertà affettiva, con cui nulla brami, nulla prenda
se non ti fosse puramente necessario, e di questo, ancora, ringrazia prima me e
poi i tuoi largitori. Voglio perciò che d’ora innanzi te ne stia a quello che
ti viene dato, senza altro domandare, perché potrebbe esserti d’impiccio alla
mente, desiderando quella cosa che non ti venisse data; ma con santa
indifferenza rimettiti alla volontà altrui, senza pensare se ti venisse bene o
male”.
E ciò, in pratica, a dir vero, mi
costò da principio il più grande sacrifizio, ma subito mi avvidi che senza
pensare a questa o a quella cosa e senza nulla chiedere, mi veniva data, quando
ne avevo veramente bisogno.
29 - Una
nuova croce di Luisa: il rimettere sempre assolutamente il cibo, ed insieme il
patimento della fame. Il confessore le proibisce di continuare nello stato di
vittima.
Superata intanto questa
difficoltà, il Signore volle sottopormi ad un’altra prova più penosa, che è la
seguente: per le continue sofferenze che mi venivano direttamente comunicate da
Gesù, io ebbi a soffrire continui conati di vomito ogniqualvolta prendevo cibo;
ora, in questo stato, mentre mi veniva dato dalla famiglia qualcosa di cibo, e
che immediatamente rigettavo, mi sentivo talmente illanguidire lo stomaco da
non potersi dire; ma ricordandomi quanto Gesù mi aveva detto: “Statti a quello
che ti viene dato”, non ardivo chiedere altro, tanto [più] che sentivo in me
tale vergogna come se la famiglia dovesse rimproverarmi col dirmi: “Come, hai
ora appena vomitato, e vuoi già di nuovo mangiare?”.
Per questo dicevo tra me: “Nulla
chiederò se prima non me lo porteranno da loro stessi, altrimenti il Signore ci
penserà”.
E così me la passavo, contenta di
poter soffrire qualche cosa per amor di Gesù, offrendo tutto in riparazione di
quante offese si commettono con le golosità. Il confessore, poi, non so perché,
sentendo che venivo presa da conati di vomito, m’ingiunse di prendere tutti i
giorni il chinino, il quale mi stuzzicava maggiormente l’appetito, ma non
potendo prendere alcun cibo senza che mi venisse dato, io mi sentivo straziare
lo stomaco, in modo tale da sentirmi in stato di morte senza mai morire; e
tutto questo mi durò per circa quattro mesi, fino a quando il mio diletto Gesù
m’ingiunse: “Dirai al confessore che non ti faccia prendere né cibo né chinino
ogniqualvolta tu rimetti, che egli, illuminato da luce superna, ti accorderà di
[non] prendere né l’uno né l’altro”.
E così avvenne, poiché il
confessore mi accordò di [non] prendere più nulla; ma poi, per non farmi parere
singolare, mi disse: “D’ora innanzi voglio che prenda il cibo una sola volta al
giorno”. Così facendo, restai più tranquilla; mi passò la fame, ma non il
vomito, che sempre, ogniqualvolta prendo il cibo, sono costretta tuttora a
rimetterlo dopo un po’ di tempo[38]. Più
volte però il mio diletto Gesù mi ha ripetutamente detto: “Di’ al confessore
che ti dia l’ubbidienza di non più mangiare”; ma per quanto glielo abbia detto,
mi si è sempre rifiutato, dicendomi: “Fa conto che il mangiare ti sia dato a
scopo di poter fare uno o più atti di mortificazione al giorno, sempre in
riparazione delle tante offese che il Signore riceve per la golosità degli
uomini”.
Ma non passarono che pochi
giorni, ed ecco che il Signore tornò a ripetermi: “Voglio che affacci di nuovo
al confessore la domanda perché ti astenga dal prendere qualsiasi cibo, ma
fallo con santa indifferenza, disposta cioè a fare ciò che la santa obbedienza
vorrà o no accordarti”.
Obbediente alla voce del mio
Gesù, subito che venne il confessore gli manifestai il tutto, ma, non so perché,
non solo mi venne questo negato, ma [ancora] m’ingiunse il divieto di dover
stare in tali sofferenze, come se questo dipendesse da me. Ma se non sbaglio,
credo che il confessore, ricordandosi che io gli avevo detto che il Signore mi
chiamava allo stato di vittima per un tempo indeterminato, che da me fu tenuto
per una quarantina di giorni circa, la ripetuta domanda di astenermi dal
mangiare dovette far sì che giudicasse non essere verità né il mio stato di
sofferenze in cui il Signore mi pose, né l’ultima proposta di non dover più
mangiare, come voleva il mio amante Gesù; oppure il confessore, per ragioni a
me ignote, venne a questa risoluzione, di non dover più stare[39] in
questo stato di vittima, aggiungendo che, se fossi ricaduta in quello stato di
sofferenze, non sarebbe più venuto per farmi riavere. Dico la verità, che io, a
questo parlare del confessore, mi sentivo dispostissima a fare la santa
ubbidienza, tanto più che la natura richiedeva il diritto di essere sgravata
dal peso di tanti dolori e sofferenze mortali, in cui spesso ricadevo, e che
naturalmente non si può agognare né sopportare senza uno speciale aiuto divino.
E poi, quel dovermi assoggettare a tutto, ed anche per quelle cose più
ripugnanti, ma pur necessarie alla natura, è un vero sacrifizio, che se non si
facesse per Volontà di Dio - a lui devo il ricambio dell’amore immenso che ha
profuso in gran copia - certo che anche i più grandi santi avrebbero
recalcitrato. Io dunque, da parte mia, provai una certa consolazione, e mi
disponevo a fare in tutto la santa ubbidienza, ma ero anche pronta e disposta a
stare confinata nel mio letticciuolo, qualora il Signore avesse voluto tenermi
in questo stato di vittima, giacché sperimentavo la bontà del suo Volere, che
mi procurava quella vera rassegnazione ed uniformità alla sua Santa Volontà,
che sa far cambiare la natura alle cose, e fin l’amaro, che lo converte in
dolce.
30 -
Resistenza di Luisa a Gesù, che la vuole nei patimenti, perché manca il
consenso del confessore; ma finalmente Gesù s’impone, comunicandole lo stato di
sofferenze e dandole, per il confessore, come prova che è la sua Volontà,
l’annuncio della guerra tra l’Italia e l’Africa.
Accettata dunque di buon animo
l’ubbidienza di non voler più stare a letto in stato di vittima, incominciai a
far resistenza al mio sempre amabile Gesù, allorché si fece vedere per
comunicarmi le sue pene, dicendogli: “Amato mio bene, il mio rifiuto al patire
non devi averlo a male; che vuoi da me? È l’ubbidienza che me lo vieta, e
quindi non posso più assoggettarmi; se poi tu vuoi che io faccia la tua
Volontà, illumina il confessore, affinché si disponga a concedermi quanto tu
vuoi, altrimenti farò la sua espressa volontà, opponendomi con ostile ostinatezza
alla tua Volontà, anzi crederò che non sei l’amabile Gesù”. Ebbene, il Signore
volle mettermi alla più cruda prova, giacché mi fece passare tutta una nottata
in contrasto con lui, perché ci fu un continuo via vai a scopo di sorprendermi
all’improvviso, ma stetti sulla mia per l’intera notte, e quando egli veniva,
subito gli dicevo: “Amor mio, abbi pazienza; ci vuole l’ubbidienza del
confessore perché tu possa comunicarmi le tue sofferenze, e quindi non
obbligarmi a far aderire la mia alla tua Volontà; potrai ridurmi all’annientamento
di me stessa, comunicarmi le tue pene, tutti i dolori e sofferenze che vuoi, ma
mai col consenso della mia volontà, giacché questa non si piegherà alla tua,
senza l’ubbidienza”.
E così in questo contrasto la
durai sino alla mattina, in cui mi sentivo perfettamente libera d’ogni
sofferenza, credendo che il Signore me l’avesse già data per vinta la prova; ma
non fu così, giacché in un istante, mentre ero immune d’ogni sofferenza, il mio
diletto Gesù mi attirò talmente a sé che, perdendo [io] i sensi, non potetti
più oltre fargli resistenza, poiché mi trovai sì stretta a lui che, per quante
opposizioni avessi potuto fargli, non avrebbero potuto menomamente distaccarmi
da lui, essendo io il nulla, e quindi vana sarebbe riuscita ogni lotta e resistenza
con colui che è il forte dei forti e l’onnipotente. Stando poi così stretta con
Gesù, sentivo in me tale rossore per le tante ripulse fattegli, che mi sentivo
tutta annichilire, e perciò con vergogna gli dissi: “Perdonami, sposo santo, se
ti ho fatto tanta resistenza, la quale non sarebbe avvenuta se l’ubbidienza non
me l’avesse ingiunta”.
E Gesù, molto affabilmente, mi
disse: “Figlia diletta del mio amore, non temere che io me l’abbia per tua offesa[40], né
mi offendo per parte del confessore che ti ha dato questa ubbidienza, giacché
chi con delicatezza di coscienza esercita il suo ministero, deve usare ogni
arte e prova per mettersi al sicuro della morale responsabilità che dai buoni e
dai cattivi ancora si richiede. Torna quindi in calma, e vivi sempre
abbandonata in me. Vieni meco; oggi è capodanno[41];
vieni, che voglio darti la strenna”. Egli, quindi, si avvicinò tanto a me, che
mi trasse tutta a sé, e appressando le sue labbra alle mie mi versò un liquido,
dolcissimo più che latte, e baciandomi e ribaciandomi affettuosamente trasse
dal suo cuore un anello, dicendomi: “Ammira bene e contempla questo anello che
ti ho preparato per quando farò teco le mie nozze, poiché ti sposerò in mia
fede. Per ora t’ingiungo di continuare a vivere nello stato di vittima, e
voglio che dica al confessore che è mia Volontà che tu continui a vivere in
questo stato di sofferenze; e per segno evidente che sono io che ti parlo,
sappi che la guerra, incagliata[42], tra
l’Italia e l’Africa, continuerà ancora, fino a quando non ti darà egli
l’ubbidienza di mantenerti nello stato di vittima, per il quale non solo non la
farò continuare, ma ancora, quanto prima avverrà la pacificazione d’ambo le
parti”.
Dopo che Gesù così mi parlò, da
me scomparve, lasciandomi come rivestita da una veste di sofferenze, le quali
mi penetravano fin nelle midolla delle ossa, tanto che non potetti più riavermi
da quello stato quasi mortale, senza l’intervento del confessore, per cui la
famiglia, vedendomi in quello stato, procurò di mandare per esso[43],
mentre io, così penante, pensavo a ciò che avrebbe detto il confessore, nel
trovarmi contro il suo divieto in stato di maggiori sofferenze; ma che fare?
Certo che non era in mio potere il riavermi, giacché quel liquore latteo
versatomi da Gesù mi procurava tale amore verso di lui, che mi sentivo languire
di amore e di dolore insieme, e di più, tanta sazietà e dolcezza, che dopo che
il confessore mi fece riavere, mi obbligò a prendere un po’ di cibo
apprestatomi dalla famiglia, il quale non poteva assolutamente scendere giù
nello stomaco, e ci volle perciò l’imposizione della santa ubbidienza per
farmelo ingoiare; ma poi, subito, fui costretta a rimettere, mescolato ancora
al dolcissimo liquore versatomi da Gesù. Ma in quest’atto, però, sentii nel mio
interno Gesù, che quasi scherzando mi diceva: “Forse non ti è bastato ciò che
ti ho versato, non ti sei di quello soddisfatta?”. Ed io, tutta piena di
rossore e vergogna, gli dissi: “Che vuoi da me, o mio buon Gesù, se è stata
l’obbedienza che mi ha obbligata a cibarmi, il che mi ha fatto poi versare anche
il tuo, che era sì dolce e delizioso?”.
Dopo di che, il confessore, senza
farmi alcuna interrogazione sull’accaduto, si sottrasse da me dicendomi: “Verrò
non appena avrò un po’ di tempo libero”. Ed io, che non solo sono stata
indifferente, ma ancora, molto restia all’ingerenza del sacerdote nei fatti che
passano tra me e il mio Dio, mi feci subito a ringraziare il mio sempre amabile
Gesù, che aveva permesso di non farmi domandare nulla, senza sapere ciò che mi
stava preparato il giorno seguente, in cui tornando il confessore con insolito
cipiglio, e senza prima interrogarmi, cominciò tosto ad inquietarsi meco ed a
chiamarmi anima disobbediente, e soggiunse: “Il fatto tuo di cadere in mortale
deliquio è da ritenersi, come lo è, pura malattia e non fenomeno
soprannaturale; se fosse cosa di Dio, non avrebbe certo fatto mancare
all’obbedienza, giacché egli ci tiene tanto a questa bella virtù, che nulla
vuole si faccia senza l’obbedienza. Ed ora, invece del confessore, chiamerai i
medici, i quali penseranno, a mezzo della loro scienza, a liberarti da questo
stato nervoso”.
Allorché diede egli fine alla sua
ramanzina, io mi feci bellamente a narrargli tutto l’accaduto e ciò che il
Signore mi aveva ingiunto di dirgli. A questo, il confessore si ricredette e mi
assicurò che non era da mettersi in dubbio quanto gli avevo detto in nome di
Gesù, giacché la guerra incagliata tra l’Italia e l’Africa era più che vera;
perciò soggiunse: “In quanto, poi, all’accennata loro pacificazione, se come tu
dici, rendendoti vittima, sarà fra breve, se è da Dio non posso metterla in
dubbio, ma se fosse da altri… staremo a vedere”.
Sì dicendo, mi accordò
l’ubbidienza di assoggettarmi all’espresso Volere del mio buon Gesù,
ripetendomi: “Staremo ora a vedere se non andrà più avanti questa guerra, e se
subito si pacificheranno tra loro”.
Dopo quattro mesi, il confessore
attinse dai giornali notizie precise circa la suddetta pacificazione, preannunziatami
da Gesù, e venendo a me, mi disse: “Senza alcun danno d’ambo le parti, si è
terminata la guerra che pendeva tra l’Italia e l’Africa, pacificandosi del
tutto tra loro”.
Per questo fatto, preannunziato
prima ed avverato poi, fece sì che il confessore restasse convinto dell’intervento
dell’Alto, e mi lasciò nella mia pace, che non si può avere quando si fa
resistenza al Volere di Dio.
Il mio buon Gesù intanto d’allora
in poi non fece altro che predispormi a quel mistico sposalizio già promessomi,
col visitarmi più spesso, e quando tre, quando quattro e più volte al giorno, a
seconda che gli piaceva; e talvolta faceva, anzi, un continuo andare e venire.
A me pareva che facesse come un innamorato che non sappia stare senza pensare,
senza amare né visitare spesso spesso la sua sposa, tanto che giungeva ad
aprirsi meco, dicendomi: “Vedi, ti amo tanto che non so stare senza venire a
te; mi sento quasi irrequieto senza vederti e parlarti da vicino e
svelatamente, pensando che tu sei sola e stai per amor mio a soffrire tanto;
sono perciò venuto a vedere se hai bisogno di qualche cosa”.
E sì dicendo mi sollevava egli
stesso la testa, mi aggiustava il guanciale, mi cingeva il collo col suo
braccio, ed abbracciandomi mi baciava e ribaciava più volte; e trovandoci
allora in estate, per sollevarmi dal troppo caldo, emanava dalla sua soavissima
bocca un alito che tutta mi ristorava, oppure agitava qualche cosa [che sembrava] che tenesse in mano, e qualche volta anche un lembo
del lenzuolo che mi copriva, perché mi rinfrescassi, e poi subito mi domandava:
“Come ti senti, ora? Certo che ti sentirai meglio, non è vero?”.
Ed in risposta gli dicevo: “Tu lo
sai, mio diletto Gesù, che in qualunque modo tu stia meco, sto sempre bene”.
Quando poi, nel venire, mi trovava prostrata di forze per le continue
sofferenze, specie quando il confessore veniva verso sera, mi si avvicinava, e
dalla sua bocca versava nella mia un liquido latteo, oppure facevami attaccarmi
al suo sacratissimo costato, da cui mi faceva succhiare torrenti di dolcezza e
di forza, le quali mi facevano poi pregustare delizie di paradiso. Vedendomi
poi in questo stato di somma delizia, mi diceva con tutta la sua ineffabile
bontà: “Voglio essere proprio io il tuo tutto, rendendomi salutare nutrimento
non solo della tua anima, ma del tuo corpo ancora”.
Chi può dire veramente tutto ciò
che io sperimentai di celestiale amore, dopo tante insolite grazie di paradiso?
Se io dovessi dire tutto, come il dolcissimo Gesù me le abbia comunicate, non
solo mi renderei seccante, ma vi andrei troppo per le lunghe, per cui non avrei
il tempo di poterle dire, né il confessore di poterle sentire tutte. Mi limito, perciò, a dire in succinto
quel tanto che basti a far conoscere superficialmente lo stato di un’anima che
stia nel pieno possesso di Dio, facendosi strada nella Volontà del suo diletto
Gesù, sposo deliziosissimo dell’anima. Spontaneamente, quindi, mi viene di esclamare
con tutta la veemenza del cuore, e dire al mio Gesù: “Oh, quanto mi sono state
gradite e soavemente deliziose le comunicazioni di spirito di Gesù!”. Mentre altre
volte, con dolore, ho pure esclamato: “Oh, quanto sono amare e spasimanti le
pene, dolori e sofferenze versatemi dal mio dolente ed amareggiato Gesù!”. Ma
se queste [le une e le altre] non andassero in concomitanza tra loro, l’anima, resa
veramente vittima di amore, di espiazione e di riparazione, non potrebbe sì a
lungo durarla in vita, ma disfacendosi il suo corpo, lo spirito andrebbe ben
presto a ricongiungersi a quello del suo Dio.
Dopo aver, perciò, provato tante
dolcezze ed amarezze insieme, ne seguiva il mio giusto e pietoso lamento,
quando pareva che si allontanasse da me; e quando, alle volte, mi si nascondeva
per qualche ora, trovandomi io in sofferenze mortali, sembravami come se non
l’avessi visto da cento anni almeno, e perciò mi lamentavo dicendogli: “Deh, o
sposo santo, come mai ti fai da me tanto aspettare? Non vedi che io non posso
resistere senza di te? Deh, vieni a sollevarmi almeno con la tua presenza, che
mi è luce, mi è forza, mi è tutto!”. Altre volte, poi, sentivo tanta pena per
la privazione di poche ore del mio Gesù, che mi sembrava come se da anni ed
anni non si fosse fatto vedere, e perciò nella mia pena mi scioglievo in
amarissime lacrime.
Ed egli, allora, mi si faceva
vedere, mi compativa, mi asciugava le lacrime, mi abbracciava e baciava, dicendomi:
“Non voglio che tu pianga. Vedi, adesso sono teco: dimmi, che vuoi?”.
Ed io a lui: “Non bramo altro che
te; ed allora cesserò dal piangere, quando mi avrai promesso di non farti da me
tanto e poi tanto attendere. Tu lo sai, o mio buon Gesù, quanto mi è penosa la
tua aspettazione, quando io ti chiamo e tu non vieni presto a sollevarmi, a
fortificarmi e ad incoraggiarmi con la tua dolce presenza”. E Gesù: “Sì, sì, ti
contenterò”; e subito disparve.
Un altro giorno, mentre ero
tornata a lamentarmi ed a pregarlo che non si fosse fatto tanto aspettare,
vedendo che non cessavo dal piangere, mi disse: “Ora voglio, in verità,
contentarti in tutto; mi sento tanto portato verso di te, che non posso fare a
meno di secondare il tuo volere. Se finora ti ho tolta la vita esteriore e mi
sono a te manifestato, ora voglio tirare appresso a me l’anima tua, e così
potrai seguirmi più da vicino, godermi e stringerti più intimamente a me, e [potrò] manifestarti tutto ciò che non è stato fatto teco per
l’addietro”.
Passati tre mesi circa, dacché mi
resi vittima perenne, restando nel mio letto perché [mi fossero] comunicate da Gesù le sue pene e dolori in
concomitanza delle sue dolcezze, venne egli una mattina, in aspetto tutto
amabile e da graziosissimo giovane, sull’età di diciotto anni all’incirca… Oh,
quanto era egli bello, con quella sua chioma dorata e tutta inanellata, che
scendeva lateralmente dalla fronte e pareva che inanellasse ed intrecciasse
assieme i pensieri della sua mente con gli affetti del suo cuore!
Aveva fronte serena e spaziosa,
in cui si rimirava come attraverso d’un tersissimo cristallo l’interno della
sua mente, in cui si spaziava e signoreggiava l’infinita sua sapienza nel suo
imperturbabile ordine di celestiale pace; in vista di ciò, oh, come si
rasserenò la mia mente e come si tranquillizzò il mio cuore, al cospetto del
mio graziosissimo Gesù, tanto che le mie passioni vennero a rendersi così represse
da non farmi sentire più la minima loro molestia. Ah, sì, se solo al vedere
Gesù così bello è tanta l’infusione di pace che si comunica all’anima, che sarà
mai vedere e possedere la sua divinità? Credo che non si possa vedere Gesù così
bello se l’anima non stia nella più perfetta calma, nella più profonda umiltà e
nel più ardente amore di lui, tanto che al minimo alito di turbamento Gesù si ritira
dall’anima. Invece poi, quando l’anima nel suo interno prova una pace e calma
imperturbabile, ad onta che intorno a sé vi è ogni disastro e la guerra più fiera,
Gesù così bello non è solo in vista di lei, per farla continuare sempre
imperturbata, ma ancora cerca in lei il suo dolce riposo, che non gli viene
dato da altri già conturbati.
Io, quindi, in quell’aspetto lo
miravo e rimiravo, e non mi saziavo mai di rimirarlo e di esclamare: “Oh,
quanto son belli i suoi occhi purissimi, scintillanti di luce ancor più pura,
ma non come quella del nostro astro solare, che se lo si volesse fissare
offenderebbe la nostra vista!”.
Quella del mio Gesù, no; mentre è
più che luce del sole, si può fissare benissimo lo sguardo, senza che vengano
ad indebolirsi le pupille dei nostri occhi al mirare quello splendore, anzi si
sentono più fortificate. Se lo sguardo si affissa a guardare la pupilla degli
occhi di Gesù, di un colore celeste scuro, non si sa più distaccare dal mirare
un tanto misterioso prodigio di bellezza, che un solo sguardo di Gesù basta a
farmi uscire fuori di me stessa e farmi correre dietro di lui, battendo ogni
via, per valli, piani e monti, sia attraverso i cieli, che internandomi nei più
cupi abissi della terra; anzi, basta una sola occhiata di Gesù per trasformarmi
in lui e farmi sentire in me stessa un non so che di divino, che tante volte mi
ha fatto esclamare:
“O mio bellissimo Gesù, o mio
tutto, se soltanto per pochi minuti in cui ti fai così vedere da me, comunichi
all’anima mia tanta pace, per cui si possono soffrire torrenti e mari di pene,
di dolori, di martìri e sofferenze le più umilianti, con la più perfetta
tranquillità di spirito, che è sempre in un misto di pace e di dolori, che sarà
in paradiso godere la tua beatifica visione, senza miscela di dolori?”.
Chi può dire, poi, quale e quanta
è la bellezza del suo volto adorabile? La sua carnagione è pari alla neve,
tinta leggermente di un color di rose le più belle. Nelle sue guance porporine
si scorge la grandezza della sua persona in aspetto maestosissimo, del tutto divino,
che nel contempo incute timore e riverenza, ed insieme vi dà tanta confidenza
che, messa a paragone di quella che si potrebbe trovare nelle umane creature,
vi sarebbe quella differenza che passa tra il nero ed il bianco, o tra le cose
più amare e le più dolci di quaggiù; ossia, qualsiasi altra confidenza di
creatura è un’ombra sola di quella confidenza che s’infonde da Gesù in me… Ah,
sì, la confidenza di Gesù verso l’anima si affaccia sul suo volto santo, che
mentre è così maestoso, è pure tanto amabile, in modo che questa sua amabilità
vi attira tanto che l’anima non ha alcun dubbio di non essere ben accetta a
Gesù, che non sdegna mai la sua creatura per quanto brutta e peccatrice sia, se
nell’accesa fiamma dell’amore ritorna nelle sue braccia. Che dirò, poi, dei
lineamenti del naso, della bocca e labbra di Gesù? Graziosissimo è il naso, che
scende finissimo dalle bionde sue sopracciglia, e leggermente si allarga in
punta proporzionata al sacratissimo volto. La sua bocca, poiché piccola ed atteggiata
a dolcissimo sorriso, con le sue labbra finissime d’un colore scarlatto, è
soave e graziosissima, e mentre si apre per parlare sembra che contenga qualche
cosa di preziosità, che mente umana non può esprimere a parola, giacché la
comprende superiore a qualsiasi immaginabile detto di quaggiù. Solo dalla voce
si arguisce quella dolcezza e soavità di paradiso, che è una profusione
armoniosa e sì celestiale da rapire il cuore più restio alla voce della grazia.
Ah, sì, la voce del mio diletto è sì soavemente penetrante, che innamora
toccando ogni fibra del cuore, in cui si producono, in meno che si dica, i più
vivi e caldi affetti, tanto che l’anima resta di primo tratto come rapita. Ma
chi può dir tutto? È tanto piacevole la sua voce, che i piaceri tutti della
terra, a confronto di una sola parola articolata del mio Gesù, sono meno che
niente; solo è da dirsi che, presi tutti insieme, non sono altro che misera
parvenza, in confronto della dolce voce di Gesù. Questa è ancora potentissima
nell’operare le più grandi meraviglie; nello stesso atto che parla, produce
all’anima l’effetto che vuole in essa.
Ah, sì, è bella la bocca di Gesù,
ma sovranamente bella nell’atto di parlare, in cui si vedono quei denti così
nitidi e ben aggiustati, che ti procurano la più grande ammirazione, e ti manda
un alito di amore così palpitante che incendia, saetta e consuma, nel cuore di
chi ascolta la sua voce, ogni affetto che non sappia di cielo. Più belle sono
le sue soffici mani, bianche e delicatissime, aventi le dita così terse e
diafane che, toccando ogni cosa, le muove con tale maestria che è un vero incanto…
Oh, quanto sei bello e tutto bello, o mio grazioso e dolce Gesù! Perdonami se
ho ardito parlare della tua bellezza così malamente, ché quanto ho detto, messo
a paragone della tua vera bellezza, è un puro niente di quel bello tutto tuo.
Veramente, ho ritrattato[44] con
tanti miei spropositi quella bellezza, di cui non son degni né capaci di parlare
adeguatamente nemmeno gli angeli tuoi; ma che vuoi? È stata la santa obbedienza
che me l’ha ingiunto. Ho fatto alla men peggio per contentarla; se a te non è
riuscito gradito, non solo perdonami, ma fai in modo che sia dall’ubbidienza
quanto prima bruciato, perché non si addicono alla tanta tua bellezza questi
miei spropositi e sconciature.
33 - Per la
prima volta l’anima esce dal corpo, attratta irresistibilmente da Gesù.
Sofferenze che in tale stato Gesù comunica all’anima.
Se non ci fosse stato un severo
precetto di obbedienza, dico francamente che giammai mi sarei indotta a continuare
l’attuale umiliazione di mettere su carta le strane scene della mia vita, le
quali si fanno di giorno in giorno sempre più insolite e quasi, come ad altri
sembreranno, affatto bizzarre. Ciò nondimeno, non potendo fare diversamente, mi
accingo a dire che il mio diletto Gesù, dopo che si fece vedere, ed in certo
qual modo contemplare in quell’aspetto poco anzi descritto così malamente da
me, emanò dalla sua bocca un alito soavissimo e di olezzante fragranza di
paradiso, che m’investì tutta, sia l’anima che il corpo, ed in virtù di quell’alito
mi trasse dietro di sé, ed in meno che si dica fece uscire fuori l’anima mia da
ogni parte del corpo, dandomi un corpo semplicissimo, tutto risplendente di
purissima luce, ed appresso a lui presi il suo rapidissimo volo, girando la
grande vastità dei cieli. Ora, essendo la prima volta che mi succedeva questo
meraviglioso fenomeno, mentre l’anima usciva dal corpo, incominciai ad
esclamare: “Adesso sì che è venuto il Signore a prendermi, per cui,
certamente, ora muoio!”.
Quando mi vidi fuori del corpo,
l’anima mia provava la medesima sensazione di quando era ancora nel corpo, con
questa differenza, che il corpo unito all’anima percepisce ogni sensazione per
mezzo dei sensi, ed il tatto rimette [le sue percezioni] alla capacità delle potenze dell’anima, mentre in
questo caso l’anima prende da sé ogni sensazione e comprende all’istante tutto
ciò che attraversa e penetra, fosse anche la più astrusa ed impercettibile
cosa, e questa, sia che stesse lontana o da vicino, sempre però che lo voglia
Iddio. La prima cosa che sentì l’anima mia nell’uscire dal corpo, fu un certo
timore e tremore nel seguire il volo del mio diletto Gesù, che continuava a
tirarmi dietro a quel suo alito di paradiso mentre mi diceva: “Se tanta pena hai
tu provato stando qualche ora nella privazione della mia visuale presenza,
adesso vola e vieni meco, ché voglio sempre consolarti ed inebriarti del mio
amore”.
Oh, quanto fu bello arieggiarsi
l’anima al modo di Gesù lungo la volta dei cieli! Mi sembrava come se poggiassi
a Gesù, e che Gesù mi sostenesse a fine di non farmi precipitare e per tenermi
sempre dietro di lui, che, sebbene mi precedesse, pur nondimeno era stretto
meco, in modo che io lo seguivo poggiata a lui ed egli a me, mentre col suo
dolce alito mi sosteneva e tirava dietro di sé. In breve dico che in me c’è
tutta la rappresentazione visibile dell’accaduto, ma non vi è l’espressione per
manifestarla. Dopo aver girato l’immensità dei cieli, il mio diletto Gesù, che
trova le sue delizie nella compagnia degli uomini, fece sì che mi trovassi in
sua compagnia in certi luoghi in cui l’iniquità degli uomini più inondava di
nefandezze. Oh, quanto si cambiò allora l’aspetto dolcissimo del mio diletto Gesù!
Oh, quanta pena non entrò velenosamente ad amareggiare il suo sensibilissimo cuore!
Io allora lo vidi con più chiarezza delle altre volte soffrire indicibili sofferenze;
vidi il suo adorabile cuore ansare come quello d’un moribondo che muore di spavento,
e poi quasi svenuto; e nel vederlo ridotto in quel sì miserabile stato, gli
dissi: “Mio adorabile Gesù, quanto ti sei cambiato! Tu mi dai la figura d’un
moribondo; appoggiati a me, fammi partecipe delle tue acerbissime pene; il mio
cuore più non regge a vederti solo e tanto soffrire”.
Allora Gesù, quasi riprendendo il
respiro, mi disse: “Ah, sì, diletta mia, a te sta l’aiutarmi, ché non ne posso
più”. E così dicendo mi trasse più intimamente a sé, e versò dalle sue labbra
nella mia bocca un’amarezza tale da procurarmi pene del tutto mortali, e tanto da
sentirmi come se tanti coltelli, punture di lancia, frecce, dardi e saette,
penetrassero da parte a parte l’anima mia. In questo stato di sofferenze, che
degli strazi è il più atroce, il mio diletto Gesù fece entrare di nuovo l’anima
mia nel mio corpo, e mi disparve. Chi può dire, ora, le pene strazianti che
sentì il mio corpo al contatto dell’anima, che rientrava in esso? Solo Gesù lo
può dire, che tante e poi tante volte me le ha comunicate e poi mitigate, che
altri al mondo non solo non può alleviare, ma nemmeno immaginare a fondo ciò
che si soffre. Da questo punto narrativo della mia anima, che in appresso chi
sa quante volte uscendo dal mio corpo ha seguito il mio diletto, si può
congetturare come la morte tante altre volte si è burlata di me, miserabile,
tanto sono indegna di morire ancora, ma verrà, verrà presto…, verrà quel tempo
in cui non più si burlerà di me, ma sarò io che mi burlerò di lei dicendole:
“Una volta ho scherzato teco, ma così bene ti ho sferzata e sfiancata da
renderti di mille e cento [volte] più che la pariglia, [anzi] completa vincita”.
E a ragione dico ciò, perché se
non fosse stato per Gesù - il quale, talvolta, dopo aver comunicato direttamente
le sue strazianti pene all’anima mia, mi ha fatto riavere, sia con
l’avvicinamento al suo cuore che è vita per me, o col prendermi fra le sue
braccia che per me sono fortezza, oppure col versarmi un dolcissimo liquore
dalla sua bocca - certamente sarei già morta, giacché le pene comunicate direttamente
all’anima sono chissà quanto più strazianti di quelle comunicate al corpo.
34 -
Partecipazione che Gesù comunica a Luisa delle sue indicibili amarezze e dolori
per le diverse specie di peccati con cui è offeso.
Gesù quindi, allorché vedeva che
naturalmente non potevo più durare in vita, perché giungevo sino agli ultimi
estremi di vita, mi aiutava da sé[45] per
non farmi soccombere, che [diversamente] mi avrebbe fatto esalare l’anima con
l’ultimo respiro. Talvolta, poi, Gesù agiva direttamente mercé l’opera del
confessore a cui ispirava di venire più presto a farmi riavere. Ma dico la
verità, che quelle pene, mercé l’ubbidienza si mitigavano in certo qual modo,
ma non così come quando operava Gesù su di me ed in me. Ricordo benissimo che
il più delle volte, quando Gesù voleva comunicarmi le più spasimanti pene,
allora faceva uscire l’anima dal corpo, e menandola seco, lui mi faceva notare
i tanti peccati che venivano commessi dagli uomini, sia di bestemmia che contro
la carità, e di qualsiasi altra specie, [e] mi versava parte di quell’amaro veleno
che egli già sentiva tutto in sé come effetto causato dai tanti peccati. A mio
modo di pensare, posso dire, senza dubbio di errare, dall’effetto prodotto in
me, che il peccato della disonestà è quello che più offende ed amareggia il
cuor di Gesù.
Versando egli in me una
particella di quella sua amarezza, sentivo che entrava in me una materia sì nauseante,
marciosa, puzzolente ed amareggiante, sino a farmi sentire esalare dal mio
corpo tale fetore che mi faceva toccare talmente lo stomaco, che se non prendevo
subito qualche cosa per rovesciare quel marciume misto al cibo, venivo meno. E
tutto ciò non bisogna credere che avvenisse soltanto quando Gesù, in genere, mi
faceva notare le nefandezze che si commettono soltanto da coloro che sono
stimati grandi e pubblici peccatori, ma ancora, ed in particolar modo, allorché
mi tirava dietro di sé nelle chiese, in cui pure viene offeso il mio amabile
Gesù. Oh, come toccavano sì malamente il suo cuore quelle opere in sé sì sante,
ma esercitate sì strapazzatamente; quelle orazioni vuote di spirito interno;
quella finta pietà, apparentemente devota; quella ipocrisia, pareva che
facessero più insulto che onore al mio Gesù. Ah, sì, quelle opere così malamente
eseguite nauseavano quel cuore sì santo, puro e retto. Oh, quante volte non ha
fatto meco doglianza, dicendomi: “Figlia mia, vedi, anche da parte di chi si
dice devoto, quante offese e quanti insulti mi si fanno, fin nei luoghi santi
ed anche nel ricevere gli stessi sacramenti! Perciò invece di ricevere grazie e
di uscire di chiesa purificate, queste anime escono più imbrattate di colpa, e
da me, quindi, non benedette”.
E nello stesso momento mi ha
fatto notare certe persone che si comunicavano sacrilegamente; oltre di che,
sacerdoti che celebravano il santo sacrificio della messa per abitudine, per
spirito d’interesse ed in peccato mortale, che fa anche orrore a dirlo. Oh,
quante altre volte Gesù mi ha fatto vedere scene sì dolorose al suo cuore, da
farlo quasi agonizzare! Talvolta, mentre il sacerdote celebrava sì sacrosanto
mistero di amore [e] consumava la vittima, ostia di propiziazione, Gesù era
costretto ad uscire presto presto dal suo cuore, infangato di spirituali
miserie. Altre volte, poi, perché chiamato a discendere dall’alto dei cieli ad
incarnarsi nell’ostia mercé le parole potenziali del sacerdote, nauseava
l’ostia non ancora consacrata, perché tenuta fra le mani impure e sacrileghe di
chi, con autorità di lui stesso, lo intimava a discendere con esitazione; e
Gesù, per non venir meno alla sua parola, s’incarnava in quell’ostia, che
stillava marciume d’impurità prima, e poi stillava sangue di deicidio. Oh,
quanto mi appariva allora compassionevole lo stato sacramentale di Gesù! Mi
sembrava come se volesse fuggire da mezzo a quelle mani immonde, ma [era] pure
costretto dalla stessa sua promessa a starsene, sino a tanto che le specie del
pane e del vino non fossero ben consumate, in quello stomaco, più nauseante
ancora di quelle mani che sì indegnamente lo avevano più volte indegnamente
toccato. Ma al consumarsi le sacre specie se ne veniva a me, ed aprivasi meco
lamentandosi così: “Ah, sì, figlia mia, fammi versare in te una porzione della
mia amarezza, ché più non posso contenerla da solo in me; abbi tu compassione
del mio stato, che è divenuto troppo doloroso. Abbi dunque pazienza; soffriamo
un poco insieme”.
Ed io: “Signore, sono pronta a
soffrir teco, anzi, se mi fosse data la capacità di prendere meco tutte le tue
amarezze, oh, quanto lo farei volentieri per non vederti più soffrire”.
Gesù allora, mentre io così
dicevo, versava dalla sua bocca nella mia quella parte di amarezza che potevo
contenere in me, e soggiungeva: “Figlia mia, è un nulla ciò che ho versato in
te delle mie amarezze, come tu [sei] capace di ricevere; ma quante e quante
altre anime vorrei che fossero disposte al medesimo sacrifizio che tu hai fatto
per amor mio! Non perché io potessi versare in esse tutta l’amarezza che ha
subito il cuor mio, ma almeno per avere quella soddisfazione di essere contraccambiato
in amore e benevolenza tutta figliale”.
Eppure non si può esprimere a
parola quanto quel copioso versamento di Gesù era amaro, velenoso e
stomachevole, per il marciume sì fetente e nauseante, che alle volte, per
quanto sforzo facessi, il mio stomaco si rifiutava a sostenerlo, e mentre
cercavo di mandarlo giù, un forte conato me lo respingeva su, fino alla gola;
ma l’amore che sentivo per Gesù non [me] lo faceva sempre versare, perché aiutata
e sostenuta dalla sua grazia. Chi può dire, ora, le sofferenze che mi
producevano questi versamenti di Gesù? Erano tali e tante che, se non mi avesse
sostenuta, fortificata ed invigorita, sarei già stata certo vittima della
morte.
Eppure ripeto che Gesù non
versava in me che la minima parte di quell’amarezza sorbita da lui, giacché la
creatura non può contenere di amarezza e di dolcezza insieme, tanta quanta ne
può contenere l’amabilissimo mio bene. Perciò egli solo sorbisce e tollera la
piena amarezza che [gli] viene cagionata dal peccato. Con dolore, quindi, ho
sempre esclamato a questa considerazione: “Oh, quanto è mai brutto e micidiale
il peccato! Ah, se tutti nella piena conoscenza di esso provassero ancora
[nella sua] essenza quel suo effetto velenoso ed amareggiante, affinché
avendolo ben conosciuto lo evitassero come orribile mostro che sbuca
dall’inferno!”.
35 -
Partecipazione che Gesù fa a Luisa delle sue ineffabili dolcezze, facendola
assistere a scene consolantissime dei sacrosanti misteri della nostra
religione.
Ora, se l’ubbidienza mi ha
indotta a dire in succinto circa le scene dolorose che il mio sempre amabile
Gesù mi ha fatto notare, per farmi partecipe delle sue amarissime pene, non
posso passare sotto silenzio ancora quelle scene consolantissime che rapivano
il mio cuore, allorquando mi metteva a parte delle ineffabili ed inaudite
dolcezze spirituali, col farmi vedere i buoni e santi sacerdoti che fervorosamente
e con spirito di vera umiltà si portavano alla celebrazione dei misteri
sacrosanti della nostra religione. Vedendo celebrare questi, con profonda
considerazione [di] quanto di prezioso si svolge nel breve spazio di una
mezz’ora, mi sentivo spesso spesso di esclamare nella pienezza del mio affetto
verso il mio diletto Gesù: “Oh, quanto è alto, grande, eccellente e sublime il
ministero sacerdotale, a cui è data sì eccelsa dignità, non solo di trattare
con te, mio Gesù, così da vicino, ma ancora d’immolarti all’eterno tuo Padre
come vittima propiziatoria di amore e di pace!”.
Oh, quanto mi riusciva consolante
il mirare e il rimirare insieme un santo sacerdote celebrante la santa messa, e
Gesù in lui; era trasformato in modo tale da vedersi una sola persona, anzi,
pareva che non il sacerdote, ma Gesù stesso celebrasse il divino sacrificio, e
tanto che alle volte la persona di Gesù faceva occultare affatto in sé il sacerdote,
tanto che io vedevo solo Gesù che celebrava la santa messa mentre io
l’ascoltavo… Allora sì che era commoventissimo sentire Gesù recitare con tale
unzione di grazia quelle preci, dignitosamente muoversi ed eseguire quelle
sante cerimonie, così punto per punto da suscitare in me le più eccellenti
meraviglie d’un sì alto e sì santo ministero. Chi può dire quante grazie io
ricevevo, quanto mi riusciva [consolante] veder celebrare le messe con devozione
ed attenzione tutta divina, e quanti lumi e carismi divini io comprendevo
allora, e che ora vorrei passare sotto silenzio? Ma non posso fare a meno di dirne
in succinto qualche cosa, giacché l’ubbidienza me lo impone, e più che ogni
altro, Gesù stesso, che mentre sto scrivendo, movendosi nel mio interno, ha
preso a rimproverarmi che per svogliatezza avrei voluto omettere ogni cosa. Ed
ora, con la massima fiducia in lui perché voglia suggerirmi quanto sto per
scrivere, ho esclamato:
“Oh, quanta pazienza ci vuole con
te, o mio buon Gesù! Ebbene, ti contenterò, mio dolce amore, ma lo farò aiutata
dalla tua grazia, giacché mi sento non solo indegna di parlare su di un mistero
sì profondo e sì sublime, ma quanto ancora incapace di dire alcunché, per
quanto concerne sì alto mistero”.
Dico adunque, ora, che mentre
ascoltavo il divin sacrifizio, Gesù mi faceva capire che nella messa,
considerata bene sino al fondo del mistero che si svolge, vi è racchiuso tutto
il mistero della nostra sacrosanta religione. Ah, sì, la messa ci fa notare
tutto e ci parla tacitamente al cuore di tutto l’infinito amore di Dio, con espansione
inaudita, elargito a vantaggio degli uomini. Essa ci ricorda sempre la compiuta
nostra redenzione; ci fa ricordare parte per parte le pene che Gesù patì per
noi, ingrati al suo amore; ci fa comprendere che egli, non essendo ancor
contento di morire una sola volta sulla croce per noi, vuole diffondersi sempre
più nell’amore immenso, tutto se stesso, mercé l’istituzione di questo perenne
sacrifizio, per continuare il suo stato di vittima ancora, nella santa
eucaristia. Mi ha fatto capire, Gesù, che la messa e la santa eucaristia sono
perenne memoria della sua morte e della sua risurrezione, e che comunica non
solo alla nostra anima, ma ancora al nostro corpo, quell’antidoto d’una vita
immortale.
La messa, quindi, e l’eucaristia,
ci dicono che i nostri corpi disfatti ed inceneriti mediante la morte, risorgeranno
nel giorno finale a vita immortale, che per i buoni sarà gloriosa, e per i
perversi ricolma di tormenti, giacché questi non essendo vissuti con Cristo,
non risorgeranno in lui, mentre i buoni, essendo stati in vita nell’intimità
con Cristo, risorgeranno quasi a pari dello stesso Gesù. Mi fece, quindi, ben
comprendere che la cosa più consolante che si racchiude nel sacrifizio della
messa - il più eccellente di tutti gli altri [misteri] della nostra santa
religione - è Gesù in sacramento e la sua risurrezione; questa, in concomitanza
con la passione e morte dello stesso Gesù, misticamente si rinnova sui nostri
altari, tante volte per quante volte si celebra il sacrosanto sacrifizio della
messa; e Gesù in sacramento, velato sotto gli azzimi sacramentali, si dà
realmente ai comunicanti per essere loro compagno e vita, lungo il pellegrinaggio
di questa vita mortale, e gloria e vita sempiterna, mercé la sua grazia, nel
seno della Santissima Trinità, a cui parteciperanno le nostre anime unite ai nostri
corpi. Questi misteri sono sì profondi, che soltanto nella vita immortale ci
sarà dato comprenderli appieno. Ora, Gesù in sacramento ci dà una parvità[46] di
quella comprensione che ci sarà data lassù nei cieli, e lo fa in più modi, e
quasi toccare con mano.
In primo luogo, la messa ci mette
nella considerazione della vita, passione e morte di Gesù, a cui tiene dietro
la sua gloriosa risurrezione, con la differenza però che tutto ciò fu eseguito
dall’umanità di Cristo e si compì nel corso di 33 anni, realmente scorsi nelle
diverse vicissitudini della vita, mentre nella messa, misticamente ed in breve
spazio di tempo, si rinnova esso tutto, in stato di vero annientamento, in cui
le specie sacramentali contengono Gesù vivo e vero, sino a tanto che non
saranno consumate; ma poscia non esiste più la reale presenza di lui sacramentato
nei nostri cuori, ma ritorna nel seno del suo Divin Padre, come quando
risuscitò da morte. E poi, consacrate di nuovo nella messa altre specie,
discende di nuovo a prendere lo stato di vittima di pace e di amore
propiziatorio, per cui si rinnova il suo stato sacramentale per vantaggio di
noi viatori e per soddisfazione e gloria del suo eterno Padre. Così, in
sacramento, ci ricorda la risurrezione dei nostri corpi alla gloria, giacché,
come egli, cessando lo stato sacramentale risiede nel seno di Dio Padre, così
le anime umane, cessando lo stato della vita presente, passeranno a fare eterna
dimora nel cielo, nel seno di Dio, mentre i nostri corpi resteranno consumati
al pari delle specie sacramentali, quasi che non avessero più esistenza; ma
poscia, con prodigio dell’onnipotenza [di Dio], acquisteranno nel dì
dell’universale resurrezione la vita, [e] congiunti alla propria anima andranno
assieme a godere, se buoni, l’eterna beatitudine di Dio; in caso contrario
andranno lungi da Dio, a soffrire i più atroci ed eterni tormenti.
Se tutto ciò che si è detto è
effetto meraviglioso che scaturisce come da fonte limpidissima dal sacrifizio
della messa, come poi i cristiani non si avvezzano per farne profitto? Si può
avere cosa più consolante e salutare, dal nostro buon Dio, per un cuore che
ama, giacché non solo nutrisce l’anima a fine di renderla degna del cielo, ma
comunica al corpo quella prerogativa per cui potrà a suo tempo bearsi degli
eterni contenti del suo Dio? A me sembra che in quel gran giorno succederà
[come] quel fenomeno naturale che si presenta alla vista di chi sta
contemplando il cielo, che è tutto stellato, mentre s’appressa l’ora della
comparsa del sole. Che cosa avviene mai? Il sole, apparendo nella sua
smagliante luce, assorbisce in sé la luce di tutte le stelle, e mentre queste
scompaiono alla vista dell’osservatore, resta ognuna nella sua luce propria e
al proprio posto, tanto che queste, al tramontar del sole, come se ricevessero
novella vita, si fanno di nuovo a risplendere nel firmamento. Così delle anime:
investite, come stelle, della luce comunicata loro dal suddetto sacrifizio e
sacramento di amore, allorché si troveranno al giudizio universale nella valle
di Giosafat, prima che arrivi Gesù, sole eterno di giustizia, ognuna di esse sarà
osservatrice di tutte le altre anime, ed in ciascuna si osserverà quella luce
acquistata e comunicata da sì santo sacrifizio e da sì sacrosanto sacramento di
amore, ma al comparire di Gesù giudice e sole eterno di giustizia, nella sua
immensa luce assorbirà in sé tutte le anime beate che risplendono come stelle,
e le farà sempre esistere in lui, facendole nuotare nel mare immenso di tutte
le perfezioni di Dio. E delle anime prive di questa divinissima luce, che ne
sarà mai? Andrei troppo per le lunghe se volessi rispondere a questa domanda,
però se il Signore lo vorrà lo farò in altra occasione, come mi riserbo di dire
qualche altra cosa che Gesù mi ha fatto conoscere circa il suddetto oggetto
d’amore.
Dico, ora, soltanto, che Gesù mi
ha fatto comprendere che i corpi uniti alle anime che hanno luce risplendente,
saranno in eterno uniti con Dio; quelli che invece saranno uniti alle anime
nerissime e caliginose, per mancanza di luce non procacciata mercé la
partecipazione dovuta e voluta a questo sacrifizio e sacramento di amore,
saranno gettati e sprofondati, privi della luce della grazia, nelle più fitte tenebre,
a seconda della loro ingratitudine commessa scientemente contro sì gran donatore;
ivi, sotto la schiavitù del principe delle tenebre, Lucifero, saranno
tormentate in eterno dal rimorso più terribile e straziante.
Ora, rifacendomi da capo, dico
che in queste uscite che faceva la mia anima dal corpo, sebbene Gesù mi
mettesse a parte delle sue acerbissime pene che soffriva per la mala
corrispondenza al sacrifizio e sacramento di amore da parte di tanti ingrati,
ciò nonostante, mercé la luce di grazia che sempre si infondeva da Gesù in me,
io ero a dovizia accesa di sante brame di volermi sempre più unire a lui. Gesù,
ancora da parte sua, mi rinnovava spesso le dolci promesse già dette circa le
mistiche nozze che quanto prima voleva far meco, per cui mi sentivo animata
tante volte a sollecitarlo col dirgli: “Deh, o sposo dolcissimo, fa presto; non
più si meni a lungo la mia intima unione con te. Vedi che io non ne posso più;
le mie brame sono così accese che mi sento del tutto divorare. Deh,
stringiamoci con più forti vincoli di amore, in modo che nessuno ci possa
separare, anche per un istante solo”.
Ma Gesù, che pur m’infondeva
l’accesa brama di effettuare questo mistico sposalizio, mi ripeteva: “Tutto ciò
che è terreno deve togliersi, tutto, tutto, non solo dal tuo cuore, ma bensì
anche dal tuo corpo. Tu non sai capire quanto è nocevole la minima ombra
terrena, e di quanto impedimento sia questa all’amor mio”.
A tali parole di Gesù mi feci
ardita, dicendogli subito: “Signore, a quel che pare, ci ho ancora qualche cosa
da togliere per piacere perfettamente a te, ma perché non dirmela? Tu lo sai se
io non sia pronta a fare tutto quello che vuoi”.
Ma mentre così dicevo, ebbi un
raggio di luce da Gesù, per cui mi avvidi che Gesù voleva parlare di un anello
di oro che avevo al dito, in cui vi era l’immagine sua crocifissa; ed io
immediatamente gli dissi: “O sposo santo, sono più che mai disposta a toglierlo
dal dito, se tu lo vuoi”.
Ed egli: “Sappi che dovendo io
darti un anello più prezioso e più bello, in cui sarà impressa più al vivo la
mia immagine, in modo che ogni volta che lo guarderai nuove frecce di amore
riceverà il tuo cuore, il tuo anello non ti è più necessario”.
Ed io allora, più che contenta,
giacché non sentivo in me alcuna passione, prontamente me lo tolsi, dicendogli:
“Ecco, sposo santo, ti ho contentato; dimmi se c’è altra cosa che sia d’impedimento
alla nostra indissolubile ed eterna unione che vuoi far meco”.
Dopo una lunga aspettazione e
diligentissima preparazione, frammista a soavissime consolazioni, e di non poco
patire, giunse finalmente il sospirato giorno della mistica unione con Gesù,
diletto sposo dell’anima mia. Come ben mi ricordo, pochi giorni mancavano a
compiere l’anno in cui Gesù mi tenne continuamente in letto. Era il giorno
della purità di Maria Santissima[47]. La
notte precedente, il mio amante Gesù mi si fece vedere con insolito affetto e
tutto festoso, e parlandomi con più intimità prese fra le sue mani il mio
cuore, lo guardò e riguardò più volte, e dopo averlo ben bene esaminato e come
spolverato lo rimise al suo posto; indi prese una veste di una immensa
bellezza, che pareva come se avesse un fondo tutto di oro finissimo, screziato
a vari colori, e con questa mi vestì; prese ancora due preziose gemme, come se
fossero orecchini, ed ingemmò le mie orecchie; il collo e le braccia li ornò di
monili di oro e di gioie preziose, e dopo mi cinse la testa di una bellissima corona
d’immenso valore, arricchita di gioie le più preziose, risplendenti di
vivissima ed insolita luce. A me, poi, pareva che quelle luci producevano fra
loro un suono sì armonioso, che a chiare note facevano comprendere che parlassero
della bellezza, della potenza, della bontà, della carità e maestà di Dio, e di
tutte le virtù dell’umanità del mio sposo Gesù. Chi può dire, ora, ciò che io
compresi mentre l’anima mia nuotava in un mare immenso di consolazione? Ciò sarebbe
del tutto impossibile a dirsi. Passo perciò a dire ciò che mi diceva Gesù,
mentre mi cingeva la fronte: “Sposa dolcissima, questa corona di cui ti cingo
la fronte ti è data da me, acciocché nulla ti manchi per farti degna di essere
mia sposa; ma me la cederai dopo eseguito il nostro sposalizio, per ridartela
in cielo al punto della tua morte”.
Finalmente prese Gesù un velo,
con cui mi coprì dalla testa sino ai piedi, e cosi mi lasciò, nella
considerazione più profonda di me stessa, in quella di un tanto e sì prezioso
abbigliamento fatto da Gesù stesso alla mia miserabile persona, ed in ultimo,
in quella considerazione dei diversi significati concernenti ciascun ornamento
con cui Gesù volle abbigliarmi nella precedente notte del nostro mistico sposalizio.
In quanto alla mia persona, dico che non c’è stato mai un fatto ed esigenza
della mia vita che mi abbia fatto trovare in un episodio così stravagante, da
farmi sentire il grave peso che un Dio possa dare ad una creatura che si dica
amante del suo Dio. Oh, che effetto veramente strano non ebbe a soffrire allora
il mio spirito! Infatti, invece di sentirsi sublimato all’eccelso atto di Gesù,
compiuto sulla mia persona, avvenne tutto il contrario, in modo da farmi
toccare la nullità di me stessa. L’annichilamento che sentivo di me stessa fu
tale, che mi credetti fuori del mio proprio essere, in modo tale che mi venne
in mente essere veramente questo il morire; ed in questo annientamento ricorsi
al mio diletto Gesù, pregandolo che mi avesse usato novella sua misericordia,
giacché nella mia grande confusione non pensavo che era un Dio colui che
abbigliava di tanti preziosissimi monili l’ultima delle sue predilette ancelle,
alle quali non si addice non solo un tanto abbigliamento, ma ancora e
soprattutto che da servente nuziale faccia un Dio[48],
quel Dio al cui cenno tutte le creature obbediscono; e quindi lo supplicai che
mi avesse usata venia, nella sua misericordia.
In quanto, poi, al significato
che si racchiudeva in tanti abbigliamenti, presi ognuno separatamente, li passo
sotto silenzio, giacché poco ricordo dopo tanto tempo. Solo dico che il velo
col quale mi avvolse Gesù dalla testa ai piedi fu di spavento ai demoni, i
quali, mentre stavano alla vedetta di quanto Gesù operava sulla mia persona,
non appena mi videro ricoperta da quello, restarono talmente spaventati ed
impauriti che non ardirono, non solo di appressarsi a me, ma quanto che se ne
fuggirono atterriti per non più molestarmi, avendo perduto essi ogni audacia e
temerità.
Sono sempre da capo e al medesimo
ritornello, a dire che per quanto io trovi difficile mettere su carta tutto
quanto è passato tra Gesù e me, pure, volendo stare all’ingiunta obbedienza,
mi conviene vincere ogni ritrosia. Riprendo quindi il filo della narrazione
dell’abbigliamento della mia povera persona, eseguito nella vigilia della
purità di Maria Santissima dallo stesso mio amante Gesù, il che fu di gran
spavento e terrore ai demoni, i quali, atterriti, se ne fuggirono, mentre gli angeli
di Dio, presi nello stesso tempo da insolita venerazione verso di me, ed in
modo tale che io ne restai confusa e piena di rossore come se avessi commesso
qualche grande sregolatezza, si appressarono a me e mi tennero compagnia e
guardia fino al ritorno del mio amante Gesù. La mattina seguente, dunque, Gesù
tutto maestoso se ne venne a me con più insolita affabilità e dolcezza insieme,
con Maria Santissima e santa Caterina, e fece segno agli angeli che cantassero
un dolcissimo inno, tutto celestiale; e mentre questi cantavano, santa Caterina
mi si appressò per assistermi nella celebrazione delle mie mistiche nozze con
Gesù, mentre la mia dolce Mamma, Maria Santissima, facendomi un dolce
rincoramento, mi prese la mano per farmi mettere al dito, da Gesù, il
preziosissimo anello nuziale. Compiuto quest’atto, Gesù, con la più ineffabile
sua bontà, mi abbracciò e ribaciò più volte, e ciò lo fece fare ancora dalla
sua e mia Madre Santissima. Mi tenne quindi in un celestiale colloquio di
amore, in cui mi manifestò tutte le finezze ed attrattive di amore che egli
sente verso di me; ed io, immersa nella più grande confusione, considerando la
nullità del mio amore, gli dissi: “Gesù, ti amo, ti amo; tu lo sai quanto io ti
amo”.
La Santissima Vergine mi fece,
indi, considerare e poi ben comprendere la straordinaria grazia che Gesù mi
aveva fatta, con unirmi indissolubilmente a lui, e mi esortò alla più tenera
corrispondenza di amore che dovevo avere verso il mio sempre amabile sposo
Gesù.
Finalmente, il mio sposo Gesù si
fece a darmi novelle regole di vita, per farmi vivere più intimamente [unita] a
lui, seguendolo più perfettamente [di quanto] non ho fatto per il tempo già
passato. Queste regole che mi furono date da Gesù, non mi è facile dir[le] bene
in modo tecnico, ma solo in succinto ed a seconda della mia applicazione e
dell’esercizio pratico che giornalmente, con la grazia di Dio, non è stato da
me mai omesso.
1) Dico, dunque, che Gesù innanzi
tutto m’ingiunse un distacco totale da tutto il creato e fin da me stessa,
quasi che dovessi vivere nel perfetto oblio di tutte le cose, per fare in modo
che il mio interno si disponesse ad aver sempre fisso il dolce ricordo di lui,
ed un affetto vivo e palpitante di amore verso di lui, affinché, compiacendosi
di tutti gli atti, formasse nel mio cuore stabile dimora. Fuori di lui - mi
disse - non dovevo conoscere più nessuno, né amici, e neppure me stessa; solo
in lui doveva risvegliarsi la rimembranza di tutto e di tutti, giacché in lui
non può non trovarsi la creatura; e per arrivare a ciò, aggiunse che dovevo
agire sempre con santa indifferenza e noncuranza di quanto potesse avvenire
intorno a me, cioè operare sempre rettamente e con la massima semplicità, non
tenendo conto del pro e del contro che potesse venirmi dalle creature. In
pratica, poi, se talvolta tutto ciò non facevo, il mio dolce Gesù,
riprendendomi severamente, mi diceva: “Se non giungerai al distacco effettivo,
non solo, ma affettivo ancora, non potrai essere tutta investita della mia
luce; ma se invece ti svestirai d’ogni affetto terreno, diverrai come un tersissimo
cristallo, che attraverso di sé fa passare la pienezza della luce; così la mia
divinità, che è luce, entrerà tutta in te”.
2) In secondo luogo mi disse che
io non dovevo più vivere in me stessa, ma sola e tutta in lui, vivendo cioè
distaccata da me stessa; dovevo aver sempre cura d’investirmi del vero spirito
di fede, mercé il quale dovevo procurare di conoscere sempre più me stessa, per
diffidare della mia propria capacità, ché non son buona a far nulla da me, e
conoscere sempre più il mio Gesù, per poter sempre più confidare in lui.
“E dopo che avrai conosciuto te
stessa e chi sono io - mi disse - in conseguenza avverrà che spesso spesso
uscirai fuori di te stessa, per tuffarti nel mare immenso della mia
provvidenza. Tu quindi, come una piccola sposa di cui lo sposo è tanto geloso
che non vuole permetterle di prendere il minimo piacere con altri, ti terrai
sempre stretta a me; e come quella se ne sta con la faccia sempre rivolta verso
lo sposo, per far che non possa dubitare di lei, così tu mi darai assoluto
dominio su di te, tanto se volessi vezzeggiarti, colmarti di carismi, di baci,
di amore, come pure se volessi batterti, affligger[ti] ed infliggerti qualsiasi
pena. A tutto dovrai assoggettarti per amor mio, sempre nella tua piena
libertà, perché avremo in comune pene e gioie; e faremo anzi a gara chi di noi
due saprà prendere più pene su di sé, per niun altro scopo che di piacerci e
farci contenti a vicenda”.
3) “In terzo luogo, non deve
stare in te la tua volontà, ma soltanto la mia, che dovrà stare e signoreggiare
come un re nel suo real palazzo; altrimenti si faranno tosto sentire i
disaccordi di un inetto amore, da cui si solleveranno fitte ombre che
getteranno in te quelle disarmonie e quella dissomiglianza di operare, non
voluta dalla comune nobiltà che deve assolutamente regnare tra me e te, mia
sposa; e questa nobiltà regnerà in te se di tanto in tanto cercherai di entrare
nel tuo nulla, cioè, se giungerai ad avere perfetta conoscenza di te, non per
fermarti qui, ma, conosciuta la tua nullità, dovrai far di tutto e quanto prima
[per] entrare nella infinita potenza della mia Volontà, da cui attingerai tutte
le grazie di cui avrai bisogno per sollevare te in me, per fare il tutto con me
senza tener conto di te, che del tutto voglio che scomparisca in me”.
4) “In quarto luogo, da ora
innanzi voglio che tra te e me non ci debba essere quel ‘tu’ ed ‘io’; quindi,
non più si dirà ‘farai tu’, ‘farò io’, ma ‘faremo noi’. Quel ‘tuo’ e ‘mio’ deve
ancora scomparire, ma di tutto si dirà ‘nostro’, giacché tu, come mia sposa
fedele, prenderai parte comune e guiderai le sorti del mondo. Tutti i redenti
del mio sangue son divenuti figli e fratelli miei, e come son miei, saranno ancora
figli e fratelli tuoi, i quali, come figli, saranno da te amati come da vera
madre. È vero che molte pene ci costeranno questi fratelli e figli, perché la
maggior parte son divenuti molto discoli, assai traviati, e molti ancora
licenziosi; ma tu prenderai come me le loro meritate pene su di te, ed a costo
dei più dolorosi sacrifici cercherai [di] metterli in salvo, facendo in modo
che me li condurrai al mio cuore, coperti dai meriti delle tue sofferte pene,
ed aspersi tutti del tuo e del mio sangue; in vista di cui, il mio Padre
celeste non solo userà loro misericordia e perdono, ma ancora, se saranno
perfettamente contriti, molti come il buon ladrone prenderanno presto presto
eterno possesso del paradiso.
Finalmente, [nella] misura che ti
distaccherai da tutto ciò che non è puramente mio, ti troverai sempre più
immersa nell’assoluta mia Volontà, in cui acquisterai la pienezza dell’amore
mio, mercé la conoscenza della mia Essenza, che di giorno in giorno si farà
sempre più viva in te; ed allora più che mai, come al riverberante riflesso
della luce si vedono in uno specchio le immagini, così in me troverai realmente
ordinate tutte le creature aventi spirito d’intelligenza e di amore, in modo
tale che ad un sol colpo d’occhio le vedrai tutte e conoscerai lo stato di
coscienza di ciascuna di loro, per cui tu, poi, come madre più che amorosa, nel
vero spirito di misericordia che è spirito mio e della Madre mia, farai il
massimo sacrifizio, immolandoti per esse; e questo sacrifizio sarà come un
ammanto che tutta ti coprirà, come mia vera imitatrice e fedele sposa”.
Chi può dire, ora, le finezze di
amore che il mio amabile Gesù mi ha prodigalmente, anzi eccessivamente, fatto
dal quel giorno in cui contrasse meco il mistico sposalizio e mi diede quelle
novelle regole di vita? Oh, quante volte e quante, trasportando la mia anima
con sé, lui mi ha fatto entrare in paradiso, per quindi udire i cantici dei
beati spiriti, che incessantemente inneggiano inni di gloria e di ringraziamento
alla Divina Maestà! Ed io ho contemplato in Dio i diversi cori degli angeli, i
diversi ordini dei santi, che sono tutti immersi nella divinità di Dio, il
quale nella sua immensità li ha quasi assorbiti ed immedesimati tutti in lui.
Mirando poi intorno al trono di Dio, mi pareva vedere tante risplendentissime
luci, infinitamente più risplendenti del sole, che facevano mirabilmente vedere
e comprendere tutti gli attributi e virtù di Dio, tutti inerenti alla sua
infinita Essenza, comune alle Tre Divine Persone. Compresi inoltre che i beati
spiriti, pur specchiandosi in tutte quelle luci, ora nell’assieme ed ora
passando successivamente dall’una all’altra, restano rapiti in quella e da
quella luce, ma non giungono mai a comprendere perfettamente Dio, perché è
tanta la maestà, l’immensità e la santità di Dio, che mente creata, per tutti
gli interminabili secoli dell’eternità, non arriverà a comprendere Dio, che è
per eccellenza l’Essere increato ed incomprensibile. Ora, da quanto vidi ed
appresi, dico che gli spiriti angelici ed i beati comprensori, specchiandosi in
quella luce, venivano a partecipare alle virtù di quelle[49].
Come noi, esposti nel pieno meriggio del sole, veniamo non solo investiti dai raggi
del medesimo, ma ancora riscaldati, così gli angeli e santi del paradiso, al
cospetto dell’eterno sole Dio, sono investiti dalla luce eterna, in guisa tale
che rassomigliano a Dio; con questa differenza, però: che tutto ciò che Dio
contiene in sé è essenzialmente suo per natura ed essenzialmente infinito,
mentre gli spiriti angelici e i beati comprensori hanno per partecipazione
tutto ciò che contengono ed in quantità limitata, e a seconda della propria
capacità.
Sicché Dio è l’infinito,
l’increato ed eterno sole, che tutto se stesso dà senza che venga a perdere
nulla di sé, mentre le creature vengono fatte partecipi di tutto, per cui
rassomigliano all’eterno sole, reso in loro sole di piccolissima mole o
grandezza. Per quanto però io abbia detto, sembrami d’aver detto tanti spropositi,
giacché ciò che si possa apprendere in quel beato soggiorno, non si può assolutamente
ripetere nella nostra limitata favella, e perciò si ha il concetto, l’idea, ma
mancano i vocaboli ed espressioni per dire realmente come si ha appreso[50] in
sé la cosa. L’anima, quindi, se uscita dal corpo per poco viene trasportata in
quel beato regno, ritornando poi nel suo proprio carcere del corpo, le è
impossibile dire tutto ciò che ivi ha veduto e compreso; eppure nella mente ha
tutta l’impressione di ciò che ha percepito.
A me sembra che avvenga all’anima
- che abbia avuto in sé l’impronta di ciò che Iddio voglia farle comprendere,
nel tirarla nella patria celeste, per poco che facesse[51] -
quella impressione che può avere un bambino che appena sa balbettare, dopo aver
assistito ad un grande spettacolo teatrale; vorrebbe dire tante cose circa le
cose che più hanno fatto impressione nell’animo suo, ma non riuscendo a dirne
una, alfin, vergognandosi, resta tutt’affatto muto. Così io dovrei, piuttosto,
restarmene muta, perché non so dire altro che spropositi su spropositi, se non
fosse per l’ubbidienza che mi s’impone. Perciò continuo a dire che alle volte
mi trovavo in quella beata patria a passeggiare insieme a Gesù, mio sposo diletto,
in mezzo ai cori degli angeli e dei santi, e siccome ero novella sposa, tutti
uniti ci facevano corona, ci corteggiavano e partecipavano nel tempo stesso
alle gioie del nostro eseguito sposalizio. Mi pareva allora come se mettessero
quasi in oblio i loro contenti per occuparsi dei nostri; e Gesù, mostrandomi ai
santi, diceva loro: “Quest’anima è divenuta un trionfo ed un portento del mio
amore, mercé la sua corrispondenza alla mia grazia”; e additandomi poi agli
angeli diceva loro: “Vedete che tutto ha superato il mio amore per lei”; quindi
mi faceva mettere al seggio di gloria, di cui Gesù mi aveva fatta degna, e mi
diceva: “Ecco il tuo posto di gloria; nessuno te lo potrà togliere”. Allora io
credevo che stessi per non tornare più sulla terra; ma, ahimè, mentre ero di
ciò quasi convinta, ecco che ad un cenno di Gesù mi ritrovavo, in meno che si
dica, rinchiusa nel muro di questo corpo.
41 - Pena e
amarezza insopportabile di Luisa, nel dover vivere ancora nel carcere del
corpo, esiliata dalla patria celeste.
Chi può dire, ora, quanto penoso
riusciva al mio spirito il dover restare nel corpo, poiché tutte le cose
terrene, messe in confronto di quelle del cielo, parevano, anzi, mi davano la
sensazione di un vero marciume? E fin anche le cose che ad altri dilettano i
sensi, a me riuscivano tanto fastidiose e piene di amarezza; tanto che le
persone più care e più ragguardevoli, a cui chissà quante cortesie e gentilezze
avrebbero altri usate per farle trattenere in loro conversazione, a me
riuscivano non solo indifferenti, ma tediose. Ma il solo guardarle come
immagini di Dio me le faceva sopportare, benché l’anima non avesse provata la
benché minima ombra di soddisfazione e di contento. Ed è appunto per questo che
il mio cuore si era reso tanto inquieto ed irrequieto, che non facevo altro che
lamentarmi col mio Gesù, tra le continue ansie e desideri del cielo; e nel mio
interno provavo tale pena, tale amarezza e tale uggia delle cose di quaggiù,
che il tutto mi rodeva l’anima, in modo tale da credere impossibile poter
continuare a vivere quaggiù. L’ubbidienza però, stando a giorno di tutte le
cose mie, mi arginò e frenò così bene, con l’assoluto comando di non dover
desiderare più il morire, ma stare all’ubbidienza per quando lo avesse voluto
Iddio. E così feci, e per quanto era in poter mio, cercai allontanare dalla mia
mente anche il pensiero della morte, nonostante che nel mio interno si fosse
impressa una continua giaculatoria di ansie e desideri ardenti verso la patria
celeste; e perciò il mio cuore, vinto in gran parte dall’ubbidienza, si chetò,
ma non del tutto, giacché di tanto in tanto vi facevo delle scappatine; ed in
questo, confesso la verità, difettai non poco. Ma che potevo io fare, se mi
riusciva quasi impossibile frenarmi del tutto? Ed è perciò che riuscì per me
quasi un martirio vero quel continuo lottare, per usare ogni mezzo, affin di
frenare le mie ansie, ma che - ripeto - mi riusciva quasi impossibile.
Il mio amato Gesù, ancora, mi
diceva: “Sposa mia, quietati; qual è la cosa che tanto ti fa desiderare il cielo?”.
Ed io: “Voglio stare sempre con te; non mi regge l’animo di stare più da te
separata, non solo per un giorno, ma neppure per un istante solo; a qualunque
costo perciò voglio venir teco”.
“Ebbene - mi diceva Gesù - se è
per questo, ti contenterò con lo starmi sempre con te”. Ed io a lui: “Se così
fosse, sì che mi contenterei, ma qui però tu ti fai perdere di vista, e quindi
è lo stesso come se mi lasciassi, mentre in cielo non è così, poiché là non
potrai mai eclissarti da me, poiché l’esperienza mi è una prova certa di quanto
dico”.
42 - Eroismo
di Luisa nell’accettare di ritornare nel suo corpo, sulla terra, lasciando il
cielo tante volte.
A chi non lo sappia, dirò che
Gesù sa ben scherzare con la creatura, come tante volte ha scherzato con me; ed
ecco come: mentre mi trovavo in queste benedette ansie, Gesù se ne veniva a me
tutto frettoloso, e mi diceva: “Vuoi adesso venir meco?”. Ed io: “Dove?”. Ed
egli: “Al cielo”. Ed io: “Me lo dici davvero?”. “Ma sì; fa presto - mi diceva -
non più indugiare”. “Ebbene, se è così, andiamo pure - rispondevo - benché tema
che tu abbia voglia di burlarmi”. E Gesù allora: “Ma no, ma no; te lo dico
davvero: andiamo, che voglio portarti meco”.
Sì dicendo, tirava l’anima a sé
in modo che me la sentivo uscire dal corpo, in men che si dica, e seguendo Gesù
prendevo il volo verso il cielo. Oh, come e quanto era contenta allora l’anima
mia; credevo che dovessi lasciare per sempre la terra, mentre un sogno mi
sembrava la vita trascorsa nel patire tollerato per amore di Gesù; e mentre si
arrivava al più alto dei cieli e già si sentiva il delizioso canto dei beati
comprensori, e sollecitavo Gesù che facesse presto ad introdurmi in quel beato
soggiorno, egli lentamente ne diminuiva la corsa per allungare il tempo. In
vista di ciò, nel mio interno cominciava il sospetto che non dovesse essere
vera l’entrata che dovevo fare con lui nella patria celeste; e fra me dicevo:
“Questo mi pare che sia uno scherzo di Gesù”; e per assicurarmi gli dicevo di
tanto in tanto: “Gesù caro, fa presto; perché ti sei rallentato nella corsa?”.
E lui: “Vedi, vedi là un
peccatore che sta per perdersi? Scendiamo un’altra volta in terra; andiamo a
far prova di ridurre quell’anima a penitenza; chissà che non si converta.
Preghiamo dunque assieme l’eterno mio Padre che gli usi misericordia; non vuoi
che quelli[52] si salvi? Aspetta un
altro poco in vita; non sei tu pronta a soffrire qualsiasi pena per la salvezza
di un’anima che mi costa tanto sangue?”.
Ed io, a queste parole di Gesù
dimenticavo me stessa, obliavo la corsa fatta verso il cielo, il canto
ascoltato dei celesti comprensori, e rispondevo a Gesù: “Sì, sì, qualunque cosa
tu vuoi son pronta a soffrire, purché salvi quell’anima”.
Allora Gesù, in un batter
d’occhio, mi faceva trovar con lui presso quel peccatore, e cercando ogni modo
per convertirlo, gli si metteva innanzi alla mente le più possenti ragioni per
la sua salvezza e per fare che si arrendesse alla grazia, ma vane purtroppo
riuscirono le nostre speranze.
Gesù allora, tutto afflitto, mi
diceva: “Sposa mia, vuoi tu prendere su di te le pene a lui dovute? Se tu entri
un’altra volta nel corpo per soffrire, la divina giustizia potrà placarsi, e
così gli potrò usare misericordia. Come hai già visto, le nostre parole non lo
hanno scosso punto, le ragioni neppure; non ci resta fare altro che soffrire le
pene a lui dovute, [le] quali sono i mezzi più potenti per soddisfare la divina
giustizia offesa e per far arrendere il peccatore alla grazia della sua
conversione”.
Così dicendo Gesù, e consentendo
io al suo dire, mi trovavo di nuovo nel corpo. Quali sofferenze sentissi,
allorché mi trovavo a contatto del mio corpo, mi è impossibile [dirle]; basta
dire che il corpo, come se non potesse più contenere il mio spirito, me lo
sentivo distendersi e dilatare tutto, mentre lo spirito, in pari tempo, si sentiva
come compresso, depresso e privo di vita, e quasi in atto di esalare l’anima;
ma non lo potevo. Solo Gesù mi era testimone di quanto io soffrivo allora, e
potrebbe dire quanto strazianti ed atroci pene tollerava l’anima ed il corpo
mio. Ma viva Dio, che dopo qualche giorno di sofferenze, Gesù mi faceva vedere
quel peccatore convertito, quell’anima già salva, e mi diceva: “Sei tu
contenta come lo sono io?”. Ed io: “Sì, sì”. Ma chi può dire quante volte Gesù
ha ripetuto meco questi scherzi? Talvolta mi faceva entrare in paradiso, e dopo
poco mi diceva: “Sposa mia, tu non ti sei ricordata di farti dare l’ubbidienza
dal confessore, per venirtene con me; ora fa d’uopo che vi ritorni al corpo per
prendere codesta ubbidienza”.
Ed io: “Ero certamente obbligata
ad ubbidire al confessore finché l’anima si trovava nel suo corpo ed ero sotto
la sua direzione, ma ora che sono con te sento il dovere di ubbidire solamente
a te, mio sposo, che sei veramente il primo fra tutti i confessori”. E Gesù,
placidamente: “No, no, sposa mia; voglio che tu ubbidisca al confessore”. E
così, ora per un pretesto, ed ora per un altro, mi ha fatto tante e poi tante
volte tornare di nuovo nel mio corpo.
Questi scherzi di Gesù, però, mi
riuscivano di un’amarezza tale, da essere presa da un certo che di risentimento
ed impertinenza, per la qual cosa non più così spesso Gesù me li rinnovò. Ed in
questo stato, continuamente penante in letto, e tra le alternative, ora di
ansia [di] volermene andare con Gesù, mio sposo, in paradiso, ora [di] desiderio
ardentissimo di volerlo tenere sempre meco in terra, ed ora per il ritorno che
faceva l’anima nell’immedesimarsi al mio povero corpo, fu continuo il mio
martirio.
43 - Gesù
prepara Luisa alla rinnovazione dello sposalizio mistico, in cielo, nella
sanzione della Santissima Trinità: le parla, quindi, delle virtù teologali. La
fede.
Finalmente una mattina, dopo il
periodo di questi tre anni, Gesù mi fece benignamente intendere che lo
sposalizio fatto meco in terra voleva ratificarlo nella sanzione del Padre e
dello Spirito Santo, al cospetto di tutta la corte celeste, e m’ingiunse quindi
che io stessa dovevo ben prepararmi ad una sì segnalata grazia; e dal canto mio
feci quanto era in mio potere per ben dispormi. Ma in verità, essendo io tanto
miserabile ed inetta a fare anche un’ombra di bene, con istanza continua supplicai
l’altissimo artefice, che egli stesso mettesse mano all’opera della più santa
purificazione dell’anima mia, altrimenti mai sarei riuscita a farlo come si
richiedeva da me. E questa grazia mi venne accordata nella vigilia della
natività di Maria Santissima[53]; ed
ecco come: in quella mattina, il mio sempre amabile Gesù se ne venne tutto
premuroso, per dispormi egli stesso a quanto avevo richiesto; e non so perché
cominciò a fare un continuo via vai da me; ed infatti, frettolosamente veniva,
mi parlava della fede, e tosto mi lasciava sola. E mentre mi parlava, mi
sentivo infondere una tale vita di fede, che l’anima mia, così grossolana qual
era prima che avesse parlato Gesù, me la sentivo così semplicissima da poter penetrare
fino in Dio. E quindi, ora miravo la potenza, ora la santità, ora la bontà, ed
ora altro attributo divino. Resa così l’anima mia, dicevo in un mare di
stupore: “Onnipotente Iddio, quale onnipotenza innanzi a te non resta disfatta?
Santità eccelsa di Dio, quale altra santità, per quanto sublime essa sia,
ardirà comparire al tuo cospetto?”.
Discendendo poi a considerare la
mia miseria, e toccando il mio nulla e la nullità delle cose terrene, che
dinanzi a Dio sfuggono come ombra di nebbia alla raffica del vento, mi scorgevo
appena come piccolissimo microbo, avvolto da lievissima polvere, che per
essere distrutto e disfatto basterebbe la piccolissima opera di qualsiasi altro
vermiciattolo. Scorgendomi così, non ardivo più di trovarmi al cospetto della
tremenda maestà di Dio, ma la sua infinita bontà, come calamita, mi tirava a
sé, e nella sua infinita bontà, esclamava l’anima mia: “Oh, quanta santità,
quanta potenza e quanta misericordia si racchiude in Dio, il quale ci attira a
sé con la sua equivalente bontà!”. E dico questo, perché mentre mi pareva che
la santità tutto lo circondasse, che la potenza tutto lo sostenesse, che la
misericordia tutto lo commuovesse e che la bontà tutto lo animasse da dentro,
da fuori lo circondasse, alimentando la sua potenza e misericordia;
considerando singolarmente ciascun attributo, li trovavo tutti dello stesso valore,
però del tutto incomprensibili, immensurabili, ecc., a mente umana. Mentre mi
trovavo immersa in sì alta considerazione, tornava di nuovo il mio Gesù, e
prendeva a parlarmi della speranza cristiana, dicendomi dapprima: “Per ottenere
la fede, bisogna credere. Senza credenza non può darsi fede. Come in cima
all’uomo vi è il capo, che deve dirigere l’uomo in ogni sua operazione, così in
cima di ogni altra virtù c’è bisogno della fede che ordina tutto; ma come il
capo senza il senso della vista non potrebbe esimersi dalle tenebre e da ogni
altra confusione, in modo che se volesse dirigere qualsiasi operazione dell’uomo
nello stato di totale cecità, lo spingerebbe dove non lo avrebbe spinto se
avesse avuto la vista, così l’anima senza la fede non potrebbe fare altro che
andare di precipizio in precipizio. Ora, come la vista serve di guida all’uomo
in ogni sua operazione, così la fede all’anima è luce illuminativa, senza della
quale non si può percorrere la strada che mena alla vita eterna”.
Ora, per aversi la fede, fa
d’uopo aversi prima tre cose: il germe di fede, bontà dello stesso germe e
sviluppo del medesimo. Il germe viene a gettarsi in noi mercé la notizia che si
ha circa l’oggetto di fede, giacché non si può certo pensare ad una cosa se non
si abbia avuto prima, almeno, qualche conoscenza della medesima. La bontà del
germe di fede deve riporsi in chi getta in noi questo stesso germe, giacché
potrà essere vero germe di fede se sarà degna di fede la persona che ce lo dà;
falso germe, se venisse falsificato da chicchessia fin nella radice. Se poi
sorgesse in noi qualche incertezza dell’oggetto di cui ci dà[54]
notizia, oppure circa la non esatta notizia, deve tenersi come oggetto dubbio
di fede. Assicurato dunque del germe della fede e della bontà del medesimo, fa
mestieri[55] che venga coltivato per
farlo crescere e ben sviluppare sino alla maturità, giacché allora cessa di
essere oggetto di fede, quando si ha l’intima persuasione della verità.
Dal mettere nella bontà del germe
della fede ogni sua fidanza ed ogni nostra industria che il germe cresca e
sempre più si sviluppi sino alla maturità, si viene a produrre in noi quella
virtù, sorella della fede, qual è la santa speranza di vedere raggiunto il
termine della fede e della stessa speranza, nell’oggetto di fede già
conquistato. Sicché io posso dire che la notizia di Dio getta in me il seme
della fede; da questo seme, ben coltivato, nasce, cresce e [si] sviluppa sempre
più la luce che si riproduce dal germe della fede. La luce della fede mi dà
tutte le particolarità di questo Dio, sommo mio bene; mi rivela la sua bontà,
l’attrattivo amore con cui mi chiama a sé per fruire di sé, mi fa vedere in
prospetto ancora tutti i benefizi che mi può fare. Sicché la notizia della sua
esistenza, per me fa il germe della fede; la fede crescente in me mi avvicina
sempre più a questo Ente Supremo, facendomi conoscere in parte la smisurata
eccellenza d’ogni suo attributo, chi egli sia in sé e fuori di sé, ed ancora
ciò che egli mi può dare, il che getta in me il seme della santa speranza; da
questo seme ancora, ben coltivato, verrà il possesso, perché chi fermamente
crede, spera ed opera, già possiede. La fede e la speranza operativa gettano il
germe dell’amore verso l’Ente sommamente benefico, e questo Ente, in ricambio,
fa nascere in noi il germe della carità cristiana, mercé la quale si diviene operanti,
simile all’Uomo-Dio.
Ora, rifacendomi da capo, dico
che Gesù, parlandomi della santa speranza, mi faceva comprendere che questa
virtù somministra all’anima una veste adamantina, per cui non solo si rende
invulnerabile agli strali scoccati dai suoi nemici, ma ancora imperturbabile a
qualsiasi evento, giacché tutto ciò che potrà avvenirle lo riceverà con
tranquillità d’animo, sapendo bene che il tutto è stato disposto da Dio, nostro
sommo bene. Oh, quanto è bello vedere quest’anima investita della bella virtù
della speranza, poiché, diffidando ella di se stessa, la si vede tutta fidente
ed appoggiata al suo diletto, per cui, sfidando i più fieri nemici, con la
massima semplicità e prudenza diviene regina delle[56] sue
passioni, giacché ha tutto ben ordinato nel suo interno, e con tale maestria
che Gesù stesso ne resta invaghito; ed allora, perché la vede operare con ferma
speranza in lui e quindi sempre più coraggiosa ed inviolabilmente invitta e
forte nel superare ogni ostacolo e cimento, le comunica novelle grazie, aiuti e
soccorsi.
Ora dico che mentre Gesù mi dava
lezione sulla speranza, comunicava altresì al mio intelletto una chiarissima
luce, ma subito si appartava, mentre io mi trovavo tutta immersa in questa luce
ed occupata a considerare quanto concerneva questa bella virtù. Ma chi può dire
ciò che di essa io comprendevo? Dirò solo che tutte le virtù servono ad
abbellire l’anima; non hanno però in sé quel germe, che nato e cresciuto si
avvinghia sempre più a Dio, e per cui la speranza dice all’anima: “Avvicinati
al tuo Dio, e sarai da lui illuminata; avvicinati a lui e sarai purificata,
ecc.”; e così la fede viene sempre più ad aumentarsi, la purità ad acquistare
quel candore tutto celestiale; senza di cui[57],
[l’anima] sarà vacillante nella fede ed incostante nelle altre virtù, mentre
seguendo la speranza nelle sue ascensioni spirituali, ogni virtù si rende
sempre ferma e stabile, come quegli alti monti che non possono muoversi dal
loro sito. A me sembra che l’anima investita della santa speranza si rende
immobile come monti altissimi, ai [quali] non nuoce né le intemperie dell’aria,
né gli ardori del sole, né i venti più impetuosi, né gli straripamenti di
laghi, mari e fiumi, cagionati da impetuosi alluvioni allo sciogliersi di
grandi masse di neve; ed inoltre, a quest’anima investita di speranza non nuoce
né la tribolazione, né la tentazione, né la povertà, né l’infermità, ed altri
incidenti della vita possono giungere a sgomentarla neppure per un istante
solo. Ed a se stessa ella dice: “Tutto posso tollerare, tutto soffrire ed
operare, fidente e sperante in Gesù”.
La santa speranza, dunque, rende
l’anima quasi onnipotente ed immobile, invincibile e quasi immutabile, giacché
il sempre amabile Gesù, in vista di essa, somministra all’anima la
perseveranza finale, sino a tanto che non abbia preso possesso dell’eterno
regno dei cieli; ed allora, deponendo l’anima ogni fede ed ogni speranza, tutta
si tuffa nell’immenso oceano del suo sommo ed eterno bene.
Mentre mi sperdevo e mi affogavo
nel mare immenso delle divine speranze, il mio diletto Gesù, facendosi da me
rivedere, mi parlava della carità, che è fra tutte la più eccellente, che deve
con le altre due virtù [affratellarsi] ed in modo tale da rendersi come una
sola virtù, mentre tra loro sono tre virtù distinte.
“Ed infatti, se per poco guardi e
consideri bene il fuoco, ne avrai subito una pallida idea di queste tre virtù
unite tra loro, poiché non appena che si venga ad accendere il fuoco, la prima
cosa che si presenta al nostro sguardo è la luce, che inonda di vivida luce
tutto il dintorno, la quale è simbolo della fede che io ho infuso nell’anima
cristiana mercé il santo battesimo. In secondo luogo, senti che si diffonde
tutt’intorno, unitamente alla luce, ancora il calore; ma poi, man mano che
questa viene a illanguidirsi, fin a quasi a spegnersi, senti che il calore che
emana [questo] fuoco acquista maggior vigore, fino a tanto che non si consuma
tutto. Così è delle tre virtù teologali: la fede si accende nell’anima alla
prima notizia che ella ha circa l’Ente Supremo; poscia cresce e si sviluppa,
mercé l’ascensione perenne che fa l’anima verso Dio, suo sommo bene, per cui
viene ad acquistare la luce intellettuale che espansivamente si effonde da ogni
attributo divino verso la sua creatura.
Questa creatura, illuminata da
tale splendore di viva fede, ambisce [l’acquistabile] dell’oggetto, il che le
dà fiducia di potersi procacciare un tanto bene, che è Dio; cerca, quindi,
d’investigare la via più idonea alla facilità di tanto acquisto e, tutta piena
di speranza, valica da mane a sera, da un monte all’altro, traversando ogni
valle ed estesissime pianure, traghetta laghi e fiumi, naviga per i più alti ed
immensi mari, per la durata di mesi ed anni, ad unico scopo di acquistarsi non
solo la benevolenza, ma il possesso ancora del suo Dio; e questa brama
operativa di pervenire al possesso di Dio viene appellata amore, congiunto alle
due sorelle fede e speranza. Eccoti, o mia diletta sposa, che nelle tre virtù
teologali, fede, speranza e carità, ti ho adombrata la Trinità delle Divine
Persone, di cui tu, presto e senza dubbio, farai perenne acquisto, col
procurarci in te stabile e perpetua dimora”.
Dopo [un] intervallo di pochi
minuti, il mio sempre amabile Gesù si fece vedere di nuovo, e proseguì a dirmi:
“Sposa mia, se la fede è luce e serve di vista all’anima, la speranza è
l’alimento della fede e somministra all’anima quella energia e brama ardente
di conquistare quei beni che sono in prospetto della fede, ed in più dà
all’anima il coraggio di affrontare ardue imprese, ma sempre con tranquillità
di spirito e con perfetta pace [l’anima] si rende perseverante nel perlustrare
ogni via e mezzo adatto che le possa dare buona riuscita. La carità, poi, è la
sostanza da cui emerge la luce e l’alimento della fede, senza della quale non
si potrebbe avere né fede né speranza, come a pari, senza del fuoco non si
potrebbe avere né la luce né calore. Ed essa, come unguento lenitivo si espande
e penetra per ogni dove, recando ad effetto di maturità le brame della speranza
e le vedute della fede, giacché nelle dolcezze del suo amore rende balsamico e
dolce il patire, e tanto da far giungere l’anima all’avidità di [questo]
patire”.
L’anima, dunque, che possiede la
vera carità, operando ella nell’amore e per l’amore di Dio, diffonde attorno a
sé quell’odore celestiale che ha attinto dallo stesso Dio, in modo che se
tutte le virtù rendono l’anima quasi solitaria e rustica, la carità, essendo
sostanza emanante luce, calore e odore soavissimo, non solo infonde in tutti,
come unguento balsamico, gli effetti più che aromatici, ma unisce, anzi, fonde
i cuori, mercé l’immenso amore che ella ha verso Dio. È [questo] che fa soffrire
con gioia i più acuti tormenti, tanto che l’anima che si trasforma tutta
nell’amore, giunge sino a non poter più vivere senza del nudo patire, e quindi
ad esclamare quando ne è priva: ‘O mio sposo Gesù, sostienimi coi fiori,
stivami con l’acerbità dei pomi, cioè del patire, giacché l’anima mia languisce
vieppiù per te e non posso soddisfarla se non nel dolce tuo patire! Deh, dammi,
Gesù, maggiormente l’aspro tuo patire, giacché più non regge il mio core, a
vederti tanto soffrire per la veemenza d’amore, che sostiene il tuo cuore per
nostro amore!’. E Gesù a me: “La carità mia è fuoco che brucia e che consuma, e
quando si appiglia a qualche anima tutto fa ella: mette in non cale le stesse
virtù, giacché tutte le converte e le stiva intimamente a sé, in modo da
rendersi regina di tutte le virtù, regnando e signoreggiando su tutte, e non
mai può indursi a cedere ad altre la supremazia”.
Chi può dire ciò che tenne dietro
a[58]
quelle dolci ed attrattive parole di Gesù? Solo posso dire che in me si accese
tale brama di patire da rendersi, direi, quasi naturale l’agognare qualsiasi
pena e sofferenza, tanto che d’allora in poi ritenni come la più grande
sventura l’esserne priva. Dopo che io feci le solite riflessioni su quanto mi
fu detto da Gesù, si fece egli di nuovo da me vedere e sentire, dicendomi:
“Sposa mia, ora fa bisogno che tu abbia quella predisposizione e prevalenza di
animo, che ti faccia maggiormente toccare e aderire all’annientamento di te
stessa; questo deve precedere quel grande ed incentivo desiderio che hai di
voler sempre più patire. Sappi che l’annientamento di te stessa ti fa meritare
non solo la grazia del patire, ma dispone l’anima a saper tutto ben patire, in
tutto ciò che potrà toccarla molto da vicino. Oltre a ciò, il desiderio di
patire supplisce al vero e reale patire, ed in mancanza di questo,
l’annientamento di te stessa ti servirà di penoso ammanto, che supplirà a
qualsiasi più alto e più aspro patire”.
Finalmente, mentre me ne stavo
considerando dapprima quel parlare dolce di Gesù, che infonde nell’anima molto
più di quella verità che manifesta a parole, mi eccitavo quindi con ardenti
brame di ricevere la grazia di potermi rendere tutta, tutta sua, ed a seconda
della sua Volontà, egli ritornò, ed in men che si dica mi tirò fuori di me
stessa, e l’anima mia, seguendo le attrattive deliziose del suo amore, superava
appresso a lui qualsiasi difficoltà che s’incontra nell’attraversare i cieli, e
quasi senza accorgersi dell’eseguito tragitto dalla terra, si trovò in
paradiso, al cospetto della Santissima Trinità e di tutta la corte celeste, per
indi procedere alla rinnovazione del mistico sposalizio eseguito già in terra
tra Gesù e l’anima mia nel giorno della purità della Vergine Maria, sua Madre,
la quale, unita a santa Caterina, assistette a quella prima cerimonia. Invece
ora, festa della natività della stessa Santissima Vergine, undici mesi dopo,
Gesù vuole che si abbia la sanzione delle Tre Divine Persone, e perciò mise
fuori un anello fregiato da tre preziosissime pietre, di cui la prima bianca,
la seconda rossa, la terza verde; poscia lo consegnò al Padre, che lo benedisse
e poi lo restituì all’Unigenito suo Figlio, e mentre lo Spirito Santo mi teneva
la mano destra, Gesù mise al mio dito anulare il suddetto anello, e subito dopo
fui ammessa al bacio delle Tre Divine Persone, le quali, una dopo l’altra,
m’impartirono una speciale benedizione. Chi potrebbe dire la confusione che
provai, sia quando mi trovai al cospetto della Santissima Trinità, che durante
l’effettuazione della suddetta cerimonia? Dico soltanto che il trovarmi al
cospetto della Trinità ed il cadere bocconi a terra fu un atto solo, e sarei
rimasta così prostrata chissà quanto, se il mio Gesù, sposo dell’anima mia, non
mi avesse incoraggiata a rialzarmi ed a recarmi dritta alla loro presenza; il
che, se procurava da un canto il massimo giubilo e contentezza al mio cuore, da
[un] altro mi sentivo come schiacciata ed annientata dinanzi a tanta maestà,
[la] quale m’incuteva riverenziale timore e gioia ineffabile ed inesprimibile,
nella eterna luce che emanava l’Essenza e santità di Dio Padre, Figliolo e
Spirito Santo.
Delle altre cose mi conviene far
silenzio, per non dire altri spropositi, più di quanti ne ho detti finora, giacché
il nostro umano linguaggio non ha vocaboli capaci a far comprendere, sia con la
parola che con gli scritti, tutte le impressioni divine che toccarono l’anima
mia.
48 –
L’inabitazione delle Tre Divine Persone nell’anima, di cui prendono possesso e
alla quale si danno in possesso. Fu allora che fecero a Luisa il dono del Divin
Volere.
Passo, quindi, a narrare ciò che
seguì al ritorno della mia anima nel corpo, il quale mi tenne quasi del tutto
nell’attrattiva virtuale di quanto era avvenuto in me, e come morta sentivo
tanti dolori e pene che mi facevano quasi presagire prossima la mia morte. Se
non che Gesù, dopo pochi giorni, mi fece riavere del tutto; e ricordo che nel
fare la comunione, facendomi perdere i sensi del corpo, con le potenze
dell’anima mi avvidi essere dinanzi a me la Santissima Trinità come la vidi nel
cielo, e subito le potenze dell’anima si prostrarono ad adorarla, facendomi
confessare il mio proprio nulla, giacché mi sentii allora talmente sprofondata
in me stessa, che non ardivo balbettare nemmeno una parola, quando una voce di
mezzo a loro si fece a dirmi: “Fatti coraggio; non temere. Siamo per
confermarti nostra e prendere totale possesso del tuo cuore”. Mentre sentivo
questa voce, vidi la Santissima Trinità che entrava in me e s’impossessava
del mio cuore, dicendomi: “Eccoti che nel tuo cuore formiamo la stabile e
perenne dimora nostra”.
Quale fu il cambiamento che
avvenne in me, non saprei spiegarlo, perché mi sentivo come divinizzata, non
vivente più io in me, ma bensì Loro vivevano in me ed io in Loro, tanto che a
me parve come [se] il mio corpo divenisse allora abitazione del Dio vivente in
me, e sentivo quindi la reale presenza delle Tre Divine Persone, che sensibilmente
agivano nel mio interno[59];
sentivo la loro voce che uscendo fuor di me si [ri]percuoteva chiara e sonora
al mio udito. E tutto ciò avveniva precisamente come quando vi sono persone in
una stanza attigua ad un’altra, da cui si sente chiaramente tutto ciò che esse
dicono fra loro, sia per la prossimità del luogo, sia per le voci che, sonore,
si fanno sentire al di fuori della propria stanza. Fu allora che il mio diletto
Gesù si fece a dirmi che io dovevo cercare sempre lui in ogni bisogno, non
altrove e non fuori di me, ma sempre dentro di me, anzi nell’intimo del cuore;
e difatti, d’allora in poi l’ho sempre cercato nel mio cuore e l’ho trovato; ed
altre volte ancora, essendo uscito fuor di me, nel chiamarlo mi ha tosto
risposto e svelatamente parlato, come possono parlare fra loro due persone.
Devo però confessare che talvolta egli si è nascosto talmente in me da non farsi
più sentire, ed allora, dopo averlo invocato e cercato per qualche tempo, non
sentendolo in me né muoversi né pronunciare parola, mi son fatta ardita di
girare cielo, terra e mare, per andare in cerca di lui; ma mentre, talvolta, mi
trovavo nella foga della corsa, ed altre volte nella foga delle lacrime per
l’intensità delle brame, e nelle pene le più inenarrabili per averlo perduto, Gesù
ha fatto sentire la sua voce nel mio interno: “Io sto qui con te, non mi
cercare altrove; sono in te a riposare, ma veglio su te”.
Ed io, tra la meraviglia ed il
contento di sentirlo dentro di me, gli dicevo: “Gesù, mio bene, come mai questa
mattina mi hai fatto girare e rigirare cielo, terra e mare, a fine di
ritrovarti, mentre te ne stavi dentro di me? Perché non mi hai detto almeno
‘sono qui’, che io non mi sarei tanto e poi tanto affaticata nel cercarti dove
non eri? Vedi, dolce mio bene, cara mia vita, vedi un po’ come sono stanca, non
ho più forza, mi sento venir meno… ; deh, sostienimi fra le tue braccia, che mi
sento morire!”.
Gesù, allora, tutto carità, mi
sollevava, prendendomi fra le sue braccia, per farmi qualche volta riposare, ma
in ogni modo mi restituiva le forze perdute. Altre volte, poi, mentre Gesù se
ne stava così nascosto in me ed io nel bisogno lo cercavo, lui si faceva vedere
dentro di me e poi usciva da dentro il mio cuore; ma nell’atto di uscire, non
più Gesù, ma tutte e Tre le Divine Persone, svelatamente io vedevo, ed ora in
forma di tre graziosissimi bambini, ora un solo corpo con tre teste distinte,
ma di una stessa bellezza unica e al[60]
tutto attraente… Chi può dire, ora, il mio contento, specialmente quando questi
tre bambini si facevano stringere fra le mie braccia? Io baciavo ora l’uno, ora
l’altro, e questi mi ricambiavano dei loro baci; e poi, uno si appoggiava alla
mia spalla destra, l’altro alla sinistra, ed il terzo mi si metteva di fronte.
Mentre io così mi beavo di loro, tra la più grande ammirazione e meraviglia che
si possa mai dare alla creatura dal suo Dio, veniva ad accrescere la mia meraviglia
vedere che mentre miravo l’uno, miravo in quest’uno tre, e viceversa:
guardando tutti e tre, se ne formava uno. L’altra meraviglia era, poi,
nell’atto che, mentre tenevo uno fra le mie braccia, o tutti e tre insieme,
sentivo sempre il medesimo peso, giacché tanto di peso sentivo nel tenere uno quanto
a tenerli tutti e tre insieme; e di più sentivo tanto amore per ciascuno di loro,
quanto verso tutti e tre, e tanto mi attirava a sé ciascuno separatamente,
quanto mi attirano tutti e tre insieme. Uno era il modo di attrazione, poiché
come era quello dell’uno, era quello dell’altro... Ed ora che le cose che, non
per dire[61], avrei dovuto passare
sotto silenzio, giacché ne ho dette molte ed a lungo, non posso non ubbidire a
chi prese a dirigere l’anima mia, e continuo.
Ritornando ora daccapo, dirò che
mentre Gesù si benignava di parlarmi spesso della sua passione, cercava
predisporre l’anima mia all’imitazione della sua vita, dicendomi: “Sposa mia,
oltre allo sposalizio già compiuto, ci resta ora da fare un altro, appellato
sposalizio della croce. Sappi che le virtù allora si rendono dolci ed amabili,
quando vengono avvalorate e fortificate nell’innesto della croce. Prima della
mia venuta in terra, le pene, gli obbrobri, i dolori, la povertà, la malattia ed
ogni specialità di croci, erano tenute in conto di una vera confusione ed
infamia, ma dacché furono sofferte da me, tutte vennero ad essere santificate e
divinizzate dal mio contatto, sicché cambiarono aspetto, in quanto che si
resero dolci e gradite, e l’anima che ha il bene di averne qualcuna si stima
più che onorata, e questo avviene perché ha ricevuto la mia divisa, rendendosi
così figliuola di Dio. Sperimenta invece il contrario chi guarda e si ferma
nella corteccia della croce, che trovandola molto amara, ne prende disgusto e
ne dà lamento, giacché la riceve come se le fosse data a torto; ma chi vi ha
penetrato dentro, trovandola molto gustosa e salutare, forma in lei la sua
felicità. Sposa mia, non altro io bramo che di crocifiggerti quanto prima, sia
nell’anima che nel corpo”.
Mentre Gesù così parlava, io [mi]
sentivo infondere tale brama di essere con lui crocifissa, che spesso spesso
andavo ripetendo: “Gesù mio, amor mio, fa presto a crocifiggermi teco”. E
quando egli tornava, la prima domanda che gli facevo e che ritenevo più
importante, era circa le pene e i dolori dei miei peccati e la grazia di essere
crocifissa con lui; e mi sembrava che, ottenendo questo, avrei potuto stimarmi
quanto mai soddisfatta, perché credevo che con ciò avrei ottenuto tutto.
Una mattina, finalmente, il mio
amatissimo Gesù si presentò a me dinanzi, in forma di crocifisso, e mi disse
che voleva veramente crocifiggermi con lui; e mentre ciò diceva, io vidi che
dalle sue sacratissime piaghe uscivano raggi di luce, in cui si scorgevano i
chiodi, che si dirigevano verso di me; ed in quel mentre era tanto il desiderio
perché Gesù mi crocifiggesse, che mi sentivo tutta consumare dall’amore del
patire, ma però in quel momento fui sorpresa da un grande timore che mi fece
tremare da capo a piè, e cominciare indi a sentire tale annientamento di me
stessa, che mi credetti del tutto indegna di ricevere sì rara grazia, per cui
non osavo più dire: “Signore, crocifiggimi teco”.
Gesù, intanto, pareva che
attendesse il mio consenso per comunicarmi sì segnalata grazia, ed in questo conflitto
la durai un pezzo; ma mentre nell’intimo dell’anima mi faceva sentire sì
grande ed ardente desiderio di chiedere tale grazia, dall’altra sentivo tutta
la mia indegnità, e la natura fremente, tremante e spaventata, si arrestava dal
domandare a Gesù di essere crocifissa. E mentre ero in questo stato d’animo, il
mio diletto Gesù intellettualmente m’incitava ad accettare tale grazia, tanto
che conoscendo allora il suo Volere, mi feci animo a dirgli: “Sposo santo e
crocifisso amor mio, deh, ti prego, che mi voglia al fine concedere la grazia
di essere anch’io crocifissa con te; e nel tempo stesso ti prego che non faccia
comparire esteriormente alcun segno della grazia che mi fai. Sì, dammi presto
ogni tua sofferenza e dolore, dammi le tue piaghe, ma che tutto ciò che possa
avvenire su di me sia ad altri nascosto, ma solo noto tra te e me”.
E così la grazia chiesta mi fu
accordata; e tosto quei raggi di luce, assieme ai chiodi, si spiccarono da Gesù
crocifisso e vennero a ferire me, trapassandomi mani e piedi, mentre un altro
raggio di luce più risplendente, assieme ad una lancia, venne a trapassarmi il
cuore. Chi potrebbe dire il mio grande contento e dolore insieme, sopra ogni
altro dolore, che provai in quel fortunato momento? Per quanto grande fu il
timore e tremore che mi aveva invasa poco prima l’anima, altrettanto fu grande
la pace, il contento ed il dolore che provai; e quest’ultimo fu tanto acuto,
che io mi sentivo nelle mani, nei piedi e nel cuore, da farmi presentire già
prossima la morte. Le ossa delle mani e dei piedi me le sentii frangere in
minutissimi pezzi, giacché sperimentavo l’azione del chiodo dentro a ciascuna
ferita; non posso però non asserire ancora che tali piaghe mi procuravano sì
dolce contento da non saperlo esprimere a parole, e la mia meraviglia si fece
vivissima nel sentirmi comunicare tale energia e forza che, mentre per il
dolore mi sentivo morire, venivo dallo stesso dolore sostenuta ed invigorita in
tal modo da non farmi morire. E di più, mentre esteriormente niente compariva,
corporalmente sentivo i più spasimanti dolori; ed allorché venne il confessore
per chiamarmi all’obbedienza, e dovette quindi sciogliermi le braccia che per
l’attrazione dei nervi erano impietrite, provai dolori mortali in quei punti
dove i raggi di luce insieme ai chiodi e [alla] lancia mi avevano toccata. E
questi[62] per
obbedienza comandò che cessassero subito; ed infatti, mentre questi[63]
erano tanto acuti da farmi totalmente smarrire i sensi, all’istante si
mitigarono di molto.
O prodigio della santa
obbedienza, tu sei stata tutto per me! Oh, quante volte non mi sono trovata in
contrastabile conflitto con la nostra sorella morte, e l’obbedienza, facendomi
calmare l’atrocità d’ogni spasimo e dolore di morte, mi restituiva tosto la
vita; e dico francamente che se questi [dolori], all’obbedienza del confessore
non si fossero mitigati alquanto, difficilmente mi sarei assoggettata
all’autorità di esso. Ma sia sempre benedetto il Signore, che tale potestà concesse
ai suoi ministri, di far sottrarre anche dalla morte la sua preda. Perciò mi
auguro che tutto sia stato di sua maggior gloria e di salvezza delle anime.
Devo ancora far notare che,
allorché uscivo dal mio mortale assopimento, dei suddetti segni nulla più si
vedeva sul mio corpo, mentre tornando ad assopirmi vedevo chiaramente impresse
le piaghe del mio Gesù, per cui mi sembrava come se le piaghe di Gesù
crocifisso si fossero come incastonate nelle mie mani, piedi e cuore, in tal modo
da farmele vedere come se fossero quelle stesse del mio Gesù. Di quanto ho
detto sin qui, non riguarda altro che lo sposalizio di croce e delle pene che
soffrii nella prima crocifissione, perché delle altre sopportate nel corso
degli anni seguenti sono tali e tante, che mi sarebbe impossibile numerarle
tutte; ma giacché si vuole che metta qualcosa su carta, dirò alla men peggio le
più principali e che più mi toccarono da vicino, in riguardo alle su accennate
crocifissioni sopportate sino al 1899.
Innanzi tutto, però, è da notarsi
che ogniqualvolta Gesù tornava dopo avermi fatta soffrire la crocifissione,
ripetutamente io gli dicevo: “Mio diletto Gesù, deh, dammi il vero dolore dei
miei peccati, affinché consumati dal dolore e pentimento di averti offeso,
possano essere cancellati dall’anima mia ed anche dalla tua memoria. Sì, mio
bene, dammi tanto dolore per quanta arditezza v’è stata in me nell’offenderti;
anzi, fa che il dolore superi ogni affetto nutrito per il peccato, affinché
eliminato, anzi distrutto dal dolore, possa io più intimamente stringermi a
te”. E Gesù, mentre una volta gli chiedevo tale grazia, benignamente mi disse:
“Giacché tanto ti dispiace d’avermi offeso, voglio io stesso disporti al dolore.
Così potrai comprendere la bruttezza del peccato e l’acerbità del dolore che
reca al mio cuore. Perciò fa di dire insieme con me queste parole: “Se io
trapasso il mare, nel mare sempre tu sei, sebbene non ti vedo; calpesto la
terra e tu mi stai sotto i miei piedi; peccai”. E Gesù, sottovoce, quasi piangendo,
soggiunse: “Eppure ti amai, e nello stesso tempo ti conservai”.
Mentre Gesù mi suggeriva le dette
parole, venivo a comprendere tante cose che mi è impossibile ridire tutto… Dico
solo che prima d’ogni altro compresi l’immensità, la grandezza e la presenza
di Dio in ogni cosa, e che mercé questo suo attributo non sfugge a lui nemmeno
l’ombra del nostro pensiero; e di più, [compresi] il mio nulla, che messo a
confronto di una maestà sì grande e sì santa, si riduce [a] meno che ombra.
Nella parola ‘peccai’, compresi
la bruttezza del peccato e la mia malizia e temerità, per l’enorme affronto
fattogli col posporlo alla soddisfazione di un momento; quindi fui presa da sì
veemente dolore nel sentirmi quelle parole: “Eppure ti amai e conservai”, che
mi sentii morire, poiché mi fece egli comprendere l’immenso amore che mi portava,
anche nell’atto stesso in cui lo mettevo al disotto di un lieve piacere, per
cui l’offendevo e quasi uccidevo. Ah, Signore, per quanto sei stato buono con
me, altrettanto ingrata e cattiva sono stata io per te! Deh, muoviti a pietà di
me, col farmi sempre sentire tanto dolore dei miei peccati, per quanto è
stato, è e sarà sempre, il tuo amore verso di me!
51 - Luisa
ottiene col suo patire che un uomo ucciso non si dannasse, e non solo, ma che
restasse in vita.
Dal momento che il mio
amabilissimo Gesù mi fece ben comprendere quanta malizia v’è in chi commette il
peccato, e quanta malizia ed arditezza vi racchiude in sé chi osa stimar Iddio
meno di un vilissimo piacere, non solo mi guardavo dal commettere qualsiasi
minimo difetto, ma paventavo ancora l’ombra del peccato che involontariamente
avesse potuto menomamente affacciarsi alla mia mente. In quanto poi a quelli
commessi per il passato, sentivo tale ribrezzo e rossore, da farmi credere, fra
tutti, la più scellerata, in modo che d’allora non facevo altro, quando mi
compariva il mio Gesù, che chiedergli sempre più dolore dei miei peccati e
l’attuazione della crocifissione promessami. Ed una mattina, mentre si faceva
sentire sempre viva in me la brama di voler sempre più patire, venne
l’amabilissimo Gesù, e tirandomi fuori di me stessa, trasportò l’anima mia a
far vedere un uomo che veniva ucciso a colpi di rivoltella e già era per
esalare l’anima sua, il quale stava per divenire preda dell’inferno. Allora Gesù,
nella sua più profonda mestizia, mi fece compenetrare in tal modo in sé, sino a
farmi comprendere l’acerbissimo schianto del suo cuore per la perdita di
quell’anima. Oh, se il mondo conoscesse quanto soffre Gesù per la perdita
eterna delle anime, son sicura che gli uomini, per risparmiare almeno a Gesù
quel sì straziante dolore, userebbero tutti i mezzi possibili per non andare
eternamente perduti! Ora, mentre con Gesù mi trovavo in mezzo a quella esplosione
di palle, egli mi si strinse maggiormente d’appresso e mi sussurrò
all’orecchio: “Sposa mia, non vuoi tu offrirti vittima per la salvezza di
quest’anima e prendere su di te le pene che merita costui per i suoi gravissimi
peccati?”.
Ed io: “Ben volentieri, mio Gesù,
prendo su di me tutto ciò che egli ha meritato, a patto però che tu lo salvi e
gli restituisca la vita”. Sì dicendo, Gesù mi fece tornare nel corpo, e mi
sentii immersa in tali e tante sofferenze, che io stessa non so come potetti
ancora sopravvivere. Mi trovavo intanto da più di un’ora in questo stato di
sofferenze, quando il mio Gesù permise che venisse il confessore a chiamarmi
all’obbedienza e farmi riavere, ma trovandomi tanto sofferente, stentatamente
potette ottenere di essere ubbidito; e domandata da lui la causa di tante
sofferenze, gli narrai tutto ciò che poc’anzi avevo visto, indicandogli di più
il punto del paese in cui era avvenuto l’omicidio; e questi, a sua volta
confermò l’omicidio, accaduto proprio nel luogo da me indicato, ed aggiunse che
tutti lo ritenevano come morto. Io però gli dissi che non poteva ritenersi per
morto, dal momento che Gesù mi ha promesso non solo di salvargli l’anima, ma
quanto che lo manterrà in vita; e tanto vero che per ottenere ciò ho dovuto
molto lavorare con la grazia del Signore a non far uscire il suo spirito dal
corpo. Si venne infatti poi a sapere che, per quanto lo si era ritenuto da
tutti per morto, cominciando indi a riaversi, a poco a poco si rimise in
salute, e tanto che vive tuttora. Sia sempre benedetto il Signore.
Ritornando ora alle ardenti brame
che sentivo, di essere crocifissa con Gesù, e ciò per amore verso del mio sommo
bene, e per espiazione e riparazione del mio passato, Gesù se ne venne da me,
facendomi di nuovo uscire come altre volte fuori di me stessa; trasportò
l’anima mia sino ai luoghi santi dove egli patì la sua dolorosa passione, e
girando per quei santi luoghi ci si fecero innanzi alla vista molte croci, ed
il mio diletto Gesù mi disse: “Sposa mia, se tutti sapessero che bene
inapprezzabile contiene in sé la croce, e come rende l’anima preziosa, tutti
indispensabilmente la agognerebbero, poiché chi ha il bene di possederla si acquista
con essa una gemma d’inestimabile valore. Basta solamente dirti che io, venendo
dal cielo in terra, non scelsi le ricchezze e i piaceri della vita, ma bensì
ebbi come più care ed intime sorelle la croce, la povertà, le ignominie ed il
più crudo patire, tanto che a vista di esse ho sempre ardentemente desiderato
che presto si appressasse il tempo della mia passione e morte di croce, giacché
in questa io riposi la salvezza delle anime”.
Mentre Gesù così parlava, mi
faceva provare tutto il gusto e gioia insieme, che egli ebbe a partecipare nel
suo patire, ed in modo tale che le sue parole m’infiammarono il cuore di
desiderio sì ardentissimo di patire e di sì santo trasporto e brama insieme,
perché mi rendesse al più presto simile a lui crocifisso; per cui cercai con
quanta voce e forza contenevo in me, di supplicarlo così: “Deh, sposo santo,
dammi il patire, dammi la tua croce, acciò possa conoscere meglio quanto mi
ami, che altrimenti sarò sempre a vivere nell’incertezza se il tuo amore sia
tutto per me, che ho [rinunciato] a tutto per te”.
Allora Gesù, compiacendosi più
che mai delle mie suppliche, permise che mi distendessi su di una di quelle
croci già vedute, e quando fui ben distesa lo supplicai che fosse venuto a
crocifiggermi; ed egli amorevolmente prese un chiodo e cominciò a trapassare
con quello la mia mano, e di tanto in tanto mi domandava: “Che, ti duole assai?
Vuoi che non continui?”.
“No, no, dilettissimo, continua;
benché mi dolga, son pur contenta che tu mi crocifigga”. Ma nello stesso
momento ebbi quasi un presentimento che Gesù non avesse più a continuare, per
cui mi feci a dirgli: “Gesù, Gesù, fa presto, fa presto, non la prendere così
per le lunghe!”. E così avvenne, poiché quando egli prese ad inchiodarmi
l’altra mano, le braccia della croce si raccorciarono, mentre prima erano
adatte all’uopo; e così Gesù mi schiodò l’altra mano e mi disse: “Sposa mia, fa
bisogno di trovare altra croce; perciò alzati e rinfrancati per ora”. Come
descrivere, ora, la mortificazione che provai in me? Fu tanta che nella mia più
grande confusione esclamai: “Ah, sì! Non sono ancora degna d’un tanto
patire…!”. E dire che questi scherzi si ripetettero per parecchie volte, in
modo che se talvolta le braccia della croce erano adatte, disadatta era la
lunghezza della stessa, mentre altre volte faceva sì che mancasse qualche cosa
necessaria al compimento della mia crocifissione. Insomma, per non
crocifiggermi Gesù trovava sempre qualche pretesto, per rimandarla ad altro
tempo. Oh, quanta amarezza non ha provato l’anima mia in questi ripetuti
contrasti col mio Gesù, e quante volte non mi sono giustamente lamentata con
lui, perché mi negava tutto il vero suo patire; per cui spesse volte, e con
l’animo più che mai amareggiato, gli dicevo: “Diletto mio, a quel che pare, il
tutto finisce in burla! Ed infatti, mi dicesti che mi avresti portata una volta
per sempre in cielo, e tante volte mi hai fatta ritornare alla terra per
abitare questo corpo. Mi dicesti ancora che amavi crocifiggermi, per far che mi
rassomigliassi a te, eppure mai mi fai giungere alla completa crocifissione!”.
E Gesù: “Si farà, si farà presto;
non dubitar di me, che si farà”.
53 - I Pregi
della croce. Al posto della croce avuta finora, Luisa ne riceve un’altra assai
più grande.
Finalmente una mattina, nel giorno
dell’esaltazione della croce[64],
venne Gesù, e tutto frettoloso mi trasportò di nuovo nei luoghi santi di
Gerusalemme, e dopo avermi fatto considerare tante cose concernenti il mistero
e le virtù della croce, si fece affabilmente a dirmi: “Vuoi tu, diletta mia,
essere tutta bella? Contempla la croce, che essa ti darà i lineamenti più belli
che si possono trovare e in cielo e in terra, tanto da far innamorare Iddio,
che pure in sé contiene tutte le infinite bellezze. Vuoi tu essere ripiena di immense
ricchezze, e non per breve tempo, ma bensì per tutta l’eternità?
Ebbene, se in te è entrata la
brama di possedere il cielo con tutte le sue ricchezze, innamorati sempre più
della croce, che essa ti somministrerà tutte le ricchezze, cominciando dai
minutissimi centesimi, quali sono le più piccole sofferenze e di qualsiasi
specie, sino alle più incalcolabili somme, quali le procurano le croci più pesanti.
Intanto gli uomini, poiché son divenuti tanto avidi nel procacciarsi il minimo
guadagno d’un mero soldo temporale, che presto dovranno poi abbandonare, non si
danno alcun pensiero di acquistare un centesimo di bene eterno; e quando io,
avendo compassione di loro per la spensieratezza che hanno per tutto ciò che
riguarda il bene eterno, benignamente porgo loro l’occasione di profittarne,
questi, invece di essermi grati, si sdegnano verso di me e mi offendono con la
loro ostinazione. Vedi figlia mia, quanta cecità nella povera umanità? Nella
croce invece vi sono racchiusi tutti i trionfi ed i più grandi acquisti e vittorie.
Tu, intanto, non aver altra mira se non la croce, perché questa basterà e
supplirà a tutto. Voglio perciò quest’oggi contentarti, col crocifiggerti completamente
su quella croce che finora non bastava a farti ben distendere. Questa croce,
sappi, è quella che ha attirato su di te le dolci attrattive del mio amore e
che m’induce a crocifiggerti completamente su di essa. Quella croce, perciò,
che hai tollerata sin ora, me la porterò in cielo, per averla come pegno del
tuo amore e mostrarla a tutta la corte celeste come testimonianza del tuo
amore per me; ed io, in luogo di questa, farò discendere dal cielo su di te
un’altra più grave e dolorosa, affin di appagare le tue ardenti brame di patire,
e per far sì che presto vengano a completarsi gli eterni miei disegni su di
te”.
Dopo aver ciò detto Gesù, si
presentò a me dinanzi quella croce altre volte da me vista, ed io, piena di
gran contento, mi appressai subito a lei, la presi per deporla a terra, e
quindi mi distesi su di essa; e mentre così mi disponevo per essere crocifissa,
si aprì il cielo, e tosto vi discese l’evangelista san Giovanni, che portò la
croce di cui Gesù mi aveva già parlato; indi, arrivò la Regina Mamma con
moltissimi angeli, che facevanle corona, ed allorché si fecero appresso a me mi
tolsero da sopra quella croce e mi adagiarono sull’altra portata da san
Giovanni, che era più grande. Un gelo di morte s’impossessò di tutta la mia
persona, pur sentendo nel cuore una nuova fiamma d’amore, che tanto mi faceva
agognare il patire della croce. Un angelo, intanto, ad un cenno di Gesù prese
tosto la prima croce e se la portò verso il cielo, mentre egli[65],
dopo ciò detto, di propria mano cominciò a crocifiggermi; e mentre la Regina
Mamma mi assisteva, gli angeli e san Giovanni si fecero d’appresso per porgere
i chiodi ed altro necessario all’uopo, alla mia crocifissione. Nell’atto di
crocifiggermi, il benignissimo Gesù mostravami tale contento e gioia, che avrei
voluto soffrire non una, ma mille crocifissioni ed altre pene ancora, per accrescergli
sempre più quel dolce contento; e nello stesso tempo mi sembrava vedere come se
il cielo fosse tutto parato a novella festa di gloria per me, e ciò per aver
procurato a Gesù quel contento, ed alle anime del purgatorio liberazione e
copioso suffragio, ed ai peccatori pentimento del mal fatto, oltre alla conversione
di parecchi altri, giacché il mio diletto sposo Gesù fece a tutti partecipi
[di] quel bene che si operava mercé la mia buona disposizione a tutte le sofferenze
che sono inerenti alla crocifissione.
Quando poi tutto fu compiuto, mi
sentii come nuotare in un mare di contenti, misto ad un mare di pene e di
dolori inauditi. La Regina Mamma, volgendosi a Gesù, gli disse: “Figlio mio,
oggi è giorno di gloria; perciò voglio che le partecipiate tutte le vostre
pene, e che, a compimento di quanto si è fatto, venga il suo cuore trapassato
dalla lancia, ed alla testa le si rinnovi la coronazione di spine”. E Gesù,
obbedendo alla Mamma, prese una lancia e con essa mi trapassò il cuore da parte
a parte, mentre gli angeli, prendendo una corona di spine, gliela porsero alla
Vergine Santissima, la quale, nel massimo suo contento ed a mia grande
soddisfazione, me la conficcò benignamente nel capo. Che giorno memorabile non
fu mai quello per me! Può veramente dirsi giorno di sommo gaudio e di sommo
dolore, giorno d’indicibili pene e d’ineffabili gioie! In quanto al mio
contento, basta dire che Gesù in tutta l’intera giornata non si mosse d’accanto
a me, per sorreggere la mia naturale fralezza, la quale, senza la sua grazia,
sarebbe venuta meno per l’acerbità delle pene e sofferenze; e per maggior mio
contento, Gesù permise che le tante anime del purgatorio, che mercé
l’applicazione delle mie pene erano state inviate al paradiso, vi scendessero
dal cielo unitamente agli angeli, affinché circondando il mio letto mi
ricreassero coi loro celestiali canti, specie con quello cosiddetto ‘il cantico
di allegrezza’, che si fa in rendimento di grazie a Dio lassù nei cieli, e
detto ancora ‘inno di ringraziamento’.
Dopo cinque o sei giorni
d’intensissime pene, con mio grande rammarico mi accorsi che di giorno in
giorno cominciarono a decrescere, e sarebbero del tutto cessate se non avessi
fatto calda insistenza presso il mio sposo Gesù, che avesse almeno
temporeggiato, per cui sentii in me sì eccessivo amore al dolce patire, che mi
feci[66] a
manifestarlo al mio buon Gesù, e nello stesso tempo a supplicarlo, affinché mi
rinnovasse la già subita crocifissione; e Gesù, dal canto suo compiacendosi di
me, di tanto in tanto mi contentava, trasportando di nuovo l’anima mia nei
luoghi santi di Gerusalemme, e quando più, quando meno, mi partecipava le pene
subite da lui lungo i giorni della sua passione e morte in croce. Mi faceva
quindi soffrire, ora la sua flagellazione, ora la coronazione di spine, ora mi
faceva provare le sofferenze che egli ebbe a soffrire nel portare il pesante
legno della croce al Calvario, e talvolta ancora la crocifissione. Compiacendosi
Gesù di farmi soffrire ora l’uno, ora l’altro di questi misteri, e talvolta in
un solo giorno tutta intera la sua passione, procuravami l’aumento del sommo
mio contento e dell’estremo mio dolore. Invece mi riusciva più che mai penoso e
straziante al mio cuore allorché mi toccava vedere Gesù soffrire, ed io priva
di [ciò], ma soltanto spettatrice del tanto suo patire, per cui smaniavo
dall’ansia di poter entrare almeno a parte dei suoi dolori. Oh, quante e quante
volte non mi sono trovata con la Regina Mamma, a veder soffrire Gesù pene
acerbissime, a causa delle offese che si perpetrano da uomini malvagi, e più
malvagi degli stessi Giudei che lo catturarono e gli diedero la morte! Ah, sì,
fu allora che più che mai mi convinsi che è pur vero che, per chi ama, riesce
più facile soffrire che veder soffrire la persona amata!
E fu appunto per questo che io mi
sentivo spinta dall’amore verso il mio diletto Gesù a supplicarlo che mi
rinnovasse spesso spesso queste crocifissioni, e ciò per alleviargli, almeno in
parte, le sue pene; e Gesù mi diceva: “Diletta mia, la croce ben sopportata ed
ardentemente bramata fa ben distinguere i predestinati dai reprobi, i quali
sono sì ricalcitranti ad ogni patire. Sappi che nel giorno dell’universale
giudizio, gli amanti della croce, al vederla comparire, oh, quanto non si
rallegreranno, mentre i reprobi saranno presi ed assaliti da orribile spavento.
Fin da ora, diletta mia, si può
senza dubbio asserire se quel tale dev’essere uno dei salvati o eternamente perduto,
poiché se questi al presentarsi la croce l’abbraccia e con rassegnazione e
pazienza mi segue, e di tanto in tanto la bacia, ringraziando Colui che
gliel’ha inviata, è segno evidente e più che sicuro di essere costui nel numero
dei salvi; ma se all’opposto, al presentarsi la croce, la persona s’irrita, la
disprezza, e vorrebbe ad ogni costo sottrarsi da essa, già meritata a causa
delle sue dissolutezze, può tenersi come segno certo che cammina per la via
dell’inferno. E quindi, i reprobi, se a vista della croce mi offendono in vita,
nel giorno del giudizio più che mai mi bestemmieranno, vedendo comparire la
croce, che incuterà loro l’eterno terrore. La croce poi, figlia mia, è il
distintivo del vero cristiano. Essa dice tutto, perché come un libro aperto fa
distinguere a chiare note e senza inganno di sorta il santo dal peccatore, il
perfetto dall’imperfetto, il fervoroso dal tiepido. La croce comunica inoltre,
a chi è ben disposto, tale luce, che fin d’ora non solo fa distinguere il buono
dal reo, ma fa ancora conoscere chi dev’essere più o meno glorioso in cielo, e
chi deve occupare in esso un posto più o meno eminente. Oltre a ciò, tutte le
virtù dinanzi all’eccellenza della croce si fanno dimessamente umili e
riverenti; e sai quando acquistano maggior lustro e splendore? Allorché si sono
ben bene innestate con essa”.
Come poter esprimere a parola le
tante fiamme d’amore verso la croce, che Gesù col suo parlare infuse nel mio
cuore? Basta dire che fui presa da tali smanie di patire, che se Gesù non avesse
appagato il mio cuore col rinnovarmi spesso spesso la crocifissione, mi sarei,
certo, martirizzata fra i più atroci tormenti dell’amore. Aggiungo che, alle
volte, dopo avermi rinnovato Gesù queste crocifissioni, mi diceva:
“Diletta del mio cuore, giacché
brami sì ardentemente la fragranza che emanano i dolori della mia croce, io non
solo ti appago col crocifiggerti l’anima, comunicandoti ogni dolore, ma
desidero suggellare anche il tuo corpo col suggello evidente delle mie
sanguinose piaghe, se non fossi così ritrosa di poter manifestare a tutti quanto
tu mi ami. A tal fine, voglio insegnarti la seguente preghiera, che tu farai
per ottenere questa grazia:
‘Io mi presento al trono della
Santissima Trinità, e siccome bagnata nel sangue di Gesù Cristo, ardisco prostrarmi
in segno di profonda adorazione e supplicarla che, per i meriti delle
preclarissime virtù di Gesù e della sua divinità, voglia concedermi la grazia
di essere sempre crocifissa’ ”.
Siccome, poi, ho avuto sempre
avversione a tutto quello che avesse potuto comparire esternamente, come
tuttora persiste, così nell’atto che Gesù m’infondeva maggior brama di essere
crocifissa a piacer suo, non ardivo oppormi a che mi avesse crocifissa
nell’anima e nel corpo; ma ravvisando subito quanto accettavo spensieratamente
nella foga, con animo risoluto dicevo a Gesù: “Sposo santo, segni esterni non
appariscano mai in me; e se talvolta senza alcuna riflessione avessi accettato
cosa appariscente, non ho avuto però mai l’animo di acconsentirvi, poiché tu
sai quanto io abbia amato sempre la vita nascosta. Perciò ti prego, allorquando
vorrai rinnovarmi la crocifissione, che quei dolori siano permanenti e senza
alcun alleviamento di sorta. Questo solo io bramo, questo mi basta, e non segni
esterni, i quali mi farebbero distruggere dalla vergogna”.
Se molto mi tormentava il
pensiero che certi segni esterni potessero manifestarsi esternamente, tanto più
che senza considerazione avevo implicitamente acconsentito alla Volontà di
Gesù, non meno mi tormentava il pensiero dei peccati trascorsi; e per questo
tornavo spesso spesso a domandare a Gesù il dolore e la grazia della loro
remissione, per cui giungevo a dirgli che allora sarei rimasta tranquilla e
contenta, quando egli mi avesse detto di sua bocca: “Ti sono perdonati tutti i
tuoi peccati”.
E Gesù benedetto, che nulla sa
negare quando ciò che si domanda ridonda a nostro spirituale vantaggio,
facendosi una mattina più condiscendente del solito, mi disse: “Questa mattina
voglio io stesso fare l’ufficio di confessore. A me tu confesserai tutte le tue
colpe, e nell’atto di far ciò ti farò comprendere uno per uno tutti gli
affronti che mi hai arrecato e tutti i dolori causati a me coi tuoi peccati.
S’intende che tu comprenderai tanto, per quanto è accessibile all’intelligenza
e volontà umana, che cosa sia in sé il peccato, affinché prenda la risoluzione
di piuttosto morire che tornare ad offendermi. Quindi, entra nel tuo nulla;
considera per poco, che il nulla se l’ha preso[67] col Tutto, e che il Tutto avrebbe potuto far scomparire dalla faccia della terra il
nulla, resosi tanto infame da prendersela col suo Creatore; ciononostante,
questo nulla non solo è stato dal Tutto
tollerato, ma ancora amato. Esci ora fuori del tuo nulla, e con trasporto
d’amore verso l’amante tuo Signore, recita il Confiteor”.
Io, entrata nel nulla di me
stessa, venni a scorgere tutta la mia miseria e tutte le colpe commesse, e
trovandomi dinanzi alla reale presenza di Cristo giudice cominciai a tremare a
verga a verga, fino a mancarmi la forza di poter pronunziare le parole del Confiteor; e sarei rimasta immersa nella
più grande confusione, senza dire una parola, se il Signor mio Gesù Cristo non
mi avesse infusa novella forza e coraggio col dirmi: “Figlia del mio amore, non
temere, ché se ti sono ora giudice, ti sono ancor padre. Coraggio dunque ed
andiamo avanti”. Per cui, tutta piena di confusione e di umiliazione recitai il
Confiteor; e siccome mi vedevo tutta
coperta di colpe, dando un’occhiata su tutto il passato, vi scorsi come più
grave l’affronto recato al mio Signore con l’aver nutrito in me qualche atto di
mera superbia, e quindi gli dissi: “Signore, mi accuso dinanzi alla tua maestà,
di aver peccato di superbia”.
Gesù allora mi disse: “Avvicinati
al mio amoroso cuore, tendi le orecchie e sentirai lo strazio crudele che hai
fatto con questo peccato al mio generoso cuore”; ed io, tutta tremante, tesi
l’orecchio sul suo cuore… Ma chi può dire ciò che sentii e compresi in pochi
istanti? Il mio cuore fremente d’amore cominciò a pulsare sì forte, che a parer
mio mi sembrava come avesse voluto rompersi il petto; e difatti mi parve poi
come se si spezzasse per il dolore, e facendosi a brani a brani restasse quasi
distrutto. E dopo di aver provato tutto ciò, esclamai più volte: “Ahi, quanto è
crudele la superbia umana, che se avesse potere giungerebbe a distruggere lo
stesso Essere Divino!”.
La superbia umana me la
raffiguravo allora come un vermiciattolo che, avendo l’agio di essere ai piedi
d’un gran re, si sollevasse e gonfiasse, in modo tale da credersi qualcosa di
grande, e che preso quindi da somma audacia, cominciasse a poco a poco ad
arrampicarsi, strisciando su per gli abiti del re, fino a giungere alla sua
testa, [e] vedendola cinta da aurea corona, volesse toglierla dal suo capo per
cingere il suo, ed indi, poi, spogliarlo delle sue vesti regali, detronizzarlo
ed infine usare ogni mezzo per togliergli la vita. Questo verme, che non
conosce nemmeno il suo essere, tanto che nella sua superbia non giunge nemmeno
a pensare che per essere disfatto basterebbe soltanto che il re si accorgesse
dell’audace suo progetto per calpestarlo sotto uno dei suoi piedi, facendogli
così crollare in un solo istante tutti i suoi sogni dorati, illudendosi troppo
dei quali nella sua testa riscaldata dalla superbia, muoverebbe a sdegno e
compassione insieme chi fosse meno orgoglioso di esso, il quale sarebbe tenuto
non solo per l’essere più malvagio ed ingrato, ma ancora per il più temerario e
presuntuoso. Ero appunto io, che mi vedevo, quel misero vermiciattolo ai piedi
del Re divino, per cui mi sentivo riempire l’anima da tale confusione e
dispiacere dell’affronto arrecatogli, da provare nel mio cuore lo strazio atroce
sofferto da Gesù a causa della mia superbia.
Dopo ciò, Gesù mi lasciò sola, ed
io continuai a considerare la bruttezza del peccato di superbia, che mi cagionò
tali pene e così al vivo, che mi è impossibile esprimere a parole. Quando ebbi
ben bene considerato quanto mi era stato detto da Gesù, vi tornò egli e mi fece
continuare la confessione, ed io, più tremante di prima, feci l’accusa dei miei
pensieri, delle mie parole, eseguiti non secondo la sua espressa Volontà, oltre
ai peccati di causa [ed] omissione; e tutto fu accusato da me con tale pena ed
amarezza di animo, che mi sentii come esterrefatta nella piccolezza del mio
essere, per la baldanza ed audacia avuta nell’offendere quel Dio sì buono, il
quale nell’atto stesso che gli arrecavo affronti, mi assisteva, mi conservava e
mi alimentava; e se qualche sdegno avessi potuto notare in lui verso di me, a
null’altro si riduceva che all’odio sommo che egli ha del peccato. All’opposto,
la sua bontà verso di me, peccatrice, è stata sempre immensa, e tanto che
giunse a scusarmi innanzi alla divina giustizia, mettendo in vista la mia
incapacità e fralezza, per cui mi faceva ottenere in cambio novelle grazie e
forza a meglio operare, il che era come togliere quel muro di divisione che era
sorto a causa del peccato tra la mia anima e Dio. Oh, se tutti conoscessero la bontà
di Dio e la bruttezza del peccato, da tutti gli uomini sarebbe tosto esiliato
dalla faccia della terra; i quali, presi da forte rimorso e dolore per il
peccato, o morrebbero, oppure conoscendo l’infinita bontà di Dio si
getterebbero in essa, come in un mare immenso di grazie le più elette, destinate
a loro bene e santificazione.
Allorché Gesù vide che per la
gran pena ed amarezza del peccato non potevo più continuare, si ritirò da me,
lasciandomi immersa nella considerazione del male fatto col peccato, ed in
quella più profonda ancora della sua bontà, nello scusarmi presso la giustizia
del Padre suo, facendomi ottenere novelle grazie. Dopo un lungo tratto, Gesù tornò
di nuovo per farmi continuare l’accusa, la quale, di tanto in tanto
interrotta, ebbe fine dopo sette ore all’incirca. E quando l’amabilissimo Gesù
mise termine alla mia accusa, smise l’aspetto di giudice e riprese quello di
padre amorosissimo; e siccome mi ero ridotta sino all’estremo sfinimento di
forze e di vita per il dolore provato per le offese fatte al mio Dio, e più ancora
per la comprensione che il mio dolore, per quanto fosse stato grande, non era
poi sufficientemente bastante a farmi dolere come mi conveniva, Gesù, per
rincorarmi, mi disse: “Voglio io supplire per te, applicando all’anima tua il merito
del mio dolore, sofferto là, nell’orto di Getsemani; solo questo può bastare a
soddisfare la divina giustizia da te offesa”.
Mi parve quindi di essere più
disposta a ricevere da Gesù l’assoluzione dei miei peccati; e perciò, tutta umiliata
e confusa ai suoi piedi, gli dissi: “Sommo Iddio, per quanto sommo è il male
che io ho fatto verso di te commettendo il peccato, altrettanto infinitamente
somma ritengo la tua misericordia che mi perdona. Vorrei però che le potenze ed
i sensi miei divenissero un numero infinitamente grande, e che come tante
lingue lodassero ed elogiassero un osanna perenne alla tua infinita
misericordia. Deh, Padre Santo, perdonami il gran torto fatto a te peccando, e
rimettimi nella tua paterna grazia!”. E Gesù: “Promettimi di non più peccare,
con l’allontanare da te ogni ombra di male, che potesse di nuovo offendermi”.
“Ah, sì, prometto mille e mille volte, piuttosto morire che offendere mai più
te, mio Creatore, mio Redentore e mio Salvatore, mai più, mai più”. Allora Gesù
alzò la benedetta sua destra e pronunziò le parole dell’assoluzione, facendo
scorrere sull’anima mia un fiume del suo preziosissimo sangue.
Dopo che Gesù ebbe lavata l’anima
mia nel suo preziosissimo sangue, mercé le parole dell’assoluzione, mi sentii
come rinata a nuova vita, e più che mai inondata dalla piena della sua grazia,
che mi lasciò poi tale impressione, da non poterla più dimenticare. Basta dire
che ogniqualvolta me ne rammento, sento dapprima come sorgere nell’anima mia
un’insolita gioia, e poi corrermi un brivido per tutta la persona, al riflesso
della grazia fattami dal mio Signore, la quale in tutte le sue più minute
circostanze mi si affaccia continuamente alla mente, come se or ora si fosse
eseguita. Ripiena quindi del passato ricordo, con tutti i suoi più minuti
particolari, mi fa entrare in un profondo raccoglimento ed ansiose brame di
poter corrispondere, il più che mi sia possibile, alle tante e sì singolari
grazie che il Signore mi ha fatto e continua tuttora a farmi, sia per
rinvigorirmi nello stato di vittima, che per ben dispormi a vivere nella sua
Divina Volontà, per cui si richiede somma divina grazia e somma attività da
parte mia, che essendo nulla, devo prendere il tutto da Dio, e quindi trafelare
e travagliare per trasfonderlo in altri, come al par di un medico che
s’impegnasse d’iniettare il sangue di un individuo sano nella vene di un ammalato,
per ridonargli la sanità corporale.
Al pari di questi devo ancor io
prendere da Dio la sua grazia, applicarla agli spiriti infermi, per far poi tutto
tornare a Dio. E per fare che ciò avvenisse in me, il mio amabilissimo Gesù mi
trasse dapprima a sé, col farmi prima distaccare da tutto ciò che menomamente
mi distraesse da lui; indi mi ridusse allo stato di vittima perenne, disposta
sempre, ogniqualvolta lo volesse, a prendere su di me una parte di quelle
pene, dolori e sofferenze, di cui è continuamente sovraccarico il pazientissimo
Gesù, sia per soddisfare la divina giustizia, già tanto offesa dal continuo
prevaricamento del genere umano, che per impedire che potesse mettere mano ai
suoi più spietati flagelli. A me, poi, per rinfrancarmi delle forze perdute, mi
usa grazie delle più singolari, come, fra le altre, quella della suddetta assoluzione,
la quale mi è stata impartita da Gesù più volte, e nella quale ha preso ora
l’aspetto d’un sacerdote che, come tale, prima mi confessava, facendomi sentire
differenti effetti nell’anima, e dopo, terminata la confessione, si faceva
conoscere qual egli era; ed ora prendeva l’aspetto del confessore, tanto che,
credendo di parlare con lui, gli aprivo il mio cuore per fargli conoscere lo
stato dell’anima mia, coi suoi timori, dubbi, pene, angosce e necessità, ma che
poi, dalle risposte che mi dava e dalla soavità della sua voce, tramezzata,
però, ora da quella del confessore ed ora dalla sua, dal tratto affabile e
dagli effetti interni che io provavo, differentemente da quelli ordinari,
venivo a scoprire che quelli non era altro che Gesù. Altre volte poi, mi si
manifestava da principio in un modo tutto ineffabile, e mi faceva fare la confessione,
sia ordinaria che straordinaria, ed infine mi assolveva. Se dovessi dire tutto
quanto è passato tra Gesù e me, non solo andrei troppo per le lunghe, ma quanto
che sarebbe preso per favola; perciò passo a dire altro, e che sia di più manifesto.
Ricordo che, dopo tutto quel che
ho detto, Gesù mi tenne avvisata della seconda guerra che doveva avvenire tra
l’Italia e l’Africa, nove mesi prima che s’ingaggiasse tra loro; ed ecco come.
Il benedetto Gesù, facendomi uscire fuor di me stessa, mi trasportò dietro di
sé, facendomi percorrere una lunghissima via, tutta disseminata di cadaveri
umani, immersi nel proprio sangue, che a guisa di fiume inondava quella via, i
quali, come Gesù mi fece vedere con mio sommo orrore, erano abbandonati ed
esposti ad ogni intemperie dell’aria ed alla rapacità di animali carnivori, giacché
non c’era chi si brigasse di dar loro sepoltura. Ed io allora, tutta
spaventata, mi feci a domandare al mio Gesù: “Sposo santo, cosa vuol dire tutto
ciò che ora mi fai vedere?”.
E Gesù mi rispose: “Sappi che nel
prossimo anno vi sarà guerra. Gli uomini si sono dati ad ogni vizio ed abbandonati
alle più carnali passioni per offendermi, ed io voglio fare le mie giuste
vendette sulle loro medesime carni che puzzano tutte di peccato”. Io non ebbi
alcun dubbio di quanto mi asseriva Gesù; ciò nonostante speravo che, nel corso
dei nove mesi, gli uomini carnali avrebbero messo freno alle loro passioni, e
Gesù in vista del loro ravvedimento avrebbe sospesa la preavvisata guerra. Ma
che dire di tanti e tanti, che infangati nelle loro passioni, invece di ravvedersi
peggioravano sempre più? Tanto che, passato quel periodo di prova accordato dal
buon Gesù, si cominciò a sentirsi dapprima parlar di guerra e, subito dopo, che
veramente tra l’Italia e l’Africa aspramente si combatteva, con evidente danno
d’ambo le parti. Allora io, più che mai, mi offrii al buon Gesù, affinché
avesse risparmiato tante vittime; ma per quanto lo pregassi ed incessantemente
lo supplicassi che avesse avuto pietà di tante anime che, morendo in guerra, si
sarebbero trovate al cospetto di Dio non in stato di grazia, e quindi sarebbero
state precipitate nell’inferno, ma Gesù non mi diede punto ascolto; ma facendomi
uscire fuori di me, l’anima mia seguendolo si trovò in un istante a Roma, in
cui ascoltai la voce di tanti e tanti presuntuosi, che dicevano di essere
affatto convinti che l’Italia avrebbe riportato vittoria sull’Africa…
Gesù intanto, dopo aver
attraversato le vie di Roma, ed ivi ascoltato quanto ho su detto, mi fece
penetrare unita a lui nell’aula del Parlamento, in cui i deputati tenevano
calorose dispute, sul modo che dovessero[68]
tenere per menare innanzi la guerra ed assicurarsi quindi della bramata
vittoria; e si procedeva nella discussione con tanta ampollosità di parole,
fanatismo e superbia, che facevano compassione a sentirli. Ma quel che mi fece
più impressione fu nel sentire che costoro erano tutti settari, e che agivano
sotto la pressione del demonio, a cui avevano venduto le loro anime, affin di
accaparrarsi l’esito felice della guerra. Nel conoscere intanto tutto ciò, mi sentii
raccapricciare, e tutta dolente esclamai: “Che uomini tristi e malvagi, in
tempi più tristi di loro!”. A me sembrava che tra loro regnasse il regno di
satana, giacché tutta la loro fiducia, anziché riporla in Dio e nella propria
attitudine richiesta all’uopo, la riponevano tutta nel demonio, da cui si
attendevano sicura vittoria. Ora dico che, mentre essi stavano immersi nelle
più vive e calorose discussioni, per riunire le varie divergenze, per cui [una]
tendeva ad allontanarsi sempre più dall’altra man mano che si discuteva tra
loro, il benedetto Gesù, che senza essere veduto era in mezzo, a udire le loro
infelicissime proposte, versò lacrime amarissime sul loro misero stato. Ed
essi, dopo che ebbero alla men peggio tirato consiglio, ma senza Dio, sul modo
pratico di procedere in guerra, come se la vittoria fosse già dell’Italia,
presuntuosi più che mai, menavano vanto della sicurezza della vittoria. Gesù
allora, come se quelli stessero intenti ad ascoltarlo, disse loro in tono di
minaccia: “Voi tutti vi fidate di voi stessi, ed io perciò vi umilierò,
affinché possiate constatare quanto è il danno che si riporta agendo senza
invocare l’aiuto e l’intervento divino, che è l’autore d’ogni bene. Questa
volta quindi la vittoria non sarà dell’Italia, ma a lei toccherà invece totale
sconfitta”.
Chi può dire, ora, quanto soffrì
il mio cuore a queste parole di Gesù, e i mezzi usati presso il mio amabile
Gesù perché si placasse, o che almeno la guerra non andasse più oltre? Come
sempre mi offrii vittima di espiazione, affinché versasse su di me le più
acerbe pene e i dolori più spasimanti, a patto che risparmiasse l’Italia da un
tanto flagello. Ma Gesù mi disse: “Terrò sempre duro, in modo che l’Africa avrà
la vittoria sull’Italia. Solo ti accordo che l’Africa vincitrice non si riversi
sulla terra italiana per continuare il combattimento, come giusto castigo che
merita l’Italia, sia per la vita molto licenziosa che vive, sia per la fede già
perduta, per cui non spera in Dio, ma nel diavolo”.
Il tutto già narrato, con altre
circostanze, fu da me esposto all’obbedienza del confessore, il quale rispose:
“Non mi pare vero che l’Italia abbia ad essere sconfitta dall’Africa, poiché
l’Italia nella sua civiltà possiede ogni specie di armi offensive e difensive,
per cui la vittoria dov’essere nostra anziché dell’Africa incivile, che è
assolutamente priva di armi atte alla guerra”. Ma quando, purtroppo, il
risultato di questa venne a confermare quanto Gesù mi aveva assicurato, questi
soggiunse dicendomi: “Figlia mia, non c’è consiglio, non c’è prudenza né forza
che valga, se non è attinta da Dio”.
Potrei ora terminare la
narrazione di quelle cose più rilevanti, toccatemi dall’età di sedici anni
all’incirca [fino] ad oggi, se il confessore non mi avesse obbligata a mettere
su carta il modo che Gesù abbia tenuto meco nel parlarmi. Dapprima dico che
vari sono questi modi, ma io li riduco appena a quattro, che sono i seguenti:
Il primo modo che tiene Gesù nel far apprendere dall’anima ciò che egli vuole,
avviene quando fa uscire l’anima dal suo corpo, il che può avvenire in modo
istantaneo, oppure insensibile. Nel primo caso l’anima esce dal suo corpo come
in un baleno, ed è così repentino che il corpo si solleva come per seguire
l’anima, ma poscia rimane come morto, mentre l’anima segue Gesù, percorrendo
tutto l’universo, terra, mari, monti, cielo, e fin le regioni del purgatorio e
nella magione eterna di Dio, seguendo però sempre la direzione che prende Gesù.
Nel secondo caso, in cui l’anima esce dal corpo, è più quieto; ed infatti, pare
che il corpo insensibilmente resti come assopito al cospetto di Gesù, e
l’anima, nell’atto che Gesù parte, lo segue dovunque egli va.
Sia nel primo che nel secondo
caso, il corpo resta impietrito e delle cose esterne non sente più nulla,
ancorché si sconvolgesse tutto il mondo e le sue membra le punzecchiassero, le
bruciassero e le facessero anche a pezzi. Ed in questi due casi posso asserire
che mi son trovata fuori del corpo, e così lontana che dal luogo dove mi aveva
trasportata Gesù vedevo il confessore che andava verso casa per farmi riavere;
ed io, dagli ultimi confini della terra, dal purgatorio ed anche dal paradiso,
al comando di Gesù (che voleva da me perfetta obbedienza al confessore) in un
batter d’occhio mi ritrovavo nel corpo. Le prime volte però, temendo che non
facessi a tempo, mi angustiavo, mi affliggevo e tutta mi affaticavo per far che
mi ritrovassi nel corpo, nell’atto che il confessore mi avrebbe fatto riavere,
a mezzo dell’ubbidienza. Confesso però che mai mi son trovata a non fare a
tempo a rientrare nel corpo, allorquando il confessore si è recato presso il
mio letticciolo, e che se Gesù non avesse premurato l’anima mia a tornare nel
corpo, sarei stata restia alla voce del confessore, poiché si trattava,
nientemeno, di lasciare Gesù, mio sommo bene, per accorrere alla voce
dell’ubbidienza. Perciò, nel licenziarmi da lui, gli dicevo: “Vado dal
confessore, che mi chiama all’ubbidienza; ma tu, mio diletto, torna presto e
non appena se ne andrà via; te ne prego, non mi fare tanto aspettare”. Ora dico
che l’anima mia, in questi due casi, non ha bisogno che Gesù parli, per farsi
intendere, perché da una luce che comunica al mio intelletto mi fa tosto
comprendere quanto voglia imprimere in esso. Oh, quanto bene c’intendiamo,
quando ci troviamo tutti e due insieme! Questo modo intellettuale di Gesù, per
farsi intendere dall’anima, è rapidissimo. Basta dire che in un istante si
apprendono molte e sublimi cose, più che leggendo libri interi per tutta la
vita; è sì alto, poi, e sì sublime, che riuscirebbe impossibile a qualsiasi
intelligenza umana esprimere a parole tutte le impressioni di quanto si è
appreso[69]
dall’anima in un istante solo. Oh, che maestro sapientissimo ed ingegnosissimo
è Gesù, che in un batter d’occhio fa apprendere tante cose, quante non
arriverebbero altri a farle comprendere nemmeno dopo anni ed anni di lezioni,
giacché il maestro terreno non ha la potenza, non solo di esplicare tutte le
sue scienze, ma neppure quella di attrarre a sé tutta l’attenzione del discepolo,
né quella d’infondere nella mente altrui alcunché senza sforzo e fatica. Gesù
invece ha tanta dolcezza, tanta affabilità di tratto e tanta soavità nel dire,
che, appena lo scorge, l’anima si sente talmente attirata a lui, che non può
non corrergli dietro con la massima velocità, per cui, senza avvedersene, si
trova trasformata in lui, in modo da non discernersi l’essere suo da quello
divino.
Chi potrebbe dire ciò che l’anima
apprende in questo istante di trasformazione? Ci vorrebbe Gesù, o almeno
un’anima che avesse subìto di queste trasformazioni mentre era in vita, e che
ora si trovi in stato di perfetta gloria; giacché chi è circondato dal muro di
questo corpo, ancorché avesse posseduto quella luce divina per cui si sia
sentito tutto inabissato in Dio, pur possedendola, sentendosi nell’atto di
rientrare nel corpo come avvolto dalle più fitte tenebre, se volesse provare a
dire qualcosa gli riuscirebbe impossibile riferirla come gli è stata comunicata,
ma [lo farebbe] molto rozzamente ed imperfettamente. Per darne un’idea,
m’immagino un cieco nato, che un bel giorno avesse ricevuto la vista per pochi
istanti, e che in brevissimo tempo avesse percorso tutto l’universo mondo, in
cui velocemente avesse visto le cose più sorprendenti, sia in minerali, che
vegetali ed animali, oltre all’immensa distesa del cielo tutto tempestato
d’innumerevoli astri, ma che poi, dopo pochi istanti tornasse alla stessa cecità
di prima. Ora, dico: potrebbe questi riferire ad altri ciò che vide, e con
linguaggio al tutto appropriato? A quanti scherni non si assoggetterebbe, se
invece di formare un abbozzo volesse descrivere più minutamente tutto ciò che
fu da lui veduto appena e solo in pochi istanti?
E proprio così avviene dell’anima
quando, dopo aver spaziato per cielo e terra, nel rientrare nel corpo, essendo
tornata a non veder più nulla come quel povero cieco, amerebbe chiudersi nel
silenzio anziché parlare, sia per la vista perduta che per il timore di
spropositare. Così l’anima, rientrando nel corpo, vive gemente e sconsolata per
lo stato di violenza a cui deve sottostare, poiché mentre si sente violentata a
slanciarsi verso il suo sommo bene, per l’attrazione che Gesù fa all’anima, la
quale non brama altro che di star unita con Dio, anziché parlare in modo
disordinato di cose eccedenti la sua capacità e l’attuale suo stato, che è più
infelice di colui che abbia perduto la vista corporale.
Per obbedienza dico, però, forse
spropositando, che stando così le cose, vengo ora a spiegare come meglio posso
il secondo modo che tiene Gesù nel parlare all’anima, e cioè, che stando
questa nel corpo, fuori di esso vede la persona di Gesù, ora da bambino, or da
giovane, ora crocifisso, ecc., e Gesù, come noi altri, dalla sua bocca mette
fuori parole che sensibilmente l’anima sente giungere al suo udito, e questa a
sua volta risponde a Gesù, in modo che talvolta succede una conversazione tale
come la si può fare tra due persone. Ma la parola di Gesù, però, è molto
misurata, tanto che, appena, egli pronunzia quattro o cinque parole, ed altre
volte anche una sola, e rarissime volte [parla] a lungo; ma in quelle sì brevi
parole, quanta luce non infonde nell’anima! A me è sembrato vedere un
piccolissimo ruscello, che poi si è disteso in un vastissimo mare. Sicché una
parola di Gesù ha riportato in me tanta immensità di luce, da far sì che
l’anima restasse come assorbita da quella luce di verità, tanto da farla come
sua. Se a tutti i sapienti del mondo fosse dato ascoltare soltanto una parola
di Gesù, son sicura che tutti resterebbero stupiti, confusi e muti, ed incapaci
di saper che rispondere. Ora dico che con questo modo di parlare, Gesù
manifesta all’anima più facilmente le sue verità, poiché avendo egli usato un
linguaggio appropriato all’intelligenza di questa, lei non ha bisogno di andare
in cerca di vocaboli per comunicarle ad altri, giacché può usare benissimo
quelli stessi usati da Gesù. Quando invece l’anima apprende queste verità per
comunicazione al tutto intellettuale, si trova molto impacciata nel
manifestarle ad altri, perché le riesce impossibile esprimersi con la parola.
Ecco perché Gesù, per adattarsi alla natura umana, per lo più fa uso della
parola, perché diversamente questa [70],
ripeto, non si aprirebbe con altri, stando nel dubbio di errare; e parla
secondo la capacità ed il linguaggio di ciascun’anima.
Insomma, Gesù fa come un maestro
dottissimo e sapientissimo, il quale possiede in grado superlativo tutte le
scienze, e volendo impartire ad altri delle lezioni, parlerà certamente la
lingua conosciuta e parlata dall’alunno, altrimenti la verità scientifica non
sarebbe mai appresa da quello, o almeno ci sarebbe bisogno che prima gli
facesse apprendere quella lingua, e rifarsi quindi da capo, e poi insegnare quella
scienza che si era proposto di far imparare. Oh, quanto è buono Gesù, che pur essendo
sapientissimo si adatta alla capacità di tutti, e tanto da non sdegnare di
abbassarsi a far scuola a quegli ignoranti che volessero apprendere da lui le
verità necessarie per il conseguimento dell’eterna salute, e molto meno superbo[71], se
le sue verità le dovesse comunicare a persone dottissime ed in modo elevato,
giacché egli non ha altra mira se non che quella di far conoscere, apprezzare
ed eseguire le sue verità, non volendo che alcuno ne resti privo di queste.
Il terzo modo che adopera Gesù
nel far apprendere all’anima le sue verità, consiste nel partecipare a lei la
stessa sua sostanza. A me sembra che avvenga come quando Iddio creò il mondo
dal nulla, che ad una sola sua parola tutte le cose vennero all’esistenza,
mentre ad un’altra sua onnipotente parola tutto il creato fu messo in ordine,
quale ab æterno era stato da lui
prefisso. Così avviene dell’anima a cui Gesù le parli parole di vita eterna;
[egli] crea, nell’atto stesso che comunica le sue verità, perché volendo Gesù
che l’anima s’innamori della sua bellezza, le dice: “Vuoi tu sapere quanto io
sia bello? Per quanto il tuo occhio potesse scorrere su tutte le bellezze
sparse su tutta la terra e negli stessi cieli, mai troveresti bellezza simile
alla mia bellezza”.
In questo dire di Gesù, l’anima
si sente come se entrasse in lei un certo che di divino, a cui si sente di aderire
perché è attirata da Gesù come bellezza sopra ogni altra bellezza, ed insieme
[si sente] perdere ogni attrattiva per tutte le cose belle di quaggiù, giacché
per quanto belle e preziose fossero[72],
messe a paragone della bellezza di Gesù, vi scorge l’infinito divario, e quindi
si dà a questa[73], in questa si trasmuta, a
questa sempre pensa, di questa vorrebbe sempre parlare, giacché di essa si
sente tutta investita, innamorata ed anzi trasfusa; dico ancor di più, che se
il Signore non operasse un miracolo, l’anima cesserebbe di vivere, facendole
scoppiare il cuore di puro amore a vista della bellezza di Gesù, per volarsene
tosto appresso a lui lassù nel cielo per bearsi della sua bellezza. Io stessa
però, che ho provato tutte queste emozioni, con tutte le attrattive della
bellezza di Gesù, non so cosa mi dico; si tenga quindi il mio detto come tanti
spropositi, ma non posso però non sostenere che una impressione soprannaturale
non sia rimasta in me, ed in modo tale da farmi dedurre questa verità: ogni
bellezza terrena, a vista di quella del mio amabilissimo Gesù, viene ad
eclissarsi, come le stelle al comparir del sole, e quindi le bellezze delle
cose create, Gesù me le fa tenere come un’inezia e cosa da trastullo. Di quanto
ho detto della bellezza di Gesù, altrettanto e più ancora potrei dire della
purità, della carità, della bontà, della semplicità, e di tutte le altre virtù
di Gesù, come pure di tutti gli attributi di Dio, giacché parlando all’anima fa
entrare in essa, oltre alla parte comunicativa delle sue virtù, gli infiniti
attributi della sua divinità.
Un giorno, fra gli altri, Gesù mi
disse: “Vedi quanto io sono puro? Anche in te voglio questa purità”. A queste
parole di Gesù, accompagnate dallo splendore candidissimo della sua purità
tutta divina, sentii entrare in me tale purità, come se la purità di Gesù si
fosse del tutto trasfusa in me, in modo che cominciai d’allora a vivere come se
non avessi più corpo, perché mi sentivo tutta inebriata dalla sua fragranza, mi
assopivo all’olezzo suo balsamico, correva il mio spirito dietro al suo odore
di paradiso, mi ridestavo alla freschezza della sua aria pregna di aromi. Il
mio corpo, reso partecipe della purezza vitale dell’anima assieme alle sue potenze,
si rese molto semplice per la correttezza dei suoi sensi, giacché la nausea
dell’impurità s’impossessò tanto in[74] me,
che se d’allora in poi avesse potuto solo lontanamente percepire qualche
sensazione meno pura, involontariamente lo stomaco mi si ribellava, dando forti
conati di vomito.
L’anima, insomma, a cui Dio abbia
parlato della sua purità, viene a trasmutarsi in quella, e tanto che sente di
non poter più vivere in sé, ma vive ed agisce in Gesù, avendo egli preso
stabile dimora in lei. Perciò non posso fare a meno di dire che quanto ho detto
della bellezza e purità di Gesù trasfuse in me, sono meri spropositi, giacché
l’intelligenza e capacità umana sono incapaci ad esprimere con linguaggio umano
ciò che non lo potrebbe nemmeno il linguaggio angelico, tanta è la sublimità di
esse. Se non mi riesce, quindi, a ben esprimere dell’impressione[75]
avuta nell’ammirare la bellezza, purità, e tutte le altre virtù, così è da
dirsi degli attributi divini che il mio buon Gesù di tanto in tanto ha voluto
comunicare all’anima mia. Oh, quanto è desiderabile la partecipazione di esse
virtù e attributi di Dio che Gesù fa all’anima, in modo tutto creativo, mercé
la quale, l’anima si trova in possesso di quanto le è dato di apprendere, fosse
pure in un batter d’occhio. In quanto a me, darei tutto ciò che sta in tutto
l’universo mondo, se ne fossi padrona, per avere una sola di sì elette
comunicazioni, per cui l’anima si avvicina sempre più a lui[76],
sublimandola all’intuitiva comprensione dei beati ed angeli del paradiso.
Il quarto modo che tiene Gesù di
parlare all’anima, consiste tutto nella comunicazione dei cuori, mercé
l’esercizio continuo e mai interrotto nelle sue più eroiche virtù, essendo
allora l’anima sempre intenta a procurare il maggior compiacimento di Dio,
fatto ospite del suo cuore. Gesù internamente, stando in riposo, ma sempre
vigilante nell’intimo nascondiglio del suo[77]
cuore, la richiama talvolta al suo dovere senza articolar parola, giacché
essendosi l’uno e l’altra come fusi ed immedesimati insieme, gli basta un solo
moto interno per farsi comprendere; ma però altre volte Gesù fa uso anche della
parola, che fa giungere all’orecchio del corpo, facendole comprendere quanto egli
vuole. E questo modo di parlare di Gesù, che fa all’anima che lo abbia reso
padrone assoluto del suo cuore, succede spesso spesso avendo egli preso tutta a
sé la direzione di quest’anima, per cui la sveglia se la vede assopita durante
l’adempimento dei suoi doveri, la incita dolcemente a riprendere di buona
voglia ciò che avesse potuto trascurare per rincrescimento, e tosto fa sentire
la sua parola ammonitrice se la vedesse distratta, afflitta, sconsolata, oppure
perdendo il tempo, mancante alla carità, ecc. E questa sua parola basta a farla
rientrare subito in se stessa, per riconcentrarsi maggiormente in Dio a fare la
sua Santa Volontà.
E così avrei dovuto mettere
termine a[78] tutte le grazie che il
mio amabilissimo Gesù ha voluto copiosamente elargire a me, ultima delle sue
ancelle, nel corso di sedici anni all’incirca, dal momento che io feci
proposito di fare la novena del santo Natale con nove meditazioni al giorno,
concernenti i grandi misteri della sua Incarnazione. Se non che il mio confessore,
trovandosi a considerare l’inizio di questo manoscritto, e proprio al punto ove
io dissi: “Così io passavo la seconda ora di meditazione, e poi via via la
terza sino alla nona, che tralascio per non rendermi seccante…”, questi ora mi
ha ingiunto di scriverle per esteso, affinché - come egli mi dice - si venga a
riempire quella lacuna già fatta contro il suo volere. E poiché mi conviene
sempre ubbidire, anche contro la mia ragione, che è quella di non poter fare
questo lavoro a causa della mia incapacità e distanza di tempo, che mi ha fatto
quasi dimenticare quanto Gesù mi faceva praticare, senz’altro, fidente in lui,
prendo la penna in mano e dico.
Dalla seconda meditazione passai
immediatamente alla terza, giacché la voce interna che sin dalla prima
meditazione mi si fece sentire sensibilmente mi disse: “Figlia mia, poggia la
tua testa sul seno della mia Mamma, e considera in esso la mia piccola
umanità. Qui il mio amore per la creatura quasi mi divora; sono gli incendi,
gli oceani, i mari immensi dell’amore della mia divinità, che m’inceneriscono,
m’inondano, e che eccessivamente oltrepassano ogni confine, tanto da sollevarsi
ovunque e sino a tutte le generazioni, dalla prima all’ultima creatura. E la
mia piccola umanità, pur divorata in mezzo a tante fiamme d’amore, si rende ancor
essa divorante nel medesimo amore. Ma sai che cosa il mio eterno amore mi
voglia far divorare? Ah, sì; ben lo saprai a prova: le anime tutte! Ed allora,
figlia mia, sarà contento il mio amore, quando le divorerà in sé tutte, giacché
[io] essendo Dio devo operare da Dio, abbracciando in tutto e per tutto
ciascun’anima che possa venire all’esistenza, poiché il mio amore non mi darebbe
pace se vi escludessi qualcuna. Sì, figlia mia, guarda bene nel seno della
Mamma mia; fissa il tuo sguardo nella mia umanità già concepita, e vi troverai
ancora l’anima tua concepita con me, e le fiamme del mio amore che ti hanno
incendiata tutta d’amore per me, ed allora faranno sosta quando ti avranno in
me consumata. Oh, quanto ti ho amato, ti amo e ti amerò in eterno!”.
Al sentire Gesù, che così mi
parlava, io mi sperdevo in mezzo a tanto amore e non sapevo come
corrispondergli; se non che una voce interna venne a scuotermi col dirmi:
“Figlia mia, ciò è nulla, in paragone di quanto si opera dal mio amore.
Stringiti perciò più a me; dà le tue mani alla mia cara Mamma, affinché ti
tenga viepiù stretta sul suo seno materno, e tu intanto dà un altro sguardo
alla mia piccola umanità concepita nel tempo per concepire le anime per l’eternità,
il che ti darà campo a considerare il quarto eccesso del mio amore, che si
rende operativo”.
“Figlia mia, se tu vuoi passare
dall’amore sì divorante all’amore mio operante, mi scorgerai immerso in un
abisso senza fondo di sofferenze. Considera che ogni anima in me concepita mi
portò il fardello dei suoi peccati, delle sue debolezze e passioni, ed il mio
amore m’impose a prendere il fardello di ciascuna, per cui, dopo aver concepito
in me le loro anime, concepii ancora le loro pene e le soddisfazioni che ognuna
di loro doveva dare al mio celeste Padre. Perciò non deve meravigliarti se la
mia passione fu concepita unitamente a me. Guarda bene nel seno della mia
Mamma, e vi scorgerai quanto e come sento al vivo lo strazio di tante pene!
Guarda bene la mia testolina, circondata da un serto di spine, le quali,
trafiggendomi crudelmente il capo, mi fanno versare dagli occhi fiumi di cocentissime
ed amarissime lacrime. Deh, muoviti tu a compassione di me con l’asciugarmi gli
occhi, versanti tante lacrime, tu che hai libere le braccia per potermelo fare!
E queste spine, figlia mia, non
sono altro che il serto crudele che mi formano le creature coi loro pensieri
cattivi, che si affollano nelle loro menti. Oh, quanto crudelmente essi mi pungono!
Oh, lunga coronazione di nove mesi! E come se questa non bastasse, mi
crocifiggono mani e piedi, giacché mi fanno soddisfare la divina giustizia per
loro, che percorrendo ogni via perversa e commettendo ogni ingiustizia nel
traffico transitorio della vita, passandola[79] in
ogni illecito guadagno; ed in questo stato non mi è possibile poter muovere né
una mano, né un dito, né un piede; sono sempre immobile, sia per la crocifissione
perenne che subisco, sia per lo spazio troppo ristretto in cui vivo. E questa
lunga crocifissione la subii ancora per ben nove mesi! Sai tu, figlia mia,
perché sia la coronazione di spine che la crocifissione mi si rinnovano ad ogni
momento? Perché il genere umano non smette mai di macchinare disegni malvagi e
compiere atti cattivi, i quali, prendendo forma di spine e chiodi, mi
trafiggono con quelle le tempie e con questi ripetutamente mani e piedi”.
E così Gesù nell’affanno e nel
dolore continuava a narrarmi ciò che nella sua piccola umanità soffriva di
pene, dolori e martiri, nel seno materno, il che tralascio per non rendermi
troppo lunga e perché non mi regge il cuore a narrare tutto ciò che il
benedetto Gesù ha sofferto in esso per nostro amore. Io non sapevo far altro
che abbandonarmi ad un dirotto pianto; ma tosto mi scuoteva di nuovo la sua flebile
voce, dicendomi internamente al cuore: “Figlia mia, oh, quanto vorrei
abbracciarti per ricambiarti l’amore penante che senti per me, ma non lo posso
ancora, ché come vedi sono racchiuso in questo piccolo spazio che mi obbliga all’immobilità.
Vorrei venire a te, ma ciò non mi è dato, perché non posso camminare per ora.
Figlia del mio primo amore penante, vieni tu spesso spesso a me ed abbracciami,
che poi, quando uscirò dal seno materno, verrò io a te e allora ti abbraccerò e
starò teco”.
E mentre con la mia fantasia
m’immaginavo di essere con lui nel seno della Mamma, e me lo abbracciavo e me
lo stringevo forte forte al mio cuore tutto addolorato, di nuovo mi faceva
sentire la sua voce, che internamente mi diceva: “Basta così per ora, figlia
mia; passa piuttosto a considerare il quinto eccesso del mio amore, che,
sebbene da tutti vilipeso e messo in non cale, non indietreggia mai, né fa sosta,
bensì sormonta tutto e va sempre avanti”.
Sentendomi chiamare da Gesù a
considerare il quinto eccesso del suo amore, tesi l’orecchio del cuore ad
ascoltare la flebile ma creatrice voce di Gesù, che internamente mi diceva:
“Figlia mia, non ti discostare da me, non mi lasciare solo. Il mio amore brama
essere sempre in compagnia; e questo, sappi, è un altro eccesso del mio amore,
ché come la mia divinità essenzialmente forma l’unione più intima che si possa
dare, così la mia umanità, ipostaticamente unita al mio Verbo eterno, non può
naturalmente non essere portata a deliziarsi della compagnia delle creature.
Notasti che non appena fui
concepito nel seno della mia Mamma, nel tempo stesso concepii alla grazia tutte
le umane creature, affinché concepite in me crescessero al par di me in
sapienza e verità. Ecco perché amo la loro compagnia e voglio stare in continua
corrispondenza d’amore con loro, e spesso spesso comunicare ad esse l’attestato
più palpitante del mio amore. Voglio continuamente essere in soave colloquio
d’amore con loro, per tenerle a giorno delle mie gioie e dei miei dolori; bramo
ancora far loro conoscere che son venuto dal cielo in terra, non per altro fine
che per renderle pienamente felici, e quindi bramo di stare in mezzo a loro
come un fratellino, per riscuotere benevolenza ed amore, per ridare a ciascuna
tutti i miei beni, il mio proprio regno, a costo dei più duri sacrifizi, non
escluso quello della mia morte per la loro vita. Bramo, insomma, trastullarmi
con loro, col colmarle di baci e delle più soavi carezze d’amore. Ma, ahimè,
sappi che in cambio del mio amore non ricevo altro che continui dolori e pene!
Ed infatti, vi è chi svogliatamente ascolta la mia parola di vita eterna; chi
schiva la mia compagnia; vi è chi si svincola dal mio amore, chi mi fugge, chi
fa il sordo, e perciò mi riduco al silenzio; ma vi è di più, chi direttamente
mi disprezza e mi oltraggia. I primi non si curano dei miei beni e del mio
regno, ricambiano i miei baci e carezze con la noncuranza e dimenticanza di me,
e quindi il mio trastullo che dovrei tener [con] loro si riduce al silenzio e
all’abbandono; ma i secondi, che sono i più, convertono il mio amore per loro
in amarissimo pianto, che naturalmente è sfogo del cuore, che non solo non è
appagato, ma bensì vilipeso, sprezzato ed oltraggiato. E dire, poi, che mentre
sono in mezzo a loro, sono sempre solo! Oh, quanto mi pesa la solitudine
forzata che mi procurano esse col loro abbandono, col farsi sorde anche ad una
mia parola, e con l’impedirmi ogni sfogo d’amore! Sono sempre solitario, mesto
e taciturno, perché se parlo non vengo punto ascoltato… Ah, figlia mia, supplisci
tu al defraudato mio amore, col non lasciarmi mai solo in questa mia
solitudine! Dammi il bene di farmi parlare col darmi ascolto, prestando il tuo
orecchio ai miei insegnamenti. Sappi che io sono il maestro dei maestri, e se
tu mi ascolti, oh, quante cose non apprenderai da me, e nel tempo stesso mi
farai cessare dal pianto col farmi teco trastullare. Dimmi, vuoi tu trastullarti
con me?”.
Ed io, dopo di essermi protestata
di essergli sempre fedele, mi abbandonavo in lui, amandolo nella mia più tenera
compassione verso di lui, che pur essendo tanto magnanimo da voler deliziare
con se stesso la creatura, da questa viene lasciato solo, senza alcun sollievo,
e nella più tetra solitudine. Ma mentre così passavo la mia quinta ora di
meditazione, la voce interna del mio Gesù si faceva di nuovo sentire al cuore:
“Basta, basta così; passa ora a considerare il sesto eccesso del mio amore”.
“Figlia mia, sia teco la mia
intimità. Avvicinati sempre più a me, e prega la mia cara Mamma che ti faccia
un po’ di posticino nel suo materno seno, affinché tu stessa possa constatare
lo stato doloroso in cui mi trovo”.
Col pensiero quindi m’immaginavo
che la mia Regina Mamma, a volermi attestare il suo materno e più grande
affetto verso di me, mi facesse congiungere nel suo seno al dolce ed affabile
Gesù, incarnato in lei, e mi raffiguravo come se fossi già nel suo seno,
stretta stretta col mio amabile Gesù. Ma era tale e tanta l’oscurità che ivi
regnava, che mi riusciva affatto impossibile vedere le sue fattezze, ma solo
sentivo il suo infocato sospiro d’amore, mentre nel mio interno seguitava a
dirmi: “Figlia mia, considera un altro eccesso del mio amore. Io sono la luce
eterna, e non vi è altra luce fuor di me più splendente. Considera per poco il
sole, quando è nel suo pieno splendore; eppure esso non è altro che un’ombra
della mia luce eterna. Ebbene, questa mia luce eterna per amore della creatura
si eclissa interamente in me per l’assunta umanità. Vedi tu in che oscura
prigione mi ha ridotto l’amore? Sì, è per amore della creatura che mi sono così
confinato, ad attendere che si faccia uno spiraglio di luce; ma ho dovuto
pazientare per ben nove mesi in sì fitta notte, ma notte senza stelle, senza
riposo, ma sempre desto in attesa della luce del sole che ancora non mi arriva…
Che pena io provo! La strettezza della prigione, che non mi dà campo di potermi
menomamente muovere, mi procura indicibile affanno; la mancanza di luce, che
nulla mi fa vedere ancora, mi dà tanta pena da togliermi fin anche il respiro,
che ricevo languidamente per mezzo del respiro della Mamma. Ma sai tu chi mi ha
tratto in questa prigione, chi mi ha tolto la luce, e chi mi fa sempre più
languire nel mio respiro? È stato l’amore che sento per la creatura; sono le
tenebre delle colpe delle creature, perché ogni colpa è una notte di più per
me; è la durezza del cuore umano, in cui non vi entra alcun ravvedimento; è la
nera ingratitudine, che come mostro infernale mi soffoca il respiro; tutti
assieme mi formano un abisso, senza fondo, di oscurità, di soffocamento, di
dolori inauditi. Che pena! Oh, eccesso del mio amore non corrisposto, tu mi hai
fatto passare da una immensità di luce eterna in una profondità di fitte
tenebre, ed in tale strettezza da farmi mancare la libertà del respiro!”.
Mentre Gesù tutto ciò mi diceva,
gemeva, ma con gemiti soffocati per la ristrettezza dello spazio, ed io mi
stemperavo in lacrime per la compassione, e volevo fargli un po’ di luce col
mio amore, come egli richiedeva. Ma chi può dire ciò che Gesù ed io soffrivamo
a vicenda, per amor delle creature? Ma in tanto dolore e pena, il mio sempre
amabile Gesù fece sentire nell’interno del mio cuore la sua dolce parola:
“Basta così per ora; passa piuttosto al settimo eccesso del mio amore”.
Quindi mi soggiungeva: “Figlia
mia, non volermi lasciare solo in tanta solitudine ed in tanta oscurità; non
voler uscire dal seno della Mamma mia, per ben considerare il settimo eccesso
del mio amore.
Ascoltami: nel seno del mio
celeste Padre io ero pienamente felice; non c’era bene che io non possedessi:
gioia, felicità, tutto era a mia disposizione. Gli angeli, riverenti, mi
prestavano culto di somma adorazione e tutti pendevano dei miei cenni. Ma
l’eccesso del mio amore per il genere umano, potrei dire, mi fece cambiar fortuna.
Mi spogliai di tutte le mie gioie e felicità, mi svestii di tutti i miei beni e
d’ogni celestiale comodità, per vestirmi di tutte le infermità delle creature,
a fine di procurar loro la mia felicità eterna, le mie gioie ed i miei contenti
eterni. Questo cambio, però, sarebbe stato ben lieve per me, se non avessi
trovato in loro la più mostruosa ingratitudine ed ostinata perfidia. Oh, come
il mio eterno amore restò sorpreso innanzi a tanta ingratitudine! Oh, quanta
pena mi dà l’ostinatezza e la perfidia dell’uomo, le quali sono per me più che
spine, le più pungenti al mio cuore, che sin dal mio concepimento ebbe a
soffrire inenarrabili punture, e continuerà sino all’ultimo momento della mia
vita. Guarda, guarda bene il mio cuoricino, in quante spine si trova; osserva
le ferite che gli fanno ed il sangue che a rivi sgorga da esso! Oh, che pena, e
quanti dolori io sento mai!
Figlia mia, non essermi ancor tu
ingrata, giacché l’ingratitudine è la pena più dura e più crudele per il tuo
Gesù. L’ingratitudine è più che chiudermi in faccia la porta del cuore, per
farmi restar fuori, tutto assiderato dal freddo disamorato. Eppure il mio
amore, a tanta perversità del cuore umano, non si è arrestato, anzi si atteggia
ad un altro amore più elevato, che mi fa divenire supplicante, gemente e supplicante
per loro; e questo, figlia mia, è l’ottavo eccesso del mio più possente amore”.
“Figlia mia, non mi lasciar solo;
continua a poggiare le tua testa sul seno della Mamma, che anche dal di fuori
sentirai i miei gemiti e le mie suppliche; ma vedrai che né i miei gemiti, né
le mie suppliche, moveranno a compassione del mio amore l’ingrata creatura, e
mi vedrai allora, ancor piccino, stendere la mia mano come il più povero dei
mendicanti e chiedere per pietà le loro anime, a titolo almeno di elemosina.
Spero che in questo modo potrò attirarmi i loro affetti ed i loro cuori, assiderati
dall’egoismo. Il mio amore, figlia mia, vuol vincere a qualunque costo il cuore
dell’uomo, ed è perciò che vedendo [che] questi, dopo aver usato il settimo
eccesso del mio amore, ne era ancor restio, facendo il sordo col non curarsi né
di me, né dei miei beni, mi son deciso a spingermi più oltre. Il mio amore
avrebbe dovuto arrestarsi innanzi a tanta ingratitudine; ma no, vuole uscire
anche fuori dei suoi limiti, e fin dal seno materno fa giungere la mia voce
supplichevole ad ogni cuore; uso i modi più insinuanti, le parole più dolci e
penetranti e le preghiere più commoventi, per toccare le fibre del cuore umano
e per ottenere… sai tu che cosa? Il cuore delle creature. Ad [essa] dico:
‘Figlia mia, dammi il tuo cuore, che è mio, ed io ti darò tutto ciò che vuoi ed
ancor me stesso, purché mi dia in cambio il tuo cuore. Benché freddo d’amore,
io lo riscalderò al contatto del mio cuore e lo farò andare in fiamme, da far
distruggere in te ogni affetto che non sa di cielo. Se son disceso dal cielo
per incarnarmi nel seno materno, sappi che l’ho fatto appunto per farti
entrare nel seno del mio celeste Padre. Deh, non me lo negare, non rendere
deluse le mie speranze, che per te saranno certezza d’infiniti beni’.
Ciononostante, vedendo la
creatura ancor restia al mio amore, che anzi mi volse le spalle e se ne
allontanò da me, ho cercato di fermarla, e coi gemiti più teneri e supplichevoli,
e congiungendo le mie manine, ho cercato di scongiurarla, dicendole con voce
soffocata da singhiozzi: ‘Deh, vedi, anima mia, che io non sono altro che il
piccolo mendico, che null’altro ti chiede in elemosina che solo il tuo cuore?
Figlia mia, possibile che non voglia tu comprendere che questo mio modo di
agire non è altro che l’eccesso più grande del mio amore non corrisposto? Che
il Creatore, per attirare al suo amore la creatura, prenda la forma di piccolo
bambino, per non incutere timore, e s’induca a chiedere [in] elemosina il
deformato suo cuore, e vedendola ricalcitrante e restia a non volerglielo dare,
la prega, la supplica, geme e piange…, non ti muove a compassione? Non rammollisce
il tuo cuore?’. Eppure, figlia mia, la creatura ragionevole pare che abbia
perduto affatto l’uso di ragione, ché mentre dovrebbe restare annegata nelle
fiamme del mio divino amore, cerca invece di disfarsene, per andare in cerca
dei più bestiali amori, per cui dovrà precipitare nel caos infernale, in cui a
mille doppi piangerà in eterno”.
A queste parole di Gesù mi
sentivo tutta intenerire e nel tempo stesso raccapricciare e rabbrividire,
pensando all’umana ingratitudine, e poi alle tristissime conseguenze eterne e
irreparabili. Mentre ero immersa in questa duplice considerazione, la voce del
mio Gesù internamente si fece sentire nel mio cuore così: “E tu, figlia mia,
non vorresti darmi il tuo cuore? Vorresti tu forse che anche per te io pianga e
mi stemperi in gemiti e suppliche, affine di ottenere il possesso del tuo
cuore?”. Ma mentre Gesù mi diceva tutto ciò singhiozzando, preso il mio cuore
da un’ineffabile tenerezza per il non corrisposto suo amore, e tutto palpitante
dal più vivo e non mai sentito amore, gli risposi: “Mio diletto Gesù, non piangere
più; sì, sì che ti ridono non solo il mio cuore, ma tutta me stessa. Non esito
a dartelo, ma per renderti un dono più gradito vorrei prima togliere dal freddo
cuore mio, tutto ciò che non è tuo. Dammi perciò la grazia efficace per
renderlo simile al tuo, affinché [tu vi] possa prendere stabile e perenne dimora”.
Dopo ciò, Gesù senz’altro
aggiunse: “Figlia mia, è tempo che per ora passi più oltre. Entra a considerare
il nono eccesso del mio amore”.
“L’attuale mio stato, figlia mia,
si fa sempre più doloroso. Se tu mi ami, procura che il tuo sguardo sia sempre
fisso in me, affinché possa ben apprendere tutto ciò che ti ho insegnato, affin
di apprestare al tuo piccolo Gesù un qualche sollievo alle tante pene che soffre;
fosse anche una tua parola di amore, una tua carezza o un affettuoso bacio,
affinché il mio cuore abbia il dolce contento di sentirsi corrisposto con
amore, che darà tregua al mio amarissimo pianto ed alle dure afflizioni che qui
soffro. Senti, figlia mia, l’uomo, dopo d’avergli dato tante prove di amore
mercé gli otto eccessi del mio amore, avrebbe dovuto piegarsi al contatto del
vero e sublime mio amore, ma invece mi contraccambia sì malamente da farmi così
passare ad un altro eccessivo amore, che per me sarà il più doloroso se non
verrò corrisposto.
L’uomo sinora non si è dato per
vinto, ed è perciò che all’ottavo eccesso di amore faccio seguire il nono, che
consiste tutto nelle ansie, le più amorose, nei sospiri più infuocati di amore
per lui, e nei desideri più ardenti di volermi poter sprigionare dal seno
materno, affin di corrergli dietro, e dopo averlo fermato sulla china del male,
bramo abbracciare e baciare quest’uomo ingrato del mio amore, per far che
s’innamori della mia bellezza, della mia verità e dei miei beni eterni, dei
quali voglio renderlo eterno possessore ad ogni costo. Questo mio inestimabile
disegno riduce la mia piccola umanità, non ancor nata, ad un’agonia tale, da
farmi giungere all’ultimo anelito della mia vita, che se non fosse stata
soccorsa e sostenuta dalla mia divinità, che da lei è inseparabile per l’unione
ipostatica, già a quest’ora avrebbe esalato l’ultimo suo respiro. La divinità,
comunicandole continuamente dolci sorsi di novella vita, la fa resistere alla
continuata agonia di nove mesi, che si direbbero mesi più di morte che di vita.
Questo, figlia mia, è il nono
eccesso del mio amore, che non fu altro se non che un continuo agonizzare sin
dal primo istante in cui la mia divinità entrò in questo seno materno, per
prendere le spoglie umane, per ivi nascondere l’essenza della stessa mia
divinità, altrimenti invece di amore incuterei timore alla creatura che vuole
sposarsi al mio amore. Ma, ahimè, che lunga agonia non fu per me, quella di
aspettare per ben nove mesi questa creatura! Oh, come l’amore mi soffoca e mi
riduce ad un continuo morire! Ti ripeto, figlia mia, che se la mia umanità non
avesse avuto dalla divinità aiuto e forza a sostenere l’amore immenso che tutto
mi divora, si sarebbe purtroppo incenerita e consumata per l’amore operante,
che mi ha fatto addossare l’enorme fardello delle pene dovute ad ogni creatura,
insieme alle soddisfazioni richieste dalla divina giustizia e all’amore
supplicante, gemente e supplicante, che cosa mai? Il cuore freddo ed
insensibile delle creature. Ecco perché la mia vita nel seno materno si è resa
tanto dolorosa, da non sentirmi più capace di star lontano dalla creatura.
Bramo ad ogni costo di avvicinarla al mio seno, per farle sentire i miei
palpiti infocati d’amore; di abbracciarla col mio più tenero e sviscerato
affetto, affin di renderla padrona dei miei beni eterni... E sappi che se non
venissi or ora da te sollevato, prima ancora che potessi uscire alla luce del
giorno resterei affatto consumato dall’eccesso di questo mio novello amore.
Guardami fisso fisso nel seno materno, e vedi come son divenuto pallido
pallido; ascolta la mia voce che si rende, al par di un agonizzante, sempre più
flebile; senti il palpito del mio cuore che, tanto accelerato nel suo battito,
ora è quasi senza pulsazione. Guardati dal divagare lo sguardo da me, perché,
osservami bene, io mi sento che adesso adesso io muoio… Sì, io muoio, e muoio
di puro amore!”.
In questo mentre ancor io sentii
venirmi meno la vita per amor di Gesù, e perciò si fece da entrambi profondo
silenzio, silenzio sepolcrale. Il mio sangue si agghiacciò ed arrestò nelle mie
vene, tanto che il mio cuore non me lo sentii più battere nel petto; il respiro
mi venne meno, e tutta tremante stramazzai di peso sulla nuda terra. In
quell’assopimento mortale soltanto la mia lingua balbettava: “Gesù mio..., amor
mio..., vita mia..., mio tutto, non morire, che io sempre t’amerò…, mai più,
mai più ti lascerò, a costo pure di qualsiasi sacrifizio. Dammi però sempre le
fiamme del tuo amore, per poterti sempre più amare e consumarmi al più presto,
tutta tua, di amore per te, sommo ed eterno mio bene”.
Allora sì, posso dire che mi
sentii più che morta per amore del mio Gesù, il quale, già nato per questa
nostra vita di morte, per farci prima assoggettare alla morte della nostra
volontà e poscia a quella vera vita e vita eterna, al suo primo tocco mi fece
rinvenire dall’assopimento in cui ero caduta, pronunziando queste soavissime
parole: “Figlia, rinata per il mio amore, su, levati alla vita della mia grazia
e del mio amore; corrispondimi in tutto, e come mi hai affatto compagnia con le
nove considerazioni sull’eccesso del mio amore, lungo la novena della mia
natività, così continua a fare altre ventiquattro considerazioni circa la mia
passione e morte di croce, distribuendole nelle 24 ore della giornata, nelle
quali scorgerai altri eccessi più sublimi del mio amore, e mi sarai di continuo
sollievo nelle dolorosissime pene che mi vengono dalle ingrate creature; ed in
vita sarai del tutto amante della mia sepoltura, ed in morte avrai l’ottima parte
della mia gloria”.
J.M.J.
VOLUME 3°
Trovandomi nel solito mio stato
mi son trovata fuori di me stessa, dentro di una chiesa, ed ivi c’era un
sacerdote che celebrava il Divin Sacrificio; e mentre ciò faceva, piangeva amaramente e diceva: “La colonna della
mia Chiesa non ha dove poggiarsi”.
Nell’atto che ciò diceva ho visto
una colonna, la cui cima toccava il cielo, e al disotto di questa colonna
stavano sacerdoti, vescovi, cardinali e tutte le altre dignità, che sostenevano
detta colonna; ma con mia sorpresa ho fatto per guardare e ho visto che, dette
persone, chi era molto debole, chi mezza marcita, chi inferma, chi piena di
fango; scarsissimo era il numero di quelle che si trovavano in stato di
sostenerla. Sicché questa povera colonna, tante erano le scosse che riceveva al
disotto, che tentennava senza potere star ferma.
Al di sopra di detta colonna vi
era il Santo Padre che, con catene d’oro e coi raggi che tramandava da tutta la
sua persona, faceva quanto più poteva a sostenerla, ad incatenare ed illuminare
le persone che dimoravano al disotto, benché qualcuno se ne fuggiva per avere
più agio a marcire ed infangarsi, non solo, ma a legare e illuminare tutto il
mondo.
Mentre ciò vedevo, quel sacerdote
che celebrava la messa — sto in dubbio se fosse sacerdote oppure Nostro
Signore, ma pare che fosse Gesù Cristo, ma non so dire di certo — mi ha
chiamato vicino a sé e mi ha detto: “Figlia mia, vedi in che stato lacrimevole
si trova la Chiesa; quelle stesse persone che dovevano sostenerla vengono meno,
e con le loro opere l’abbattono, la percuotono e giungono a degradarla. L’unico
rimedio è che faccia versare tanto sangue da formare un bagno, per poter lavare
quel marcioso fango e sanare le loro piaghe profonde, imperocché sanati,
rafforzati, abbelliti in quel sangue, possano essere strumenti abili a
mantenerla stabile e ferma”.
Poi ha soggiunto: “Io ti ho
chiamata per dirti: ‘Vuoi tu essere vittima e così essere come un puntello per
sostenere questa colonna in tempi sì incorreggibili?’”
Io in principio mi son sentita
correre un brivido per timore [che] ancora non avessi la forza, ma poi subito
mi sono offerta ed ho pronunziato il Fiat. In questo mentre mi son
trovata circondata da tanti santi, angeli e anime purganti, che con flagelli ed
altri strumenti mi tormentavano; ed io sebbene in principio avvertivo un
timore, poi quanto più soffrivo tanto più mi veniva la voglia di patire e
gustare il patire come un dolcissimo nettare; e questo molto più ché mi ha
toccato un pensiero: “Chi sa che quelle pene potessero essere mezzi come
consumare la vita e così poter spiccare l’ultimo volo verso il mio sommo e
unico Bene. Ma con sommo mio rammarico, dopo aver sofferto acerbe pene, ho
visto che quelle pene non mi consumavano la vita. Oh, Dio, che pena che questa
fragile carne mi impedisce d’unirmi col mio Bene eterno!
Dopo ciò, ho visto la sanguinosa
strage che si faceva di quelle persone che stavano al di sotto della colonna.
Che orribile catastrofe! Scarsissimo era il numero che non rimaneva vittima,
giungevano a tale ardimento che tentavano di uccidere il Santo Padre. Ma poi
pareva che quel sangue sparso, quelle sanguinose vittime straziate, erano mezzi
come rendere forti quelli che rimanevano, in modo da sostenere la colonna senza
farla più tentennare. Oh, che felici giorni dopo ciò spuntavano! Giorni di
trionfi e di pace, la faccia della terra pareva rinnovata, la detta colonna
acquistava il suo primiero lustro e splendore. Oh, giorni felici! Da lungi io
vi saluto, ché tanta gloria darete alla mia Chiesa e tanto onore a quel Dio che
ne è il capo!
Questa mattina il mio amabile
Gesù è venuto, mi ha trasportato fuori di me stessa, dentro d’una chiesa, ed è
scomparso; ed io sono rimasta sola. Ora trovandomi alla presenza del Santissimo
Sacramento ho fatto la mia solita adorazione, ma mentre ciò facevo mi pareva
che fossi divenuta tutt’occhi per vedere se potessi scorgere il dolce Gesù. In
questo mentre l’ho visto sopra l’altare, da bambino, che mi chiamava con la sua
graziosa manina. Chi può dirne il contento? Sono volata da lui, e senza pensare
ad altro l’ho stretto fra le mie braccia e l’ho baciato. Ma nell’atto di far
ciò, ha preso un aspetto serio, mostrava di non gradire i miei baci ed ha
incominciato a respingermi. Io, ciò non curando, seguitavo e gli ho detto:
“Carino mio bello, l’altro giorno
volesti tu sfogarti con me coi baci e con gli abbracci, ed io ti diedi tutta la
libertà; oggi voglio teco sfogarmi anch’io; deh, dammi la libertà!” Ma lui
seguitava a respingermi, e vedendo che io non cessavo è scomparso.
Chi può dire quanto son rimasta
mortificata e impensierita nel trovarmi in me stessa! Ma dopo poco è ritornato,
ed io, volendo chiedergli perdono delle mie impertinenze, mi ha perdonato col
volersi lui sfogare con me; e mentre mi baciava mi ha detto: “Diletta del cuor
mio, la mia Divinità abita in te abitualmente, e siccome tu vai inventando
nuove cose per farmi deliziare con te, così io per renderti la pariglia uso
nuovi modi come farti deliziare con me”.
Con ciò ho capito che è stato uno
scherzo che Gesù voleva fare.
Siccome questa mattina il
benedetto Gesù non ci veniva, il demonio cercava di prendere la sua forma e
farsi vedere; ma io non avvertendo i soliti effetti ho incominciato a dubitare
e mi son segnata con la croce, prima io e poi lui[1],
e il demonio vedendosi segnato tremava; subito l’ho respinto da me senza
mirarlo. Dopo poco è venuto il mio caro Gesù, e temendo che fosse un’altra
volta lo spirito maligno cercavo di respingerlo e d’invocare l’aiuto di Gesù e
della Regina Mamma. Ma lui, per assicurarmi che non era il demonio, mi ha
detto:
“Figlia mia, la tua attenzione
per rassicurarti se sono io o no, dev’essere dagli effetti interni, se si
muovono a virtù o a vizi, imperciocché, siccome la mia natura è virtù, non di
altro faccio eredi i miei figli che di virtù. E questo puoi anche comprenderlo
sopra la[2]
natura umana, che essendo carne, se avviene che fa qualche piaga, la carne si
cambia in marcia, e si può dire che non è più carne; così la mia natura, se
menomamente potesse ritenere in sé l’ombra del vizio cesserebbe d’essere quel
Dio che è, ciò che non può mai succedere”.
Questa mattina essendo venuto
l’adorabile Gesù e trasportandomi fuori di me stessa, mi ha fatto vedere strade
piene di carne umana. Che carneficina spietata, fa orrore a pensarlo! Poi mi ha
fatto vedere che succedeva una cosa nell’aria, e molti ne morivano
all’improvviso, e questo lo vidi pure dal mese di marzo.
Io ho incominciato, secondo il
solito, a pregarlo che si placasse e che risparmiasse le sue stesse immagini da
supplizi sì crudeli, da guerre sì sanguinose; e siccome teneva la corona di
spine gliel’ho tolta per mettermela io, e ciò per placarlo maggiormente. Ma con
mio sommo rammarico ho visto che le spine rimanevano quasi tutte spezzate nella
sua santissima testa, sicché pochissimo rimaneva a me da soffrire. Gesù si
mostrava severo, senza quasi darmi retta; mi ha trasportata di nuovo nel letto,
e siccome io mi trovavo con le braccia in croce soffrendo i dolori della
crocifissione che lui stesso mi aveva prima partecipato, ha preso le mie
braccia e me le ha unite insieme, legandole con una cordicella di oro. Io non
badando che cosa volesse ciò significare, per spezzare quell’aria severa che
teneva gli ho detto:
“Dolcissimo amor mio, ti offro
questi movimenti del mio corpo che voi stesso mi avete fatto, e tutti gli altri
che posso fare io, per il solo fine di piacervi e glorificarvi. Ah, sì! Vorrei
che anche i movimenti delle palpebre dei miei occhi, delle mie labbra e di
tutta me stessa, fossero fatti al solo fine di piacere a voi solo. Fate, o buon
Gesù, che tutte le mie ossa, i miei nervi, risuonassero fra loro ed a chiare
voci vi attestassero il mio amore”.
E lui mi ha detto: “Tutto ciò che
si fa per il solo fine di piacermi, risplende innanzi a me d’una maniera tale
da attirare i miei sguardi divini, e mi piacciono tanto che a quelle azioni,
fossero anche un muovere di ciglia, ne do il valore come se fossero fatte da
me. Invece quelle altre azioni in sé stesse buone ed anche grandi, fatte non
per me solo, sono come quell’oro infangato e pieno di ruggine, che non
risplende, ed io non mi benigno neppure di guardarle”.
Ed io: “Ah, Signore, quanto è
facile che la polvere imbratti le nostre azioni!”
E lui: “Alla polvere non bisogna
badare, perché si scuote, ma quello che bisogna badare è all’intenzione”.
Ora mentre ciò si diceva, Gesù si
occupava a legarmi le braccia; io gli ho detto: “Deh, Signore, che fate?”
E lui: “Faccio questo, ché tu
stando in quella posizione della crocifissione mi vieni a placare, ed io siccome
voglio castigare le genti te le sto legando”.
E detto ciò è scomparso.
Dopo aver passato parecchi giorni
in contrasti con Gesù, che io volevo essere sciolta, e lui che non voleva, or
si faceva vedere che dormiva, or mi imponeva silenzio, finalmente questa
mattina, mentre l’ho visto, vedevo il confessore che assolutamente mi comandava
che mi facessi sciogliere da Gesù. E questo più d’una volta; ma Gesù non dava
retta. Io però, costretta dall’ubbidienza, gli ho detto: “Mio amabile Gesù,
quando mai vi siete opposto all’ubbidienza? Non sono io che voglio essere
sciolta, è il confessore che vuole che mi facciate soffrire la crocifissione;
perciò arrendetevi a questa virtù tanto a voi
prediletta, che inanella la vostra vita e che formò l’ultimo anello
congiungendo tutto in uno: il sacrificio della croce”.
E Gesù: “Tu proprio mi vuoi fare
violenza toccandomi quell’anello che congiunse la Divinità e l’umanità, e formò
un solo anello, qual è l’ubbidienza”.
E mentre ciò diceva ha preso
l’aspetto di crocifisso, e quasi forzato dalla potestà sacerdotale mi ha
partecipato i dolori della crocifissione. Sia sempre benedetto il Signore e sia
il tutto a gloria sua! Così pare che sono stata sciolta.
Trovandomi nel solito mio stato,
mi sono trovata fuori di me stessa e mi pareva che girassi la terra. Oh, come
era inondata d’ogni sorta di iniquità! Fa orrore a pensarlo! Ora mentre giravo,
sono giunta ad un punto ed ho trovato un sacerdote di santa vita, e ad un altro
punto una vergine di vita intemerata e
santa. Ci siamo uniti tutti e tre ed abbiamo preso il discorso sui tanti
castighi che il Signore sta facendo e tanti altri che tiene preparati. Io ho
detto loro: “E voi che fate? Vi siete forse conformati alla divina giustizia?”
E quelli: “Vedendo la stretta
necessità di questi tristi tempi e che l’uomo non si arrenderebbe né se uscisse
un apostolo né se il Signore inviasse un altro San Vincenzo Ferrer, che con i
miracoli e segni portentosi lo potesse indurre alla conversione, anzi l’uomo è
giunto a tale ostinazione e ad una specie di pazzia che la stessa forza dei
miracoli li renderebbe più increduli, onde, investiti da questa strettissima
necessità, per il bene loro e per arrestare questo mare marcioso che inonda la
faccia della terra e per gloria del nostro Dio, tanto oltraggiato, ci siamo
conformati alla giustizia. Solo stiamo pregando e offrendoci vittime, per fare
che questi castighi riuscissero per la
conversione dei popoli. E tu che fai? Non ti sei conformata con noi?”
Ed io: “Oh, no! Non posso, ché
l’ubbidienza non vuole, sebbene Gesù vuole che mi uniformassi, ma siccome
l’ubbidienza deve prevalere su tutto, mi conviene stare sempre in contrasto con
Gesù benedetto, cosa che molto mi affligge”.
E quelli: “Quando è ubbidienza,
sicuro che non bisogna aderire”.
Dopo ciò, trovandomi in me
stessa, quando ho appena visto il carissimo Gesù, ed io volevo sapere di quali
parti fossero quel sacerdote e quella vergine, e lui mi ha detto che erano del
Perù.
Questa mattina l’amabile Gesù mio
è venuto e mi ha trasportata fuori di me
stessa, e vedevo come se dovesse
dal cielo smuoversi una cosa e toccare la terra. Sono restata tanto spaventata
che ho gridato, e gli ho detto:
“Deh, deh, Signore, che fai?
Quanta ruina succederà, se ciò succede! Mi dici che mi vuoi bene e mi vuoi far
prendere paura? Mai visto! Non lo fare; no, no! Non puoi farlo, che io non lo
voglio”.
E Gesù, tutto compassionandomi mi
ha detto: “Figlia mia, non aver timore; e poi, quando mai vuoi tu che io faccia
niente? Non devo farti vedere niente quando castigo le genti, altrimenti mi
leghi dappertutto. Ebbene fortificherò il tuo cuore e farò spuntare da esso
come un tronco da poter mantenere fermo ciò che tu vedi, e poi verserò in te
tante grazie in modo da potermi nutrire io ed i miei figli”.
In questo mentre è uscito da
dentro il mio cuore come un tronco, ed alla cima come due rami a modo di forca,
che sollevandosi in aria, [uno] prendeva in mezzo ciò che stava per smuoversi
[e] così restava fermo, solo, ad un punto lontano; l’altro pareva che toccava
la terra. Dopo mi son trovata in me stessa e l’ho pregato[3]
che si placasse, e pareva piuttosto che si arrendesse, tanto che mi ha partecipato
i dolori della croce; ed è scomparso.
Questa mattina il mio adorabile
Gesù pareva irrequieto; non faceva altro che andare e venire, or si tratteneva
con me, or, quasi tirato dal suo ardentissimo amore verso le creature, andava a
vedere ciò che facevano, e tutto si condoleva di ciò che soffrivano come se lui
stesso, e non loro, fosse preso da quelle sofferenze. Parecchie volte ho visto
il confessore che con la sua potestà sacerdotale costringeva Gesù a farmi soffrire
le sue pene per poter placarlo; e lui, mentre pareva che non voleva essere
placato, dopo si mostrava grato, ringraziava di cuore chi si occupava a
mantenere il suo braccio sdegnato; ed or mi partecipava una sofferenza ed or
un’altra. Oh, come era tenero e commovente vederlo in questo stato! Faceva
spezzare il cuore per compassione. Parecchie volte mi ha detto:
“Conformati alla mia giustizia che
più non posso. Ah, l’uomo è troppo ingrato e quasi mi costringe da tutte le
parti a castigarlo; me li strappa lui stesso dalle mie mani i castighi. Se tu
sapessi quanto soffro nel fare uso della mia giustizia! Ma è l’uomo stesso che
mi fa violenza. Ahi, se non avessi fatto
altro che comperare a prezzo di sangue la sua libertà, pure mi doveva
essere riconoscente[4],
ma quello per farmi maggior torto va inventando nuovi modi come rendere inutile
il mio sborso”.
E mentre ciò diceva, piangeva
amaramente. Ed io per consolarlo gli ho detto: “Dolce mio Bene, non vi
affliggete; veggo che la vostra afflizione è più che[5]
vi sentite costretto di castigare le genti. Ah, no, non sarà mai! Se voi siete
tutto per me, io voglio essere tutta per voi, quindi sopra di me manderete i
flagelli; qui c’è la vittima, sempre pronta ed a vostra disposizione. Potete
farmi soffrire ciò che volete, e così resterà la vostra giustizia in qualche
modo placata e voi sollevato nell’afflizione che prendete a veder soffrire le
creature. È stata sempre questa la vostra
intenzione: di non conformarmi alla giustizia perché soffrendo l’uomo
soffrirete[6]
più voi che lui stesso”.
Mentre stavo ciò dicendo, è
venuta la nostra Mamma Regina ed io mi son ricordata che, avendo domandato al
confessore l’ubbidienza di conformarmi alla giustizia, mi aveva detto che
domandassi alla Vergine Santissima se voleva che mi uniformassi. Gliel’ho detto
e lei mi ha detto: “No, no, ma prega figlia mia; e in questi giorni cerca per
quanto puoi di tenerlo insieme [con te] e di placarlo, che molti castighi
stanno preparati”.
Continua l’amabile Gesù mio a
farsi vedere afflitto. Questa mattina insieme con lui è venuta la nostra Regina
Mamma e mi pareva che lei me lo portasse affinché l’avessi placato e pregato,
insieme con lei, che avesse fatto soffrire me per risparmiare le genti; e mi ha
detto che se in questi giorni passati non mi avesse interposta e il confessore
non avesse fatto uso della potestà sacerdotale a concorrere con le sue intenzioni
di farmi soffrire, molte catastrofi sarebbero successe.
In questo mentre ho visto il
confessore ed io subito ho pregato, per lui, Gesù e la Regina Madre; e Gesù
tutto benignità ha detto: “A misura che si prenderà cura dei miei interessi,
col pregarmi ed anche con l’impegnarsi di rinnovare l’intenzione di farti
soffrire a scopo di risparmiare le genti, prenderò cura di lui e lo
risparmierò. Io sarei pronto a fare questo patto con lui”.
Dopo ciò ho fatto per guardare il
mio dolce ed unico Bene, ed ho visto che nelle sue mani teneva due fulmini; in
una conteneva come allestito un terremoto forte ed una guerra; nell’altra,
tante specie di morti all’improvviso e malattie contagiose. Io l’ho cominciato
a pregare che sopra di me versasse quei fulmini e quasi li volevo togliere
dalle sue mani, ma lui per non farmi giungere a questo ha cominciato ad allontanarsi
da me; ed io cercavo di seguirlo e perciò mi son trovata fuori di me stessa.
Gesù mi è scomparso ed io son
rimasta sola. Or trovandomi sola ho girato un poco, e mi son trovata in parti
dove in questa stagione fanno la mietitura. Pareva che là succedevano fracassi
di guerre, ed io volevo andare per aiutare quelle povere genti; ma i demoni mi
impedivano d’andare dove stavano succedendo e per succedere tali cose, e mi
battevano acciò non potessi aiutare, ed anche impedire i loro artifizi, ed
hanno usata tanta forza da farmi retrocedere indietro.
Continua il mio adorabile Gesù a
venire; e siccome la mia mente, prima di venire[7]
[Gesù], stava pensando a certe cose che negli anni passati Gesù mi aveva detto
e che non tanto ricordo bene, lui, quasi per ricordarmi, mi ha detto:
“Figlia mia, la superbia rode la
grazia; nei cuori dei superbi non v’è altro che un vuoto tutto pieno di fumo
che produce la cecità. La superbia non fa altro che rendere sé stesso un idolo;
sicché l’anima superbiosa, in sé non ha il suo Dio; col peccato ha cercato di
distruggerlo nel suo cuore, ed alzando l’altare nel suo cuore, vi si mette
sopra e adora sé stessa”.
O Dio, che mostro abominevole è
questo vizio! A me sembra che se l’anima sta attenta a non farla entrare in sé,
è libera da tutti gli altri vizi; ma se per sua sventura si lascia dominare da
essa, siccome madre mostruosa e cattiva, le partorirà tutti i suoi figli
discoli, quali sono gli altri peccati. Ah, Signore, tenetela da me lontano!
Questa mattina il mio
dilettissimo Gesù, appena venuto, mi ha
detto: “Figlia mia, tutto il tuo piacere dev’essere nel rimirarti in
me, e se ciò farai sempre, ritrarrai in te tutte le mie qualità, la mia
fisionomia, i miei stessi lineamenti, ed io, in contraccambio, tutto il mio
gusto e sommo contento sarà nel dilettarmi di rimirarmi in te”.
Detto ciò è scomparso ed io stavo
ruminando nella mia mente le parole già dette. Tutto all’improvviso è
ritornato, mettendomi la sua mano in capo, rivolgendomi la faccia verso di lui
ha soggiunto: “Oggi voglio dilettarmi un poco col rimirarmi in te”.
Un brivido mi è corso per tutta
la vita, uno spavento da sentirmi morire, perché vedevo che mi guardava fissa
fissa volendosi dilettare nei miei pensieri, sguardi, parole ed in tutto il
resto, col rimirarsi in me. “Oh, Dio, sono oggetto io di far prendere diletto o
di amareggiarvi?”, andavo ripetendo nel mio interno.
In questo mentre è venuta la
nostra cara Mamma Regina in mio aiuto, portando una veste bianchissima fra le
mani, e tutta amabilità mi ha detto: “Figlia mia, non temere, voglio io stessa
supplire per te vestendoti della mia innocenza così mio Figlio, rimirandosi in
te, possa trovare il maggior diletto che si possa trovare in umana creatura”.
Onde mi vestì con quella veste, e
mi offriva al mio caro bene Gesù dicendogli: “Accettatela per riguardo mio, o
caro Figlio, e dilettatevi in essa”.
Così mi è passato ogni timore, e
Gesù si dilettava in me ed io in lui.
Questa mattina il mio dolce Gesù
è venuto e mi ha trasportata fuori di me stessa. Ora, siccome l’ho veduto tutto
ripieno d’amarezza, l’ho pregato e ripregato che la riversasse in me; ma per
quanto ho potuto pregare non mi è riuscito di ottenere che versasse in me le
sue amarezze, solo che, siccome mi avvicinavo alla sua bocca per ricevere le
sue amarezze, ci[8]
veniva un alito amaro. Mentre io ciò facevo, vedevo un sacerdote che moriva, ma
non ho conosciuto bene chi fosse perché pareva l’altra intenzione di pregare
per un sacerdote infermo, ma non scorgendolo per quello[9],
mi son confusa se fosse quello o qualche altro. Onde ho detto a Gesù: “Signore,
che fai? Non vedi tu quanta scarsezza di sacerdoti vi è a Corato, che vuoi
toglierci degli altri?”
E Gesù, non dandomi retta e
minacciando con la mano, diceva: “Li distruggerò, li distruggerò di più”.
Trovandomi molto sofferente,
l’amabile mio Gesù è venuto e mi ha messo il braccio da dietro il collo in atto
di sostenermi. Ora stando a lui vicina ho incominciato a fare le mie solite
adorazioni a tutte le sue sante membra, incominciando dalla sua sacratissima
testa. Nell’atto che ciò facevo mi ha detto: “Diletta mia, ho sete; fammi
dissetare nel tuo amore che più non posso trattenermi”.
E prendendo aspetto di bambino si
è menato fra le mie braccia e si è messo a succhiare; pareva che ci prendeva
un gusto graditissimo e ne restava tutto ristorato e dissetato. Dopo ciò,
volendo quasi scherzare con me, con una lancia che teneva in mano mi passava il
cuore da banda a banda. Io sentivo acerbissimo dolore, ma oh, come ero contenta
di soffrire, specialmente ché erano le stesse mani del mio solo ed unico Bene
che mi davano da patire! E l’incitavo a farmi maggiore strazio, tanto era il
gusto e la dolcezza che vi sentivo. Gesù benedetto per rendermi più contenta mi
ha strappato il cuore prendendolo fra le sue mani, e con quella stessa lancia
lo ha aperto metà e metà, ed ha trovato una croce risplendente e bianchissima.
L’ha presa tra le sue mani compiacendosi grandemente e mi ha detto: “Questa
croce l’ha prodotta l’amore e la purità con cui tu soffri. Mi compiaccio tanto
del modo con cui tu soffri che non solo io, ma chiamo il Padre e lo Spirito
Santo a compiacersi meco”.
In un istante ho fatto per
guardare ed ho visto Tre Persone che circondandomi si dilettavano nel guardare
questa croce. Io però, lamentandomi con loro, ho detto: “Grande Iddio, troppo
scarso è il mio patire; non son contenta della sola croce, ma voglio ancora le
spine ed i chiodi, e se non lo merito, perché indegna e peccatrice, voi certo
potete darmi le disposizioni per ciò meritare”.
E Gesù dandomi un raggio di luce
intellettuale mi ha fatto capire che voleva che io facessi la confessione delle
mie colpe. Mi sentivo quasi atterrare innanzi alle Tre Divine Persone, ma l’umanità
di Nostro Signore m’ispirava fiducia, sicché pure a lui rivolgendomi ho detto
il Confiteor e dopo ho incominciato a fare la confessione delle mie
colpe.
Ora mentre mi trovavo tutta
immersa nelle mie miserie, una voce è uscita da mezzo a loro che diceva: “Ti
perdoniamo, e tu non più peccare”. Io mi aspettavo di ricevere l’assoluzione di
Nostro Signore, ma nel meglio è scomparso. Poco dopo è ritornato crocifisso e
mi ha partecipato i dolori della croce.
Questa mattina il mio caro Gesù
non veniva. Dopo molti stenti, quando appena l’ho visto[10];
ed io lamentandomi con lui della sua tardanza gli ho detto: “Signore benedetto,
come così tardi? Vi siete forse dimenticato che non posso stare senza di voi?
Ho forse perduto la vostra grazia, che non ci venite?”
E lui interrompendo il mio dire
lamentevole, mi ha detto: “Figlia mia, sai tu che cosa fa la mia grazia? La mia
grazia rende felice l’anima dei beati comprensori e rende felice l’anima dei
viatori, con questa sola differenza, che i comprensori beandosi e
deliziandosi, e i viatori lavorando e mettendola
a traffico. Sicché chi possiede la grazia ritiene in sé stessa il
paradiso, perché la grazia non è altro che possedere me stesso, ed essendo io
solo l’oggetto incantevole che incanta tutto il paradiso, che forma tutti i
contenti dei beati, l’anima possedendo la grazia, dovunque si trova possiede il
suo paradiso”.
Il mio diletto Gesù è venuto
tutto affabilità. Mi pareva come un intimo amico che fa tante cerimonie all’altro
amico per attestargli il suo amore. Le prime parole che mi ha detto sono state:
“Diletta mia, se tu sapessi quanto ti amo! Mi sento tirato grandemente ad
amarti. Gli stessi miei indugi nel venire, mi sforzano e sono nuove cause di
farmi venire a colmarti di nuove grazie e carismi celesti. Se tu potessi
comprendere quanto ti amo, il tuo amore paragonato col mio appena lo scorgeresti”.
Ed io: “Mio dolce Gesù, è vero
ciò che dite, ma anche io sento che vi amo assai; e voi dite che il mio amore
paragonato al vostro appena si scorge, questo è perché il vostro potere è senza
limiti ed il mio è limitato; e per tanto posso fare, per quanto da voi stesso
mi vien dato. È tanto vero ciò, che quando mi viene la volontà di più soffrire
per maggiormente attestarvi il mio amore, se voi non me le concedete le pene,
non sta in mio potere il soffrire e son costretta a rassegnarmi anche in questo
ed essere quell’essere inutile che da me sono stata sempre. Invece a voi stava
in vostro potere lo stesso patire, ed in qualche[11]
modo volete manifestarmi il vostro amore, già lo potete fare. Diletto mio,
datemi a me il potere e poi vi farò vedere quanto so fare per amor vostro,
perché quella misura che mi date, quella stessa misura vi darò”.
Lui ascoltava con sommo piacere
il mio dire spropositato, e quasi volendomi mettere a prova mi ha trasportata
fuori di me stessa, vicino ad un luogo profondo, pieno di fuoco liquido e
tenebroso; metteva orrore e spavento al solo vederlo. Gesù mi ha detto: “Qui
v’è purgatorio e molte anime ci sono ammassate in questo fuoco. Andrai tu in
questo luogo a soffrire per liberare quelle anime che piacciono a me; e questo
lo farai per amor mio”.
Io subito, sebbene un po’
tremando, gli ho detto: “Tutto per amor vostro, son pronta; ma ci dovete venire
voi insieme, altrimenti se mi lasciate non vi fate più trovare e poi mi fate
piangere ben bene”.
E lui: “Se vengo io insieme, qual
sarebbe il tuo purgatorio? Quelle pene, con la mia presenza, per te si cambierebbero
in gioie ed in contenti”.
Ed io: “Sola non ci voglio
andare; e poi mentre andremo in quel fuoco, voi vi starete dietro le mie
spalle, così non vi vedo e verrò a soffrire”.
Così sono andata in quel luogo
ripieno di dense tenebre, e lui che mi seguiva da dietro; ed io per timore
ancora [che] mi lasciasse, gli ho preso le mani, tenendole strette alle mie
spalle. Giunta laggiù, chi può dire le pene che soffrivano quelle anime? Sono
certo inenarrabili a persone vestite d’umana carne. Onde andando io in quel
fuoco, esso distruggevasi e si diradavano le tenebre, e molte [anime] ne
uscivano ed altre ne restavano sollevate. Dopo esser stati circa un quarto d’ora,
ne siamo usciti, e Gesù tutto si lamentava.
Io subito ho detto: “Ditemi, mio
Bene, perché vi lamentate? Cara mia vita, sono stata io forse la causa, perché
non ho voluto andare sola in quel luogo di pene? Ditemi, ditemi; avete sofferto
molto nel veder quelle anime soffrire? Che cosa vi sentite?”
E Gesù: “Diletta mia, mi sento
tutto ripieno d’amarezze, tanto che non potendole più contenere sto per
traboccarle sopra la terra”.
Ed io: “No, no, mio dolce amore,
le verserete in me, non è vero?”
Ed avvicinandomi alla bocca[12]
ha versato un liquore amarissimo, in tanta abbondanza che non potevo
contenerlo, e pregavo lui stesso che mi desse la forza a sostenerlo, altrimenti
ciò che non avevo fatto fare a Nostro Signore l’avrei fatto io, a[13]
versarlo sopra la terra, e questo mi rincresceva molto a farlo. Pare però che
mi ha dato la forza, sebbene erano tante le sofferenze che mi sentivo venir
meno. Ma Gesù prendendomi fra le sue braccia mi sosteneva e mi diceva: “Per te
bisogna cedere per forza; ti rendi tanto importuna che mi sento quasi necessitato
a contentarti”.
Continua il mio adorabile Gesù a
venire, e questa volta lo vedevo in atto quando stava alla colonna. Gesù
slegandosi si gettava nelle mie braccia per essere da me compatito. Io me l’ho
stretto ed ho incominciato ad aggiustargli i capelli, tutti aggrumiti di
sangue, ad asciugargli e [gli] occhi e il volto, ed insieme lo baciavo e facevo
diversi atti di riparazione. Quando sono giunta alle mani e gli ho tolto la
catena, con somma meraviglia ho visto che il capo era di Nostro Signore ma le
membra erano di tante altre persone, specialmente religiose.
Oh, quante membra infette che
davano più tenebre che luce! Nel lato sinistro ci stavano quelli che davano più
da soffrire a Gesù. Si vedevano membra inferme, ripiene di piaghe verminose e
profonde; altre che appena restavano attaccate per un nervo a quel corpo. Oh,
come si doleva e vacillava quel capo divino sopra quelle membra! Al lato destro
poi si vedevano quelli che erano più buoni, cioè membra sane, risplendenti,
coperte di fiori e di rugiada celeste, profumate di olezzanti odori; e tra
queste membra si[14]
scorgeva qualcuna che mandava un profumo oscuro. Questo capo divino sopra queste
membra molto veniva a soffrire. È vero che vi erano delle membra risplendenti,
che quasi si rassomigliavano alla luce di quel capo, che lo ricreavano e gli
davano grandissima gloria, ma erano in più gran numero le membra infette. Gesù
aprendo la sua dolcissima bocca, mi ha detto:
“Figlia mia, quanti dolori mi
danno queste membra! Questo corpo che tu vedi è il corpo mistico della mia
Chiesa, di cui mi glorio di essere il capo; ma quanto strazio crudele fanno
queste membra in questo corpo! Pare che si aizzino tra loro a chi più possa
darmi tormento”.
Ha detto altre cose, che non
tanto ricordo bene, su questo corpo; perciò faccio punto.
Trovandomi molto afflitta su
certe cose che non è qui lecito il dirle, l’amabile Gesù, volendomi sollevare
nella mia afflizione, è venuto in un aspetto tutto nuovo. Mi pareva vestito di
color celeste, tutto ornato di campanellini piccoli d’oro che, toccandosi fra
loro, risuonavano di un suono non mai udito. All’aspetto di Gesù ed al grazioso
suono mi son sentita incantare e sollevare nella mia afflizione, che come fumo
si dipartiva da me. Io sarei rimasta lì in silenzio, tanto mi sentivo attonite
e stupite le potenze dell’animo mio, se il benedetto Gesù non avesse rotto il
mio silenzio col dirmi:
“Figlia a me diletta, tutti
questi campanellini sono tante voci che ti parlano del mio amore e che chiamano
te ad amarmi. Ora lasciami vedere quanti campanelli tieni tu che mi parlano del
tuo amore e che chiamano me ad amarti”.
Ed io tutta piena di rossore gli
ho detto: “Deh, Signore, che dite? Io non ho niente, non ho altro che i soli difetti”.
Allora Gesù compatendo la mia
miseria ha ripreso a dirmi: “Tu non hai niente, è vero; ebbene voglio ornarti
io coi miei stessi campanelli, acciò [tu] possa aver tante voci come chiamarmi
e come mostrarmi il tuo amore”.
Così pareva che con una fascia
ornata di questi campanellini mi cingesse la vita. Dopo ciò, io son rimasta in
silenzio e lui ha soggiunto: “Oggi ho piacere di trattenermi con te, dimmi qualche
cosa”.
Ed io: “Voi sapete che tutto il
mio contento è di stare insieme con voi, ed avendo voi ho tutto; onde possedendo
voi mi pare che non ho che altro desiderare né che dire”.
E Gesù: “Fammi sentire la tua
voce che ricrea il mio udito; conversiamo un poco insieme. Io ti ho parlato
tante volte della croce. Oggi fammi sentire parlare te della croce”.
Io mi sentivo tutta confusa, non
sapevo che dire; ma lui mandandomi un raggio di luce intellettuale, per
contentarlo ho incominciato a dire: “Diletto mio, chi vi può dire che cosa è la
croce e che fa la croce? Solo la vostra bocca può degnamente parlare della
sublimità della croce. Ma giacché lo volete che parli, io pure lo faccio.
La croce sofferta da voi, Gesù
Cristo, mi liberò dalla schiavitù del demonio e mi sposò alla Divinità con nodo
indissolubile; la croce è feconda e mi[15]
partorisce la grazia; la croce è luce e mi disinganna del temporale e mi svela
l’eterno; la croce è fuoco e tutto ciò che non è Dio mette in cenere, fino a
vuotarmi il cuore di un minimo filo d’erba che possa starci. La croce è moneta
di inestimabile prezzo e se io avrò, sposo santo, la fortuna di possederla, mi
arricchirò di monete eterne fino a rendermi la più ricca del paradiso, perché
la moneta che corre in cielo è la croce sofferta in terra. La croce poi fa
conoscere me stessa, non solo, ma mi dà la conoscenza di Dio. La croce
m’innesta tutte le virtù. La croce è nobile cattedra dell’Increata Sapienza,
che m’insegna le dottrine più alte, sottili e sublimi. Sicché la sola croce mi
svelerà i misteri più nascosti, le cose più recondite, la perfezione più
perfetta, nascosta ai più dotti e sapienti del mondo. La croce è qual acqua
benefica che mi purifica, non solo, ma mi somministra il nutrimento alle virtù,
me le fa crescere, ed allora mi lascia, quando mi riconduce all’eterna vita. La
croce è qual rugiada celeste che mi conserva ed abbellisce il bel giglio della
purità. La croce e l’alimento della speranza. La croce è la fiaccola della fede
operante. La croce è qual legno solido che conserva e fa mantenere sempre
acceso il fuoco della carità. La croce è qual legno asciutto che fa svanire e
mettere in fuga tutti i fumi di superbia e di vanagloria, e produce nell’anima
l’umile viola dell’umiltà. La croce è l’arma più potente che offende i demoni e
mi difende da tutti i loro artigli. Sicché l’anima che possiede la croce è
d’invidia e d’ammirazione agli stessi angeli e santi, di rabbia e di sdegno ai
demoni. La croce è il mio paradiso in terra, di modo che se il paradiso di là,
dei beati, sono i godimenti, il paradiso di qua sono i patimenti. La croce è la
catena d’oro purissimo che mi congiunge con voi, mio sommo Bene, e forma
l’unione più intima che dar si possa, fino a far scomparire l’essere mio, e mi
tramuta in voi, mio oggetto amato, tanto da sentirmi perduta in voi e viva della
stessa vita”.
Dopo che ebbi detto questo, non
so se sono spropositi, l’amabile mio Gesù nel sentirmi tutto si compiaceva e
preso da entusiasmo d’amore tutta mi baciava, e mi ha detto:
“Brava, brava la mia diletta, hai
detto bene. L’amore mio è fuoco, ma non come il fuoco terreno che dovunque
penetra, rende sterile e mette tutto in cenere. Il mio fuoco è fecondo e solo
sterilisce tutto ciò che non è virtù, ma [per] il resto dà vita a tutto e vi fa
germogliare i bei fiori, fa produrre i più squisiti frutti e lo rende il più
delizioso giardino celeste. La croce è tanto potente e le ho comunicato tanta
grazia, da renderla più efficace degli stessi sacramenti, e questo perché nel
ricevere il sacramento del mio corpo ci vogliono le disposizioni ed il libero
concorso dell’anima per ricevere le mie grazie, che[16]
molte volte possono mancare, ma la croce ha virtù di disporre l’anima alla
grazia”.
Dopo lungo silenzio, questa
mattina l’amabile mio Gesù, interrompendolo, mi ha detto: “Io sono il ricettacolo
delle anime pure”.
Ed io in queste due parole ebbi
luce intellettuale che mi faceva comprendere molte cose sulla purità, ma poco o
niente so ridurre a parole di ciò che sento nell’intelletto. Ma
l’onorevolissima signora obbedienza vuol che scriva qualche cosa anche
spropositando, e per contentare lei sola dico i miei spropositi sulla purità.
Mi pareva che la purità fosse la
gemma più nobile che l’anima può possedere. L’anima che possiede la purità è
investita di candida luce, in modo che Iddio benedetto rimirandola ritrova la
sua stessa immagine; si sente tirato ad amarla, tanto che giunge ad innamorarsi
di lei, ed è preso da tanto amore che le dà per ricetto il suo purissimo cuore,
perché solo ciò che è puro e mondissimo entra in Dio; niente entra macchiato in
quel seno purissimo.
L’anima che possiede la purità
ritiene in sé il suo primiero splendore che Dio le ha dato nel crearla. Niente
è in lei deturpato, snobilitato, ma come regina che aspira alle nozze del Re
celeste si conserva la sua nobiltà, fino a tanto che questo nobile fiore viene
trapiantato nei giardini celesti. Oh, come questo fiore verginale è fragrante
di distinto odore! Sempre s’innalza sopra tutti gli altri fiori ed anche sopra
gli stessi angeli, come spicca di svariata bellezza! Sicché tutti sono presi da
stima e d’amore, e libero gli danno il passo, fino a farlo giungere allo sposo
divino, in modo che il primo posto intorno a Nostro Signore è di questi nobili
fiori. Onde Nostro Signore si diletta grandemente di passeggiare in mezzo a
questi gigli che profumano la terra ed il cielo, e molto più si compiace
d’essere circondato da questi gigli, che essendone egli il primo nobile giglio
ed il modello, è l’esemplare di tutti gli altri.
Oh, come è bello vedere un’anima
vergine! Il suo cuore non dà altro alito che di purità e di candore; non è
neppure ombrata d’altro amore che non è Dio. Anche il suo corpo spira odore di
purità; tutto è puro in lei; pura nei passi, pura nell’operare, nel parlare,
nel guardare, anche nel muoversi; sicché al solo vederla si sente la fragranza
e vi si scorge un’anima vergine davvero. Quali carismi, quali grazie, quale l’amore scambievole, gli stratagemmi
amorosi tra quest’anima e lo sposo Gesù! Solo chi li prova può dire qualche
cosa, che neppure tutto si può narrare. Ed io non mi sento di[17]
dovere di parlare su questo punto, perciò faccio silenzio e passo innanzi.
Questa mattina il mio adorabile
Gesù non veniva. Dopo molto aspettare e riaspettare, quando appena, quasi come
un lampo che sfugge, parecchie volte si è fatto vedere; ma mi pareva vedere
piuttosto una luce, che Gesù, ed in questa luce una voce che diceva, la prima
volta che è venuta: “Io ti attiro ad amarmi in tre modi: a forza di benefizi, a
forza di simpatie ed a forza di persuasioni”.
Chi può dire quante cose
comprendevo in queste tre parole? Mi pareva che Gesù benedetto, per attirarsi
il mio amore ed anche quello delle altre creature, fa piovere benefizi a pro
nostro, e vedendo che questa pioggia benefica non giunge al punto di guadagnarsi
il nostro amore, giunge a rendersi simpatico. E qual è questa simpatia? Sono le sue pene, sofferte per amor nostro, fino a
morire diluviante sangue sopra una croce, dove si rese tanto simpatico che
innamorò di sé i suoi stessi carnefici ed i suoi più fieri nemici. Di più, per
attirarci maggiormente e rendere più forte e stabile il nostro amore, ci ha
lasciato la luce dei suoi santissimi esempi unita alla sua celeste dottrina,
che come luce ci diradano le tenebre di questa vita e ci conducono all’eterna
salvezza.
La seconda volta che è venuto mi
ha detto: “Io mi manifesto all’anima in tre modi: con la potenza, con la
notizia e con l’amore. La potenza è il Padre, la notizia è il Verbo, l’amore è
lo Spirito Santo”.
Oh, quante altre cose
comprendevo! Ma troppo scarso è quello che so manifestare. Mi pareva che con la
potenza Dio si manifesta all’anima in tutto il creato; dal primo all’ultimo
essere viene manifestata l’onnipotenza di Dio. Il cielo, le stelle e tutti gli
altri esseri ci parlano, sebbene in muto linguaggio, di un Ente Supremo, di un
Essere Increato, della sua onnipotenza, perché l’uomo più scienziato, con tutta
la sua scienza non può giungere a creare il più vil moscerino; e questo ci dice
che ci deve essere un Essere Increato, potentissimo, che ha tutto creato e dà
vita e sussistenza a tutti gli esseri. Oh, come tutto l’universo a chiare note
ed a caratteri incancellabili ci parla di Dio e della sua onnipotenza! Sicché
chi non lo vede è cieco e cieco volontario. Con la notizia mi pareva che Gesù
benedetto, nello scendere dal cielo, venisse in persona sulla terra a darci
notizia di ciò che è a noi invisibile; ed in quanti modi non si manifestò egli?
Credo che ognuno da sé comprenda tutto il resto, perciò non mi dilungo a dire.
Dopo aver passati parecchi giorni
quasi di privazione totale del mio sommo ed unico bene, accompagnati da una
durezza di cuore, senza poter neppure piangere la mia gran perdita, sebbene
offrivo a Dio anche quella durezza dicendogli: “Signore, accettatela come
sacrifizio; voi solo potete rammollire questo cuore sì duro”, finalmente, dopo
lungo penare, è venuta la mia cara Mamma Regina portando nel suo grembo il celeste
bambino ravvolto in un pannolino, tutto tremante; me l’ha dato fra le mie
braccia dicendomi: “Figlia mia, riscaldalo coi tuoi affetti, che mio Figlio
nacque in estrema povertà, in totale abbandono degli uomini ed in somma
mortificazione”.
Oh, come era carino, con quella
sua celeste beltà! L’ho preso fra le mie braccia e me l’ho stretto per
riscaldarlo, perché era quasi intirizzito dal freddo, non avendo altra cosa che
lo copriva che un solo pannolino.
Dopo averlo riscaldato per quanto
ho potuto, il mio tenero bambinello, snodando le sue purpuree labbra, mi ha
detto: “Mi prometti tu d’essere sempre vittima per amor mio, come io lo sono
per amor tuo?”
Ed io: “Sì, tesoretto mio, te lo
prometto”.
E lui: “Non son contento della
parola, ne voglio un giuramento, ed anche una sottoscrizione col tuo sangue”.
Ed io: “Se vuole l’ubbidienza, lo
farò”.
E lui pareva tutto contento ed ha
soggiunto: “Il mio cuore, da che nacqui, lo tenni sempre offerto in sacrifizio
per glorificare il Padre, per la conversione dei peccatori e per le persone che
mi circondavano e che più mi furono fedeli compagne nelle mie pene. Così io
voglio che il tuo cuore stia in continua attitudine, offerto in ispirito di
sacrifizio per questi tre fini”.
Mentre ciò diceva, la Regina
Mamma voleva il bambino per ristorarlo col suo latte dolcissimo. L’ho
restituito e lei ha messo fuori la sua mammella per metterla in bocca al divino
bambino; ed io, furba, volendo fare uno scherzo, ho messo la mia bocca a succhiare,
ho tirato poche gocce; e nell’atto che ciò facevo mi sono scomparsi,
lasciandomi contenta e scontenta. Sia tutto a gloria di Dio ed a confusione di
questa misera peccatrice.
Continua a farsi vedere ad ombra
ed a lampo. Mentre mi trovavo in un mare d’amarezza, in un istante mi si è
fatto vedere dicendomi: “La carità dev’essere come un ammanto che deve coprire
tutte le tue azioni, in modo che tutto deve rilucere di perfetta carità. Che
significa quel dispiacerti quando non soffri? Che la tua carità non è perfetta,
perché il soffrire per amor mio e il non soffrire per amor mio, senza la tua
volontà, è tutto lo stesso”.
Ed è scomparso lasciandomi più
amareggiata di prima, volendo toccare un tasto troppo per me delicato e che lui
stesso mi ha infuso. Onde, dopo aver versato amare lagrime sullo stato mio
miserabile e sopra l’assenza del mio adorabile Gesù, è ritornato e mi ha
detto: “Con le anime giuste mi porto con giustizia, anzi ricompensandole
duplicatamente per la loro giustizia col favorirle delle grazie più grandi e
col parlare loro di parole giuste e di santità”.
Io però mi trovavo tanto confusa
e cattiva che non ardivo di dire una sola parola; anzi continuavo a versare
lacrime sulla mia miseria. E Gesù volendomi infondere fiducia ha messo la sua
mano sotto la mia testa per sollevarla, ché non mi reggeva, ed ha soggiunto:
“Non temere, io sono lo scudo dei crociati e tribolati”. Ed è scomparso.
Questa mattina il mio adorabile
Gesù, quando appena l’ho visto, e siccome l’ubbidienza mi aveva detto che
pregassi per una persona, perciò quando Gesù è venuto gliel’ho raccomandato e
lui mi ha detto:
“L’umiliazione non solo si deve
accettare, ma anche amare, tanto da
masticarla come un cibo, e siccome quando un cibo è amaro, quanto più si
mastica, tanto più si sente l’amarezza, così l’umiliazione ben masticata fa
nascere la mortificazione; e queste sono due potentissimi mezzi, cioè
l’umiliazione e la mortificazione, per uscire da certi intoppi ed ottenere
quelle grazie che si vogliono. Mentre pare
nocevole all’umana natura, come il cibo amaro pare che voglia recare
piuttosto male che bene, così l’umiliazione e la mortificazione, ma no. Quanto
il ferro è più battuto sopra l’incudine, tanto più sfavilla fuoco e resta
purgato; così l’anima, quanto più è umiliata e battuta sopra l’incudine della
mortificazione, tanto più sfavilla scintille di fuoco celeste e resta purgata
se veramente vuol camminare la via del bene; se poi è falsa succede tutto al
contrario”.
Trovandomi molto afflitta per la
privazione del mio sommo ed unico Bene, dopo molto aspettare e riaspettare
finalmente l’ho visto uscire da dentro il mio cuore che piangeva e mi faceva
comprendere quanto patì e si umiliò nella circoncisione. Oh, quanto mi faceva
pena! Mi sentivo assorbita in quell’amarezza, e il benedetto bambinello
compatendo il mio miserabile stato mi ha detto:
“Quanto più l’anima si umilia e
conosce sé stessa, tanto più si accosta alla verità e, trovandosi nella verità,
cerca di spingersi nella via delle virtù da cui si vede molto lontana; e se si
vede che si trova nella via delle virtù, scorge subito il molto che le resta da
fare, perché le virtù non hanno termine, sono infinite come sono io. Onde
l’anima, trovandosi nella verità, cerca sempre di perfezionarsi, ma mai
giungerà a vedersi perfetta. E questo le serve e farà che l’anima stia
continuamente lavorando, sforzandosi per maggiormente perfezionarsi, senza
perdere il tempo in oziosità; ed io compiacendomi di questo lavoro, man mano la
vado ritoccando per dipingere in lei la mia rassomiglianza. Ecco perciò volli
essere circonciso, per dare un esempio di grandissima umiltà che fece stordire
gli stessi angeli del cielo”.
Continuo a vedermi tutta piena di
miserie, non solo, ma anche inquieta. Mi pareva che tutto il mio interno si
fosse messo in allarme per la perdita di Gesù. Andavo pensando tra me che i
miei grandi peccati mi avevano meritato che il mio adorabile Gesù mi avesse
lasciato e quindi non dovevo più rivederlo. Oh, che morte crudele è questo
pensiero per me, anzi più spietato di qualunque morte! Non più vedere Gesù! Non
più sentire la soavità della sua voce, perdere colui da cui la mia vita dipende
e da cui mi viene ogni mio bene! Come poter vivere senza di lui? Ah, per me
tutto è finito se perdo Gesù! Con questi pensieri mi sentivo un’agonia di
morte, tutto l’interno sossopra, che voleva Gesù. E lui in un lampo di luce si
è manifestato all’anima mia, dicendomi:
“Pace, pace, non volerti turbare.
Come un fiore odorosissimo profuma il luogo dove si mette, così la pace riempie
di Dio l’anima che la possiede”. E come lampo è sfuggito.
Ah, Signore, quanto siete buono
con questa peccatrice! E vi dico pure in confidenza: quanto siete singolare,
che nientemeno devo perdere voi e neppure volete che mi turbi e mi inquieti, e
se ciò faccio mi fate capire che io stessa mi allontano da voi perché con la
pace mi riempio di Dio e col turbarmi mi riempio di tentazioni diaboliche. Oh,
mio dolce Gesù, quanta pazienza ci vuole con voi! Perché qualunque cosa mi succede,
neppure posso inquietarmi né turbarmi, ma volete che me ne stia in perfetta
calma e pace.
Trovandomi nel solito mio stato,
mi son sentita uscire fuori di me stessa ed ho trovato l’adorabile Gesù mio; ma
oh, quanto mi vedevo piena di peccati innanzi alla sua presenza! Nel mio
interno mi sentivo un forte desiderio di fare la mia confessione a Nostro
Signore; quindi, a lui rivolgendomi, ho incominciato a dire le mie colpe, e
Gesù mi ascoltava. Quando ho finito di dire, rivolgendosi a me con un volto
pieno di mestizia mi ha detto:
“Figlia mia, il peccato è un
abbraccio velenoso e mortifero all’anima, non solo, ma come pure a tutte le
virtù che nell’anima si trovano; se è grave. Se poi è veniale è un abbraccio
feritore che rende l’anima debole ed inferma, ed insieme con essa si infermano
le virtù che aveva acquistato. Che arma micidiale è il peccato! Solo il peccato
può ferire e dar morte all’anima. Nessun’altra cosa può nuocerle, nessun’altra
cosa la rende innanzi a me obbrobriosa, odiosa, che il solo peccato”.
Mentre diceva ciò, io comprendevo
la bruttezza del peccato e sentivo tale una pena che non so neppure esprimerla.
E Gesù vedendomi tutta compenetrata ha alzato la benedetta destra ed ha
pronunziato le parole dell’assoluzione. Dopo poi ha soggiunto: “Come il
peccato ferisce e dà morta all’anima, così il sacramento della confessione dà
la vita e la risana dalle ferite e restituisce il vigore alle virtù; e questo
più o meno secondo le disposizioni dell’anima. Così opera la virtù del sacramento”.
Mi pareva che l’anima mia avesse
ricevuto nuova vita, non scorgevo più quel fastidio di prima, dopo che Gesù mi
diede l’assoluzione. Sia sempre ringraziato e glorificato il Signore!
Questa mattina ho fatta la
comunione ed essendomi trovata insieme con Gesù, ci stava la Mamma Regina; ed
oh, meraviglia! Guardavo la Madre e vedevo il cuore di lei trasmutato in Gesù
bambino; guardavo il Figlio e vedevo nel cuore del bambino la Madre. In questo
mentre mi son ricordata che oggi era l’Epifania ed io, ad esempio dei Santi
Magi, dovevo offrire qualche cosa al bambino Gesù, ma mi vedevo che non avevo
niente che dargli.
Allora vedendo la mia miseria mi
è venuto il pensiero di offrire per mirra il
mio corpo con tutte le sofferenze dei dodici anni che ero stata nel
letto, pronta a soffrire ed a starvi quant’altro tempo a lui piacesse; per oro,
la pena che sento quando mi priva della sua presenza, che è la cosa più penosa
e dolorosa per me; per incenso, le mie
povere preghiere unite a quelle della Regina Mamma acciocché fossero
più accettevoli al bambino Gesù. Onde ne ho fatto l’offerta con tutta la
confidenza che il bambino avesse tutto accettato. Gesù pareva che con molto
gusto accettasse le mie povere offerte, ma quello che più gustava era la
confidenza con cui l’avevo offerto, onde mi ha detto:
“La confidenza ha due braccia,
con uno si abbraccia alla mia umanità e della mia umanità se ne serve come
scala per salire alla mia Divinità; con l’altro si abbraccia alla Divinità ed a
torrenti vi attinge le grazie celesti, sicché l’anima vi resta tutta inondata
dell’Essere Divino. Quando l’anima è confidente, è certa di ottenere ciò che
domanda. Io mi faccio legare le braccia, le faccio fare ciò che vuole, la
faccio penetrare più dentro il mio cuore e da essa stessa faccio prendere
quello che mi ha domandato. Se ciò non facessi, mi sentirei in uno stato di
violenza”.
Mentre ciò diceva, dal petto del
bambino e da quello della Madre uscivano tanti ruscelli di liquore, ma non so
dire proprio come si chiamava quello che dico liquore, che tutta m’inondavano
l’anima. La Regina Madre è scomparsa.
Dopo ciò, insieme col bambino
siamo usciti fuori nella volta dei cieli; il suo grazioso volto lo vedevo
mesto. Ho detto tra me: “Forse vorrà le carezze della Regina Mamma”. Allora me
lo sono stretto fortemente al cuore e Gesù bambino ha preso un aspetto giulivo.
Chi può dire ciò che passava tra me e Gesù? Non ho lingua a saperlo manifestare
né vocaboli per poterlo descrivere.
Stavo pensando tra me: “Chi sa
quanti spropositi, quanti errori contengono queste cose che scrivo!”
In questo mentre mi son sentita
perdere i sensi ed è venuto il benedetto Gesù e mi ha detto: “Figlia mia, anche
gli errori gioveranno, e questo a far conoscere che non c’è nessun artifizio da
parte tua né che tu sei qualche dottore, che se ciò fosse, tu stessa avresti
avvertito dove erravi. Questo pure farà risplendere di più che sono io che ti
parlo, vedendo la cosa alla semplice; ma però ti assicuro che non troveranno
l’ombra del vizio e cosa che non dica virtù; perché mentre tu scrivi ti sto io
stesso guidando la mano; al più potranno trovare cosa che a primo aspetto parrà
errore, ma se la rimireranno ben bene, vi troveranno la verità”.
Detto ciò è scomparso. Ma dopo
qualche ora di tempo è ritornato ed io mi sentivo tutta titubante ed impensierita
sulle parole che mi aveva detto, e lui ha soggiunto:
“Il mio retaggio è la fermezza e
la stabilità, non sono soggetto a mutamento alcuno, e l’anima quanto più si
avvicina a me e si inoltra nella via della virtù, tanto più si sente ferma e
stabile nell’operare il bene; e quanto più sta da me lontana, tanto più sarà soggetta
a mutarsi ed a traballare ora al bene ed ora al male”.
Trovandomi nel solito mio stato,
l’amabile mio Gesù è venuto in uno stato compassionevole. Teneva le mani legate
strettamente ed il volto coperto di sputi, e parecchie persone che lo schiaffeggiavano
orribilmente. E lui se ne stava quieto, placido, senza fare un motto e muovere
un lamento; neppure un muovere di ciglia, per far vedere che lui voleva
soffrire quegli oltraggi, e questo non solo esternamente, ma anche internamente.
Che spettacolo commovente, da fare spezzare i cuori più duri! Quante cose
diceva quel volto con quegli sputi pendenti, imbrattato di fango! Io mi sentivo
inorridire, tremavo, mi vedevo tutta superbia innanzi a Gesù. Mentre stava in
quest’aspetto lui mi ha detto:
“Figlia mia, i soli piccolini si
lasciano maneggiare come si vuole; non quelli che sono piccoli di ragione
umana, ma quelli che sono piccoli di ragione divina. Io posso dire che sono
umile, che nell’uomo ciò che si dice umiltà, piuttosto si deve dire conoscenza
di sé stesso, e chi non conosce sé stesso cammina già nella falsità”.
Per qualche minuto Gesù ha fatto
silenzio ed io me ne stavo a contemplarlo. Mentre ciò io facevo ho visto una
mano che portava una luce, che frugando nel mio interno, nei più intimi
nascondigli, voleva vedere se fosse in me la conoscenza di me stessa e l’amore
alle umiliazioni e alle confusioni ed agli obbrobri. Quella luce trovava un
vuoto nel mio interno ed io pur lo vedevo che doveva essere riempito di
umiliazioni e confusioni, ad esempio del benedetto Gesù. Oh, quante cose mi
faceva comprendere quella luce e quel volto santo che mi stava innanzi! Dicevo
tra me:
“Un Dio per amor mio umiliato e
confuso, ed io peccatrice senza di queste divise! Un Dio stabile, fermo nel
sopportare tante ingiurie, tanto che non si muove un tantino per scuotersi da
quegli sputi fetenti! Ah, mi si fa manifesto il suo interno innanzi a Dio, il
suo esterno innanzi agli uomini, e vedo che se egli volesse respingere ogni
patire, ogni oltraggio, di tutto resterebbe libero. Ma vedo che non le catene
lo legano, ma la sua stabile Volontà che a qualunque costo vuol salvare il
genere umano. Ed io, ed io? Dove sono le mie umiliazioni? Dove la fermezza, la
costanza nell’operare il bene per amor del mio Gesù e del mio prossimo? Ahi,
che vittime differenti siamo io e Gesù! Ahi, che non ci conformiamo affatto!”
Mentre il mio piccolo cervello si
perdeva in queste considerazioni, il mio adorabile Gesù mi ha detto: “Solo la
mia umanità fu ripiena di obbrobri e di umiliazioni, tanto da traboccarne
fuori; ecco perciò innanzi alle mie virtù trema il cielo e la terra, e le anime
che mi amano si servono della mia umanità come scala per salire e lambire
qualche gocciolina delle mie virtù. Dimmi un po’: dinnanzi alla mia umiltà dove
è la tua? Solo io posso gloriarmi di possedere la vera umiltà.
La mia Divinità unita alla mia
umanità poteva operare prodigi in ogni passo, con le parole ed opere, ed invece
volontariamente mi restringevo nel cerchio della mia umanità e mi mostravo il
più povero e giungevo a confondermi cogli stessi peccatori. L’opera della
Redenzione in pochissimo tempo potevo operarla ed anche per una sola parola; ma
volli per il corso di tanti anni, con tanti stenti e patimenti, fare mie le miserie
dell’uomo; volli esercitarmi in tante diverse azioni per fare che l’uomo fosse
tutto rinnovato, divinizzato anche nelle minime opere, perché esercitate da me
che ero Dio ed uomo, ricevevano uno splendore nuovo e restavano con l’impronta
di opere divine.
La mia Divinità nascosta nella
mia umanità, [volle] scendere a tante bassezze, assoggettarsi al corso delle
azioni umane, mentre con un solo atto di Volontà avrei potuto creare infiniti
mondi, [volle] sentire le miserie, le debolezze altrui, come fossero di essa
mia umanità, e [volle] vedere questa, coperta di tutti i peccati degli uomini
innanzi alla divina giustizia e che ne dovevo pagare il fio col prezzo di pene
inaudite e con lo sborso di tutto il mio sangue. Così esercitavo continui atti
di profonda umiltà, ed eroica. Eccoti o figlia la diversità grandissima della
mia umiltà con l’umiltà delle creature che innanzi alla mia appena è un’ombra;
anche quella di tutti i miei santi, perché la creatura è sempre creatura e non
conosce quanto pesa la colpa come lo conosco io; sia pure che anime eroiche,
sul mio esempio si sono offerte a soffrire le pene altrui, ma queste non son
diverse da quelle delle altre creature; non son cose nuove per loro perché son
formate dalla stessa creta. Poi il solo pensare che quelle pene sono causa di
nuovi acquisti e che glorificano Iddio è un grande onore per loro. Oltre di ciò
la creatura è ristretta nel cerchio dove Iddio l’ha messa né può uscire da quei
limiti ond’[18]è
stata circuita da Dio. Oh, se stesse in loro potere il fare e il disfare,
quant’altre cose non farebbero! Ognuno giungerebbe alle stelle.
Ma la mia umanità divinizzata non
aveva limiti, ma volontariamente si restringeva in sé stessa e questo era un
intrecciare tutte le mie opere di eroica umiltà. Era stata questa la causa di
tutti i mali che inondano la terra, cioè la mancanza di umiltà; ed io con
l’esercizio di questa virtù dovevo attirare dalla divina giustizia tutti i
beni. Ah, ché non si partono dal mio trono rescritti di grazia se non per mezzo
dell’umiltà! Né alcun biglietto può essere da me ricevuto se non contiene la
firma dell’umiltà. Nessuna preghiera ascoltano le mie orecchie e muove a
compassione il mio cuore, se non è profumata dall’olezzo dell’umiltà. Se la
creatura non giunge a distruggere quel germe d’onore, di stima, e questo si
distrugge col giungere ad amare di essere disprezzata, umiliata, confusa, sentirà
un intreccio di spine intorno al cuore, avvertirà un vuoto nel suo cuore che le
darà sempre fastidio e la renderà molto dissimile dalla mia santissima umanità.
E se non giunge ad amare le umiliazioni, al più potrà qualche poco conoscere se
stessa, ma non risplenderà innanzi a me vestita della bella e simpatica veste
dell’umiltà”.
Chi può dire quante cose
comprendevo su questa virtù e la differenza tra il conoscere sé stessa e
l’umiltà? Mi pareva di toccare con mano la distinzione di queste due virtù, ma
non ho parola come spiegarmi. Per dire qualche cosa mi avvalgo di un’idea, per esempio:
un povero conosce che è povero, ed anche a persone che non lo conoscono e che
forse possono credere che possiede qualche cosa manifesta schiettamente la sua
povertà. Si può dire che conosce sé stesso e dice la verità, e per questo viene
più amato, muove gli altri a compassione del suo misero stato e tutti
l’aiutano. Tale è il conoscere sé stesso. Se poi quel povero, vergognandosi di
manifestare la sua povertà menasse vanto che lui è ricco, mentre tutti sanno
che lui non tiene neppure le vesti come coprirsi e si muore di fame, che
avviene? Tutti lo disprezzano, nessuno l’aiuta ed addiviene soggetto di burla e
di ridicolaggine a chiunque lo conosce; ed il misero, andando di male in
peggio, finisce col perire. Tale è la superbia innanzi a Dio ed anche innanzi
agli uomini. Ed ecco che chi non conosce sé stesso già esce dalla verità e
precipita nella via della falsità.
Seguitando questo esempio ne
viene di conseguenza un’altra forma di umiltà eroica che prende pure il merito
della conoscenza di sé stesso. Figuriamoci un ricco il quale nato fra gli agi e
le ricchezze conosce bene di essere tale, di possedere ogni sorta di beni
temporali, ma considerando le profonde umiliazioni alle quali si assoggettò
Nostro Signore Gesù Cristo per nostro amore, si innamora della santa umiltà,
abbandona le ricchezze e tutti gli agi, si spoglia delle sue nobili vesti, si
copre di miseri cenci, vive sconosciuto, a nessuno manifesta chi egli sia, si
confonde coi più poveri, vive coi poveri come se fosse loro pari, fa le sue
delizie i disprezzi e le confusioni[19].
Allora in costui si trova ciò che avviene nei santi, i quali tanto più si
umiliano per quanto più conoscono che il Signore li colma delle sue grazie e
dei suoi doni contro ogni loro merito.
Tanto nel primo esempio dei due
poveri detti avanti, quanto in questo ricco, si vede come la conoscenza di sé
stesso senza l’umiltà nuoce e a nulla giova, ma quanto genera l’umiltà è
preziosissimo. Ah, sì! L’umiltà chiama la grazia, l’umiltà spezza le catene più
forti, l’umiltà supera qualunque muro di divisione tra l’anima e Dio e a lui la
ritorna. L’umiltà è la piccola pianta, ma sempre verde e fiorita, non soggetta
ad essere rosa dai vermi, né i venti, la grandine, il caldo potranno portarle
nocumento né farla menomamente appassire. L’umiltà, sebbene è la più piccola
pianta, pure manda fuori rami altissimi che penetrano fino nel cielo e si
intrecciano intorno al cuore di Nostro Signore; e solo i rami che escono da
questa piccola pianta hanno libera entrata in quel cuore adorabile. L’umiltà è
l’àncora della pace nelle tempeste delle onde di questa vita. L’umiltà è sale
che condisce tutte le virtù e preserva l’anima dalla corruzione del peccato.
L’umiltà è l’erbetta che spunta sulla via battuta dai viandanti; l’umiltà
mentre è calpestata scomparisce, ma subito si vede spuntare più bella di prima.
L’umiltà è qual innesto gentile che ingentilisce la pianta selvatica. L’umiltà
è il tramonto della colpa. L’umiltà è la moneta della grazia. L’umiltà è qual
luna che ci guida nelle tenebre della notte di questa vita. L’umiltà è come
quello scaltro negoziante che sa ben trafficare le sue ricchezze, non ne fa
sciupio neppure d’un centesimo della grazia che gli vien data. L’umiltà è la
chiave della porta del cielo, sicché nessuno può entrarvi se non si tiene ben custodita
questa chiave.
Finalmente, altrimenti non la
finisco più ed andrei troppo per le lunghe, l’umiltà è il sorriso di Dio e di
tutto l’empireo, ed il pianto di tutto l’inferno.
Questa mattina il mio adorabile
Gesù andava e ritornava, ma sempre in silenzio; dopo mi son sentita uscire fuori
di me stessa, e Gesù me lo sentivo da tergo che diceva:
“In molti non c’è più
rettitudine, i cattivi dicono: ‘Fino a tanto che le cose staranno in questo
modo, non potremo avere nessuna riuscita ai nostri intenti; affettiamo virtù,
fingiamoci retti, mostriamoci veri amici esternamente, che così sarà più facile
tessere le nostre reti e tirarli nell’inganno, e quando usciremo fuori per
predarli e far loro del male, ognuno credendoci amici, l’avremo a mano salvo[20]
nelle nostre mani’. Vedi un po’ dove giunge l’astuzia dell’uomo!”
Dopo ciò il benedetto Gesù,
volendo un atto di riparazione speciale, pareva che mi troncasse la vita
offrendomi alla divina giustizia. Nell’atto che ciò faceva, io credevo che Gesù
mi facesse passare da questa vita, onde ho detto: “Signore non voglio venire
nel cielo senza le vostre divise; prima crocifiggetemi e poi portatemi”.
Così mi ha trapassato coi chiodi
le mani e i piedi, e mentre ciò faceva, con mio sommo rammarico lui è scomparso
ed io mi son trovata in me stessa. Ho detto tra me: “Qui sto ancora! Ahi,
quante volte me la fate, mio caro Gesù, ed avete un’arte a parte a saperla fare[21],
che mi fate credere che devo morire, quindi io me la rido del mondo, delle
pene, me la rido di voi stesso, che è finito il tempo di starci separati, non
ci saranno più intervalli di separazione; ma appena incomincia il riso, che
trovandomi[22]
un’altra volta legata nei ceppi del muro di questo fragile corpo, dimenticando
di avere incominciato a ridere, continuo il mio pianto, i gemiti, i sospiri
della mia separazione con voi. Ah, Signore, fate presto a venire, che mi sento
violentata!”
Dopo aver passato giorni
amarissimi di privazione, il mio povero cuore lottava tra il timore d’averlo
perduto e la speranza, chi sa potessi di nuovo rivederlo. Oh, Dio, che guerra
sanguinolenta ha dovuto sostenere questo povero mio cuore! Era tanta la pena
che or si agghiacciava ed or era premuto come sotto un torchio e gocciolava
sangue. Mentre mi trovavo in questo stato mi son sentita vicino il mio dolce
Gesù, che togliendomi un velo che mi impediva di vederlo, finalmente ho potuto
vederlo. Subito gli ho detto: “Ah, Signore, non mi vuoi più bene!”
E lui: “Sì, sì, quel che ti raccomando
è la corrispondenza alla mia grazia, e per essere fedele devi essere come
quell’eco che risuona dentro un vuoto, che non appena [si] incomincia ad
emettere la voce, subito senza il minimo indugio si sente rimbombare l’eco
appresso. Così tu non appena incominci a ricevere la mia grazia, senza neppure
aspettare che la compisca di dare, subito incomincia l’eco della tua
corrispondenza”.
Continuo a restare quasi priva
del mio dolce Gesù, la mia vita vien meno per la pena; mi sento un tedio, una
noia, una stanchezza della vita! Andavo dicendo nel mio interno: “Oh, come si è
prolungato il mio esilio! Oh, qual felicità sarebbe la mia se potessi
sciogliere i legami di questo corpo e così l’anima prenderebbe libero il volo
verso il mio sommo Bene!”
Un pensiero mi ha detto: “E se tu
vai all’inferno?” Ed io per non chiamare il demonio a combattermi, subito mi
sono sbrigata col dire: “Ebbene, anche dall’inferno manderò i miei sospiri al
mio dolce Gesù, anche lì voglio amarlo”.
Mentre mi trovavo in questi
pensieri ed altri, che sarebbe troppo lunga la storia il ridirli tutti,
l’amabile Gesù per poco tempo si è fatto vedere, ma in un aspetto serio, e mi
ha detto: “Non è arrivato ancora il tuo tempo”.
Poi con una luce intellettuale mi
faceva comprendere che nell’anima tutto dev’essere ordinato. L’anima possiede
tanti piccoli appartamenti dove ogni virtù prende il suo posto, sebbene si può
dire che una sola virtù contiene in sé tutte le altre, e che l’anima
possedendone una sola, viene ad essere corredata da tutte le altre virtù; ma
con tutto ciò sono tutte distinte fra loro, tanto che ognuna vi tiene il suo
posto nell’anima; ed ecco che tutte le virtù hanno il loro principio dal
mistero della Sacrosanta Trinità, che mentre è Uno sono Tre distintamente, e
mentre sono Tre è Uno. Comprendevo pure che questi appartamenti nell’anima, o
son pieni di virtù o del vizio opposto a quella virtù, e se non c’è né la virtù
né il vizio, restano vuoti. A me pareva come una casa che contiene tante stanze
tutte vuote, o pure quelle stanze, chi piene di serpi, chi di fango, chi
ripiena di qualche mobile pieno di polvere, chi oscura. Ah, Signore, solo voi
potete mettere in ordine la povera anima mia!
Continua ancora lo stesso. Questa
mattina [Gesù] mi ha trasportato fuori di me stessa, dopo tanto tempo pare che
ho visto Gesù con chiarezza; ma mi vedevo tanto cattiva che non ardivo dire una
sola parola; ci guardavamo ma in silenzio. In quegli sguardi a vicenda
comprendevo che il mio buon Gesù era ripieno di amarezze, ma non ardivo dire:
“Versatele in me”. Lui stesso si è avvicinato a me ed ha incominciato a versarle
ed io, non potendo contenerle, come ricevevo le gettavo per terra. Lui mi ha
detto: “Che fai? Non vuoi partecipare più alle mie amarezze? Non vuoi darmi più
sollievo nelle mie pene?”
Ed io: “Signore, non è la mia
volontà, non so io stessa che cosa mi è avvenuto; mi sento tanto ripiena che
non ho dove contenerle. Solo un vostro prodigio può più allargare il mio
interno e così potrò ricevere le vostre amarezze”.
Allora Gesù mi ha segnato con un
segno grande di croce ed ha versato di nuovo; così pare che ho potuto
contenerle le sue amarissime amarezze, e dopo ha soggiunto: “Figlia mia, la
mortificazione è come il fuoco che fa disseccare tutti gli umori, così la
mortificazione dissecca tutti gli umori cattivi che ci sono nell’anima e la
inonda d’un umore santificante, in modo da far germogliare le più belle virtù”.
Dopo esser [Gesù] venuto
parecchie volte, ma sempre in silenzio, ed io mi sentivo un vuoto ed una pena,
ché non sentivo la voce dolcissima del mio dolce Gesù; e lui ritornando, quasi
per contentarmi, mi ha detto: “La grazia è la vita dell’anima. Come al corpo dà
vita l’anima, così la grazia dà vita all’anima; ma non basta al corpo, per
aver vita, aver l’anima solamente, ma abbisogna ancora di un cibo come nutrirsi
e crescere a debita statura. Così [al]l’anima non basta aver la grazia per aver
vita, ma ci vuole un cibo per nutrirla e condurla a debita statura. E qual è
questo cibo? È la corrispondenza, sicché la grazia e la corrispondenza formano
quella catena inanellata che la conducono in cielo; ed a misura che l’anima
corrisponde, la grazia viene formando gli anelli di questa catena”.
Poi ha soggiunto: “Qual è il
passaporto per entrare nel regno della grazia? È l’umiltà. L’anima, guardando
sempre il suo nulla e scorgendosi non essere altro che polvere, che vento,
tutta la sua fiducia la rimetterà nella grazia, tanto da renderla padrona, e la
grazia prendendo padronanza su tutta l’anima la conduce per il sentiero di
tutte le virtù e la fa giungere all’apice della perfezione”.
Che cosa è l’anima senza la
grazia? Mi pareva il corpo senza l’anima, che diventa puzzolente e fa scaturire
vermi e marciume da tutte le parti, tanto da rendersi oggetto d’orrore alla
stessa vista umana. Così l’anima senza la grazia si rende tanto abominevole da
fare orrore alla vista non degli uomini, ma di quel Dio tre volte santo. Ah,
Signore, liberatemi da tanta sciagura e dal mostro abominevole del peccato!
Trovandomi in uno stato pieno di
scoraggiamento, specialmente per la privazione del mio sommo Bene, questa
mattina, facendosi vedere quando appena, mi ha detto: “Lo scoraggiamento è un
umore infettivo che infetta i più bei fiori ed i più graditi frutti e penetra
fin al fondo della radice, in modo che quell’umore infettante, invadendo tutto
l’albero, lo rende appassito, squallido, e se non vi [si] pone rimedio con
l’innaffiarlo con l’umore contrario, siccome quell’umore cattivo si è
introdotto fin nella radice, dissecca la radice e fa cadere l’albero per terra.
Così succede all’anima che s’imbeve di quell’umore infettivo dello scoraggiamento”.
Con tutto ciò io mi sentivo ancor
scoraggiata, tutta rannicchiata in me stessa e mi scorgevo tanto cattiva che
non ardivo slanciarmi verso il dolce Gesù. La mia mente era occupata [dal
pensiero] che per me era inutile di più sperare[23]
come prima le continue visite di lui, le sue grazie, i suoi carismi; tutto per
me era finito. E lui quasi sgridandomi ha soggiunto: “Che fai? Che fai? Non sai
tu che la sconfidenza rende l’anima moribonda? Che pensando che deve morire non
pensa più a nulla, né ad acquistare né a mettere a traffico la grazia né ad
abbellirsi di più né quasi a porvi rimedio ai suoi malori; non pensa altro [se
non] che per lei è finito; e non solo rende l’anima moribonda, ma tutte le
virtù la sconfidenza le rende vicine a spirare”.
Ah, Signore, m’immagino di vedere
questo spettro della sconfidenza squallido,
macilente, pauroso, tutto tremante, e tutta la sua maestria, non con
altro congegno, ma con la paura, conduce le anime alla tomba. Ma quel ch’è più
[è] che questo spettro non si mostra nemico, che l’anima può schernirsi della
sua paura, ma si mostra amico e s’infiltra tanto segretamente nell’anima che se
l’anima non sta attenta, parendole amico fedele che agonizza insieme e giunge a
morire insieme, difficilmente si saprà liberare dalla sua artificiosa maestria.
Continuando lo stesso stato ma
con un po’ di coraggio di più, ma non libera perfettamente, il mio carissimo
Gesù nel venire mi ha detto:
“Figlia mia, delle volte l’anima
sente un incontro in qualche virtù, e l’anima facendosi forza supera quell’incontro;
allora la virtù resta più risplendente e più radicata nell’anima. Ma l’anima
deve stare attenta per evitare ch’essa stessa somministri la funicella per
farsi legare dalla sconfidenza; e questo lo farà col dilatare il suo cuore
nella fiducia, sebbene permane sempre nel circolo della verità, che è la
conoscenza del proprio nulla”.
Trovandomi in uno stato
d’abbandono da parte del mio adorabile Gesù, il mio povero cuore me lo sentivo
per il dolore premere come sotto un torchio. Oh, Dio, che pena inenarrabile!
Mentre mi trovavo in questo
stato, quasi ad[24]
ombra, ho visto il mio caro Bene, ma non chiaro, solo ho visto chiaro una mano
che mi pareva che portava una lampada e mi ungeva la parte del cuore esacerbata
al sommo dal dolore della sua privazione, ed in questo mentre ho sentito una
voce che diceva:
“La verità è luce che portò il
Verbo sulla terra. Come il sole illumina, vivifica e feconda la terra, così la
luce della verità dà vita, luce, e rende feconde le anime di virtù. Sebbene
molte nubi, quali sono le iniquità degli uomini, offuscano questa luce di
verità, con tutto ciò non lascio, da dietro le nubi, di mandare barlumi di luce
vivificante onde riscaldare le anime; e se queste nubi sono nubi d’imperfezione
e difetti involontari, questa luce squarciandole col suo calore, le fa svanire
e liberamente s’introduce nell’anima”.
Onde comprendevo che l’anima deve
stare attenta a non cadere anche nell’ombra del difetto volontario, che sono
quelle nubi pericolose che impediscono l’entrata alla luce divina.
Questa mattina dopo aver fatta la
comunione ho visto il mio adorabile Gesù, ma tutto cambiato di aspetto. Mi
pareva serio, tutto ritenutezza, in atto di rimproverarmi. Che cambiamento
straziante! Il mio povero cuore, anziché venire sollevato me lo sentivo più
oppresso, più trafitto, alla presenza così insolita di Gesù. Eppure mi sentivo
tutto il bisogno di un sollievo, per le pene sofferte nei giorni passati, della
sua privazione, che mi pareva che vivessi, ma agonizzante ed in continua
violenza. Ma Gesù benedetto volendo rimproverarmi che andavo cercando sollievo
alla sua presenza, mentre non dovevo cercare altro che patire, mi ha detto:
“Come la calce ha virtù di
concuocere gli oggetti che vi si menano dentro, così la mortificazione ha virtù
di cuocere tutte le imperfezioni e difetti che si trovano nell’anima, e giunge
a tanto che spiritualizza anche il corpo, e come cerchio vi si pone d’intorno e
vi suggella tutte le virtù. Fino a tanto che la mortificazione non ti concuoce
ben bene l’anima come il corpo, fino a disfarlo, non può suggellare
perfettamente in te il marchio della mia crocifissione”.
Dopo ciò, non so dire bene chi
fosse, ma mi pareva che fosse un angelo, mi ha trapassato le mani ed i piedi, e
Gesù con una lancia che usciva dal suo cuore mi ha trapassato il mio con estremo
dolore ed è scomparso lasciandomi più afflitta di prima. Oh, come comprendevo
bene la necessità della mortificazione, mia inseparabile amica, e che in me non
esisteva neppure l’ombra d’amicizia con la mortificazione! Ah, Signore,
legatemi con voi, con indissolubile amicizia con questa buona amica, che da me
non so mostrarmi che tutta rustichezza, e quella non vedendosi da me accolta
con buon viso, mi usa tutti i riguardi, mi va sempre risparmiando, temendo che
le abbia a voltare le spalle del tutto, e mai compie con me il suo bello e
maestoso lavorio; poiché, stante che stiamo un po’ lontane, non giungono le sue
mani prodigiose fino a me in modo da potermi lavorare e presentarmi a voi come
opera degna delle sue santissime mani.
Continua quasi sempre lo stesso.
Questa mattina, dopo avermi rinnovate le pene della crocifissione, [Gesu] mi ha
detto:
“La mortificazione deve essere il
respiro dell’anima. Come al corpo è necessaria la respirazione, e dall’aria
buona o cattiva che si respira così resta infettata o purificata, come pure
dalla respirazione si conosce se è sano o infermo l’interno dell’uomo, se tutte
le parti vitali vanno d’accordo, così l’anima, se respira l’aria della mortificazione,
tutto starà in lei purificato, tutti i suoi sensi suoneranno di uno stesso
suono concordante, il suo interno rimanderà un respiro balsamico, salutare,
fortificante. Se poi non respira l’aria della mortificazione, tutto sarà
discordante nell’anima, manderà un respiro puzzolente, stomachevole; mentre sta
per domare una passione, un’altra si sfrena. Insomma la sua vita non sarà altro
che un giuoco di fanciullo”.
Mi pareva di vedere la
mortificazione come uno strumento musicale, che se le corde sono tutte buone e
forti produce un suono armonioso e gradito; se poi le corde non sono buone, ora
bisogna aggiustare una, ora accordarne un’altra, onde tutto il tempo lo [si]
impiega ad aggiustare, ma mai a suonare; al più se si proverà di suonarlo, ne
uscirà un suono discordante e sgradito, quindi non si farà mai niente di buono.
Questa mattina il mio adorabile
Gesù è venuto e mi ha trasportata fuori di me stessa. Ci vedevo molta gente
tutta in movimento, ma non so dire certo, come una guerra oppure rivoluzione,
ed a Nostro Signore non faceva altro che intrecciare corone di spine, tanto che
mentre me ne stavo tutta attenta a toglierne una, un’altra più dolorosa ne
conficcavano. Ah, sì, pareva proprio che il nostro secolo andrà rinomato per la
superbia! La più grande sventura è il perdere la testa, perché perduta che uno
abbia la testa con il cervello, tutte le altre membra si rendono inabili o si
rendono nemiche di sé stesso e degli altri, quindi ne avviene che la persona dà
una rotta a tutti gli altri vizi. Il mio paziente Gesù tollerava tutte quelle
corone di spine, ed io appena avevo tempo di toglierle, onde si è voltato a
loro e ha detto: “Chi nella guerra, chi nelle carceri e chi ai terremoti; pochi
ne rimarrete. La superbia ha formato il corso delle azioni della vostra vita e
la superbia vi darà la morte”.
Dopo ciò il benedetto Gesù mi ha
tirato da mezzo a quella gente, e, facendosi bambino lo portavo nelle mie
braccia per farlo riposare, ed ha soggiunto: “Figlia, la mia vita l’ebbi dal
cuore, distintamente dagli altri; ecco perciò una ragione perché son tutto
cuore per le anime e perché son portato a volere il cuore e non tollero neppure
un’ombra di ciò che non è mio; onde fra te e me voglio tutto distintamente per
me, e quello che concederai alle creature non sarà altro che il trabocco del nostro
amore”.
Continua il mio benigno Gesù a
venire. Dopo aver fatta la comunione, mi ha rinnovato le pene della
crocifissione ed io son rimasta tanto intirizzita che mi sentivo bisogno di
sollievo, ma non ardivo chiederlo.
Dopo poco è ritornato da bambino
e tutta mi abbracciava e dalle sue labbra correva un latte ed io ho bevuto a
larghi sorsi quel latte dolcissimo dalle sue purissime labbra. Ora mentre ciò
facevo, mi ha detto:
“Io sono il fiore dell’Eden
celeste ed è tanto il profumo che vi spando, che al mio olezzo vi resta
attirato tutto l’empireo; e siccome io sono il lume che manda luce a tutti,
tanto da tenerli inabissati nella luce, tutti i miei santi attingono da me le
loro piccole lucerne, onde non c’è luce nel cielo che non è stata attinta da
questo lume”.
Ah, sì, non c’è neppure odore di
virtù senza Gesù, e non c’è luce ancorché si andasse nel più alto dei cieli,
senza Gesù!
Questa mattina il mio amabile
Gesù ha incominciato a fare i suoi soliti indugi. Sia sempre benedetto, che
comincia sempre da capo. Davvero che ci vuole una pazienza di santo a
sopportarlo e bisogna aver [a] che fare con Gesù per vedere che pazienza ci
vuole! Chi non lo prova non può crederlo, ed è quasi impossibile non avere qualche
piccolo cruccio con lui.
Onde, dopo aver pazientato ad
aspettarlo e riaspettarlo, finalmente è venuto e mi ha detto: “Figlia mia, il
dono della purità non è dono naturale, ma è grazia conseguita, e questo si
ottiene col rendersi simpatico, e l’anima si rende tale con la mortificazione e
coi patimenti. Oh, come si rende simpatica l’anima mortificata e sofferente!
Oh, come è speciosa! Ed io vi prendo tale simpatia da impazzire per essa, e
tutto ciò che vuole le dono. Tu, quando sei priva di me, per amor mio soffri la
mia privazione ch’è la pena più dolorosa per te, ed io prenderò più simpatia di
prima e ti concederò nuovi doni”.
Questa mattina, dopo aver perduto
quasi la speranza che il benedetto Gesù venisse, tutto all’improvviso è venuto
e mi ha rinnovato le pene della sua crocifissione, e mi ha detto: “Il tempo è
giunto, il fine s’appressa, ma l’ora è incerta”.
Ed io, senza approfondire il
significato delle parole che diceva, son rimasta in dubbio se devo attribuirlo
o alla completa crocifissione oppure ai castighi, e gli ho detto: “Signore,
quanto temo il mio stato che non fosse Volontà di Dio!”
E lui: “Il segno più certo per
conoscere se è Volontà mia uno stato, è quando uno si sente la forza a
sostenere quello stato”.
Ed io: “Se fosse tua volontà non
succederebbe questo cambiamento che voi non ci venite come prima”.
E lui: “Quando una persona si
sente famigliare in una famiglia, non si usano tutte quelle cerimonie, quei
riguardi che si usavano prima, quando si sentiva estranea. Così faccio io; ma
con ciò non è segno che è volontà di quella famiglia che non la vogliono tenere
con loro, né che non l’amano meglio di prima. Perciò statti quieta, lascia fare
a me, non volerti crivellare il cervello, funestare la pace del cuore. A tempo
opportuno conoscerai il mio operato”.
Questa mattina mi trovavo tutta
timore; credevo che tutto era fantasia ossia demonio che voleva illudermi. Onde
tutto ciò che vedevo, disprezzavo e mi dispiacevo. Vedevo il confessore che
metteva l’intenzione che Gesù mi rinnovasse i dolori della crocifissione, ed io
cercavo di resistere. Il benedetto Gesù in principio mi tollerava, ma siccome
il confessore replicava l’intenzione, allora Gesù mi ha detto: “Figlia mia,
davvero che questa volta mancheremo all’ubbidienza?! Non sai tu che l’ubbidienza
deve suggellare l’anima e che l’ubbidienza deve rendere l’anima come molle
cera, in modo che il confessore può dare quella forma che vuole?”
Così non curando le mie
resistenze, mi ha partecipato i dolori della crocifissione; ed io non potendo
più resistere al comando di Gesù e del confessore, giacché non volevo cedere
per il timore che non fosse Gesù, con tutto ciò ho dovuto soccombere sotto il
peso dei dolori. Sia sempre benedetto e tutto sia per glorificarlo in tutto e
sempre!
Dopo aver passati parecchi giorni
di privazione [di Gesù], al più veniva qualche volta ad ombra e sfuggiva,
sentivo tale pena che mi struggevo in lagrime. Il benedetto Gesù avendo
compassione del mio dolore è venuto e tutta mia guardava e riguardava e poi mi
ha detto:
“Figlia mia, non temere, che non
ti lascio; ma però quando tu sei senza la mia presenza non voglio che ti
disanimi, anzi da oggi innanzi, quando sei priva di me, voglio che prendi la
mia Volontà e in quella ti bei, amandomi e glorificandomi nella mia Volontà e
tenendo la mia Volontà come fosse la mia stessa persona. Facendo così, tu mi
terrai nelle stesse tue mani. Che cosa forma la beatitudine del paradiso? Certo
la mia Divinità. Or chi formerà la beatitudine dei miei cari sulla terra? Con
certezza la mia Volontà. Questa non ti potrà mai sfuggire. L’avrai sempre in
tuo possesso e se tu starai nel circolo della mia Volontà, ivi proverai le
gioie ineffabili e i piaceri più puri. L’anima, non uscendo mai dal circolo
della mia Volontà, si rende nobile, doviziosa, e tutte le sue operazioni
ripercuotono nel centro del sole divino come i raggi del sole ripercuotono
sulla superficie della terra, e non ne esce neppure una[25]
fuori dal centro che è Dio. L’anima che fa la mia Volontà è la sola nobile mia
regina, che si nutrisce dal mio alito perché il suo cibo e le sue bevande non
le prende che dalla mia Volontà; e nutrendosi della mia Volontà tutta santa,
nelle sue vene scorrerà un sangue purissimo, il suo alito spirerà un profumo
olezzante, che tutto mi ricrea perché prodotto dal mio stesso alito. Perciò non
voglio altro da te [se non] che formi la tua beatitudine nel giro della mia
Volontà, senza mai uscirne neppure per un breve istante”.
Mentre ciò diceva, nel mio
interno vi sentivo un allarme ed un timore che il parlare di Gesù indicava che
non doveva venire e che io dovevo quietarmi nella sua Volontà. Oh, Dio, che
pena mortale! Che strettezze di cuore! Ma Gesù sempre benigno ha soggiunto:
“Come posso lasciarti se tu sei vittima? Allora non ci verrò, quando tu
cesserai d’essere vittima; ma finché sarai vittima mi sentirò sempre tirato a
venire”.
Così pare che son restata quieta,
ma mi sento come circondata dall’adorabile Volontà di Dio in modo che non trovo
nessuna apertura da dove uscirne. Spero che mi voglia tenere sempre in questo
cerchio che mi congiunge tutta a Dio.
Essendomi tutta abbandonata
nell’amabile Volontà di Nostro Signore, io mi vedevo tutta circondata dal mio
dolce Gesù da fuori e da dentro. Con l’essermi abbandonata in lui, nel suo
Divino Volere, mi vedevo come se il mio essere fosse divenuto trasparente, e
dovunque mi rivolgevo vedevo il mio sommo Bene. Ma quello che mi faceva
meraviglia era che, mentre mi vedevo circondata da dentro e da fuori da Gesù,
così io, il mio povero essere, la mia volontà, circondava Gesù come dentro di
un circolo in modo che lui non trovava l’apertura come potersene uscire, perché
la mia volontà unita alla sua lo teneva incatenato, senza che mi potesse
sfuggire. Oh, ammirabile segreto della Volontà del mio Signore, indescrivibile
è la felicità che da te viene!
Ora, mentre mi trovavo in questo
stato, il benedetto Gesù mi ha detto: “Figlia mia, nell’anima tutta trasformata
nel mio Volere, io vi trovo un dolce riposo. Quell’anima diviene per me come
quelle sedie o letti morbidi e soffici che non danno nessuna molestia a chi
vuole riposarsi, anzi, ancorché siano persone stanche ed addolorate ad usarli,
è tanta la morbidezza ed il piacere che prendono nel riposarsi su di essi, che
nel risvegliarsi si trovano forti e sane. Tale è per me l’anima conformata al
mio Volere, ed io in ricompensa mi faccio legare dalla sua volontà e vi faccio
splendere il sole divino come nel pieno meriggio”.
Detto ciò è scomparso. Dopo poi,
avendo fatta la santa comunione, è ritornato e mi ha trasportato fuori di me
stessa; ci vedevo molta gente e Gesù mi diceva: “Dì loro, dì loro che grande è
il male che fanno col mormorarsi l’un l’altro, perché attirano la mia indignazione,
e questo con giustizia, vedendo che mentre sono soggetti alle stesse miserie e
debolezze, non fanno altro che alzar tribunale uno contro l’altro. Se così
fanno tra loro, che farò io, che sono santo e puro, con loro? Invece se con
carità si giudicano e si compatiscono l’uno con l’altro, così mi sento tirato
ad usare misericordia con loro”.
Gesù lo diceva a me ed io lo
ripetevo a quella gente; e dopo ci siamo ritirati.
Questa mattina, avendo fatta la
santa comunione, il mio dolce Gesù si faceva vedere crocifisso, ed internamente
mi sentivo tirata a specchiarmi in lui per potermi a lui rassomigliare, e Gesù
si specchiava in me per tirarmi alla sua rassomiglianza. Mentre così faceva, io
mi sentivo infondere in me i dolori del mio crocifisso Signore, che con tutta
bontà mi ha detto:
“Il tuo alimento voglio che sia
il patire, non come solo patire ma come frutto della mia Volontà. Il bacio più
sincero che lega più forte la nostra amicizia è l’unione dei nostri voleri ed
il nodo indissolubile che ci stringerà in continui abbracciamenti sarà il
continuo patire”.
Mentre ciò diceva il benedetto
Gesù si è schiodato e ha preso la sua croce e la distendeva nell’interno del
mio corpo, ed io vi rimanevo pur tanto distesa che mi sentivo slogare le ossa.
Di più una mano, ma non so dire [per] certo di chi era, mi trapassava le mani
ed i piedi; e Gesù, che stava seduto sulla croce che stava distesa nel mio
interno, tutto si compiaceva del mio patire e di colui che mi trapassava le
mani, ed ha soggiunto: “Adesso mi posso riposare tranquillamente; non ho da
prendermi neppure il fastidio di crocifiggerti perché l’ubbidienza vuole
operare tutto essa, ed io liberamente ti lascio nelle mani dell’ubbidienza”.
E sfuggendo da sopra la croce, si
è messo sopra il mio cuore per riposarsi. Chi può dire quanto sono rimasta
sofferente stando in quella posizione? Dopo essere stata lungo tempo, Gesù non
si sbrigava di sollevarmi come le altre volte per farmi ritornare nello stato
naturale. Quella mano che mi aveva messo sulla croce non la vedevo più; lo
dicevo a Gesù e [lui] mi rispondeva: “Chi ti ha messo sulla croce? Sono stato
forse io? È stata l’ubbidienza; e l’ubbidienza ti deve togliere”.
Pare che questa volta aveva
voglia di scherzare, ed a somma grazia ho ottenuto che mi liberasse il
benedetto Gesù.
Questa mattina trovandomi fuori
di me stessa ho dovuto girare e rigirare per trovare il benedetto Gesù. Per
fortuna sono entrata dentro una chiesa e l’ho trovato sopra un altare dove si
celebrava il Divin Sacrifizio; subito son corsa e me lo sono abbracciato
dicendogli: “Finalmente vi ho trovato; mi avete fatto tanto girare, fino a stancarmi,
e voi state qui”.
E lui guardandomi serio, non con
la solita sua benignità, mi ha detto: “Questa mattina mi sento molto amareggiato
e mi sento tutta la necessità di mettere mano ai castighi per sgravarmi”.
Ed io subito ho risposto: “Caro
mio, non è niente, rimedieremo subito. Verserete in me le vostre amarezze e
così resterete sgravato, non è vero?”
E lui condiscendendo al mio dire
ha versato in me le sue amarezze. Dopo poi, tutta stringendomi a lui, come se
si fosse liberato da un grave peso ha soggiunto:
“L’anima conformata al mio Volere
si sa tanto infiltrare nella mia potenza che giunge a legarmi tutto ed a suo
piacere mi disarma come vuole. Ah, tu, tu, quante volte mi leghi!” E mentre
così diceva, ha preso il suo solito aspetto dolce e benigno.
Trovandomi un po’ turbata sopra
un argomento, la mia mente voleva andare vagando per assicurarsi sulla mia
turbazione e così restarmene in pace. Ma il benedetto Gesù volendomi
contraddire il mio volere, m’impe-diva che potessi vedere ciò che volevo, e
siccome io insistevo di voler vedere mi ha detto: “Perché vuoi andare vagando?
Non sai tu che chi esce dalla mia Volontà esce dalla luce e si confina nelle
tenebre?”
E volendomi quasi distrarre da
ciò che io volevo, mi ha trasportata fuori di me stessa e cambiando discorso ha
soggiunto: “Vedi un po’ quanto mi sono ingrati gli uomini! Come la luce del
sole riempie tutta la terra da un punto all’altro ‑ in modo che non vi è terra
che non gode il benefizio della sua luce, non vi è persona che può lamentarsi
d’essere priva dei suoi benefici influssi, tanto vero che il sole investendo
tutto l’universo per poter dare luce a tutti, lo prende come in sua mano, solo
può lamentarsi di non godere della sua luce chi sfuggendo dalla sua mano va a
nascondersi in luoghi tenebrosi; eppure il sole continuando il suo caritatevole
uffizio, lascia da mezzo le sue dita mandargli[26]
qualche spiraglio di luce ‑ così la mia grazia è un’immagine del sole, che dappertutto
inonda le genti: poveri, ricchi, ignoranti e dotti, cristiani ed infedeli.
Nessuno, nessuno può dire d’esserne privo, perché la luce della verità e
l’influsso della mia grazia riempie la terra al pari del sole nel suo pieno meriggio.
Ma qual è la mia pena nel vedere
le genti che traversando questa luce ad occhi chiusi ed affrontando la mia
grazia col torrente pestifero delle loro iniquità, fuorviando da questa luce,
volontariamente vivono in luoghi tenebrosi, in mezzo a nemici crudeli! Essi[27]
sono esposti a mille pericoli, perché non avendo la luce non possono conoscere
chiaramente se si trovano in mezzo ad amici o nemici, e sfuggire dai pericoli
che li circondano.
Ah, se il sole avesse ragione e
dagli uomini si potesse[28]
fare questo affronto alla sua luce, e taluni, giungendo a tale ingratitudine
che per indispettire e non vedere il suo chiarore, si caverebbero[29]
gli occhi e così restano[30]
più sicuri di vivere nelle tenebre, ah, il sole invece di mandare luce
manderebbe lamenti e lacrime di dolore, da mettere sossopra tutta la natura!
Eppure ciò che si avrebbe orrore di rendere alla luce naturale, gli uomini
giungono a tale eccesso da affrontare in tal modo la mia grazia; ma la mia grazia
sempre benigna con loro, in mezzo alle stesse tenebre ed alla follia della loro
cecità, manda sempre barlumi di luce, perché la mia grazia mai lascia nessuno,
ma l’uomo volontariamente se ne esce da essa, e la grazia, non avendola
[l’uomo] in sé, cerca di seguirlo coi barlumi della sua luce”.
Mentre ciò diceva, il dolce Gesù
era estremamente afflitto ed io facevo per quanto potevo, per consolarlo,
pregandolo di versare in me le sue amaritudini. E lui ha soggiunto: “Compatisci
se ti son causa di afflizione, perché di tanto in tanto mi sento tutta la
necessità di sfogare in parole il mio dolore sull’ingratitudine degli uomini,
con le anime mie dilette, per muovere i loro cuori a ripararmi in tanto eccesso
ed a compassione degli stessi uomini”.
Ed io: “Signore, quello che
vorrei è che non mi risparmiate di partecipare alle vostre pene”. E volendo io
stessa più dire, è scomparso ed io sono ritornata in me stessa.
Questa mattina, avendo fatto la
santa comunione, vedevo il mio caro Gesù da bambino con una lancia in mano in
atto di volermi trapassare il cuore; e siccome avevo detto una cosa al
confessore, Gesù volendomi rimproverare mi ha detto: “Tu vuoi causare il patire
ed io voglio che incominci una nuova vita di sofferenze e di ubbidienza”.
E mentre ciò diceva, mi ha
trapassato il cuore con la lancia e poi ha soggiunto:
“Come il fuoco arde secondo le
legna che vi si mettono [e] così tiene maggiore attività nel bruciare e
consumare gli oggetti che vi si menano dentro, e per quanto è maggiore il fuoco
altrettanto è maggiore il calore e la luce che contiene, così l’ubbidienza, per
quanto è maggiore, altrettanto l’anima si rende abile a distruggere ciò che è
materiale, e l’ubbidienza come a molle cera le dà la forma che vuole”.
Continua quasi sempre lo stesso.
Questa mattina vedevo il buon Gesù più afflitto del solito, minacciando una
mortalità di gente, e vedevo in certi paesi che molti ne morivano. Dopo son
passata dal purgatorio, e conoscendo un’amica defunta l’ho interrogata su varie
cose sopra il mio stato, specialmente se è Volontà di Dio il mio stato, se è
vero che è Gesù che viene oppure il demonio, “perché ‑ le ho detto ‑ siccome tu
ti trovi innanzi alla verità e conosci con chiarezza senza che ti puoi
ingannare, puoi dirmi la verità dei fatti miei”.
Ed essa mi ha detto: “Non temere.
È Volontà di Dio il tuo stato e Gesù ti vuole bene assai, perciò si benigna
manifestarsi teco”.
Ed io proponendole alcuni dubbi
l’ho pregata che si benignasse di vedere innanzi alla luce della Verità se
erano veri o falsi e mi facesse la carità di venirmelo a dire, e se ciò
facesse, io in ricompensa le farei celebrare una messa in suo suffragio. Ed
essa ha soggiunto: “Se vuole il Signore, perché noi stiamo tanto immersi in Dio
che non possiamo neppure muovere le ciglia se non abbiamo da lui il concorso.
Noi abitiamo in Dio come una persona abitasse in un altro corpo, che tanto può
pensare, parlare, guardare, operare, camminare, per quanto le vien dato da quel
corpo che la circonda da fuori; perché a noi non è come a voi che avete il
libero arbitrio, la propria volontà; per noi ogni volontà si può dire cessata,
la nostra volontà è solo la Volontà di Dio. Di quella viviamo, in quella
troviamo tutto il nostro contento ed essa forma tutto il nostro bene e la
nostra gloria”.
E mostrando un contento
indicibile di questa Volontà di Dio, ci siamo separate.
Avendomi il confessore data
l’ubbidienza di pregare il Signore di manifestarmi il modo come fare per tirare
gli animi al cattolicesimo e per togliere tanta miscredenza, io ho pregato
parecchi giorni ed il Signore si benignava di manifestarsi su questo punto.
Finalmente questa mattina mi son trovata fuori di me stessa, trasportata dentro
un giardino, e mi pareva che fosse il giardino della Chiesa, ed ivi erano tanti
sacerdoti e altre dignità che disputavano sopra questo soggetto, e mentre
disputavano usciva un cane di smisurata grossezza e fortezza, che la maggior
parte restavano tanto impauriti e spossati che giungevano a farsi morsicare da
quella bestia, e dopo si ritiravano vigliacchi dall’impresa. Solo, quel cane
inferocito non aveva forza di mordere quei soli che avevano come centro Gesù
nel proprio cuore, che quindi veniva a formare il centro di tutte le loro
azioni, pensieri e desideri. Ah, sì, Gesù formava il suggello di queste
persone, e quella bestia restava tanto debole che non aveva forza neppure di
fiatare.
Ora mentre disputavano io mi
sentivo Gesù da dietro le spalle che diceva: “Tutte le altre società conoscono
chi appartiene al loro partito, solo la mia Chiesa non conosce chi sono i suoi
figli.
Il primo passo è conoscere chi
sono coloro che le appartengono, e questi li possiate[31]
conoscere con lo stabilire un giorno una riunione in cui li inviterete, che chi
è cattolico v’intervenisse al luogo ben destinato per tale riunione, ed ivi con
l’aiuto dei cattolici secolari stabilire quello che conviene fare. Il secondo
passo [è] di obbligare alla confessione quei cattolici che v’intervengono, cosa
principale che rinnova l’uomo e forma i veri cattolici, e questo, non solo a
quelli che si trovano presenti, ma obbligare chi è padrone che obbligasse i
suoi sudditi alla confessione, e quando non giungono con le buone, anche col
rimandarli dal loro servizio. Quando ogni sacerdote avrà formato il gruppo dei
suoi cattolici, allora potranno inoltrarsi ad altri passi superiori, perché il
riconoscere l’opportunità del tempo come[32]
inoltrarsi nei partiti, e la prudenza nell’esporsi, è come la potazione degli
alberi che fa produrre grossi e stagionati frutti. Ma se l’albero non è potato,
vi fa sì una bella pompa di primole[33]
e di fiori, ma appena cade una brina, soffia un vento, non avendo l’albero
umore sufficiente e forza onde sostenere tanti fiori per ricambiarli in frutti,
avviene che i fiori se ne cadono e lui vi rimane spogliato. Così succede nelle
cose di religione; prima dovete formarvi un corpo di cattolici conveniente da
poter fare fronte agli altri partiti, e poi potete giungere ad inoltrarvi negli
altri partiti per formarne uno solo”.
Detto ciò non l’ho sentito più e
senza neppure vederlo mi son trovata in me stessa. Chi può dire la mia pena per
non aver visto il benedetto Gesù per tutto il giorno, e le lacrime che ho
dovuto versare?
Continuando a non venire [Gesù],
io mi struggevo in dolore e mi sentivo una febbre da dare in delirio. Ora,
siccome il confessore è venuto a celebrare il Divin Sacrifizio, ho fatto la
comunione, ma non vedevo secondo il solito il mio caro Gesù. Onde ho incominciato
a dire i miei spropositi: “Dimmi mio Bene perché non ti fai vedere? Questa
volta pare a me che non ti abbia dato occasione per sottrarti! Come, alla buona
alla buona mi lasci? Ahi, neppure gli amici di questa terra agiscono in questo
modo! Quando devono star lontani almeno si dicono addio, e tu neppure a dirmi
addio? Come, così si fa? Perdonami se così parlo; è la febbre che fa dare in
delirio e mi fa giungere alla follia”.
Chi può dire tutti gli spropositi
che gli ho detto? Sarebbe un voler perder tempo. Ora, mentre stavo delirando e
piangendo, Gesù ora faceva vedere una mano, ora un braccio. Quando ho visto il
confessore che mi dava l’ubbidienza di soffrire la crocifissione, e Gesù come
costretto dall’ubbidienza si ha fatto vedere, ed io subito a lui: “Perché non
ti facevi vedere?”
E lui mostrando un aspetto severo
ha detto: “È niente, è niente, è che voglio castigare la terra, ed io anche a
stare in buono con una sola creatura, mi sento disarmato e non ho forza a
metter mano ai castighi; perché col farmi vedere tu incominci a dire, se vedi
che devo mandare castighi: ‘Versate a me, fate soffrire me’, ed io mi sento
vincere da te e mai metto mano ai castighi, e gli uomini non fanno altro che
imbaldanzire di più”.
Or, continuando il confessore a
replicare l’ubbidienza di farmi soffrire la crocifissione, Gesù si mostrava
molto lento a farmi fare questa ubbidienza, non come le altre volte, che subito
voleva che mi sottomettessi, e ha detto a me: “E tu, che vuoi fare?”
Ed io: “Signore, quello che voi
volete”.
Allora volgendosi al confessore
con aspetto serio, gli ha detto: “Anche tu vuoi legarmi col darle queste ubbidienze
di farmela soffrire?”
E mentre ciò diceva, ha
incominciato a parteciparmi i dolori della croce, e dopo mostrandosi placato ha
versato le sue amarezze, e poi ha soggiunto: “Il confessore dove sta?”
Ed io: “Signore, non so dove è
andato. È certo che non lo vedo più con noi”.
E lui: “Lo voglio, che siccome
lui ha ristorato me, così io voglio ristorare lui”.
Questa mattina il benedetto Gesù
mi faceva vedere il Santo Padre con le ali aperte, che andava in cerca dei suoi
figli per raccoglierli sotto le sue ali; e sentivo i suoi lamenti che diceva:
“Figli miei, quante volte ho cercato di radunarvi sotto le mie ali, e voi mi
sfuggite! Deh, ascoltate i miei lamenti ed abbiate compassione del mio dolore!”
E mentre ciò diceva, piangeva
amaramente, e pareva che non erano i soli secolari che si scostavano dal Papa
ma anche i sacerdoti, e questi davano più dolore al Santo Padre. Quanta pena
faceva, vedere il Papa in questa posizione!
Dopo ciò ho visto Gesù che faceva
eco ai lamenti del Santo Padre e soggiungeva: “Fra quelli che sono rimasti
fedeli, alcuni vivono a sé, non hanno lo zelo di esporsi per la mia gloria e
per il bene delle anime, altri sono trattenuti da vari timori, altri dicono,
propongono, promettono, ma non vengono ai fatti”.
Detto ciò è scomparso. Dopo poco
è ritornato ed io mi sentivo tutta annientata in me stessa alla presenza di
Gesù, e lui vedendomi annichilita mi ha detto:
“Figlia mia, quanto più ti
abbassi in te stessa tanto più mi sento tirato ad abbassarmi verso di te ed
empirti della mia grazia. Ecco perciò che l’umiltà è foriera della luce”.
Avendo fatta la santa comunione
vedevo il mio dolce Gesù che m’invitava ad uscire fuori con lui, con patto,
però, che se dovevo andare insieme dove vedevo che Gesù era costretto per i
peccati a mandare castighi, non dovevo contrastare con lui perché non li
mandasse; con questa condizione siamo usciti, girando la terra.
Prima ho incominciato a vedere
non tanto lontano da noi, specialmente in certi punti, tutto disseccato. Onde a
lui rivolta ho detto: “Signore, come farà questa povera gente se le mancherà il
cibo per nutrirsi? Deh, voi tutto potete; come lo avete fatto disseccare, così
fatelo rinverdire”. E siccome teneva la corona di spine, ho disteso la mano
dicendogli: “Mio Bene, che cosa vi ha fatto questa gente? Forse vi ha messa
questa corona di spine? Ebbene datela a me, così resterete placato e le darete
il cibo per non farli perire”. E togliendogliela l’ho premuta sulla mia testa.
Mentre ciò facevo Gesù mi ha
detto: “Si vede che non posso portarti, perché portare te e non poter far niente
è lo stesso”.
Ed io: “Signore, non ho fatto
niente; perdonatemi, se conoscete che ho fatto male, ma deh, portatemi insieme
con voi!”
E lui: “Il tuo modo d’agire mi
lega dappertutto”.
Ed io: “Non sono io che faccio
così, siete voi stesso che mi fate operare in questo modo, perché trovandomi
con voi vedo che le cose tutte sono vostre, e se io non prendessi cura delle
vostre cose mi pare che verrei a non curare voi stesso. Perciò dovete
perdonarmi se agisco in questo modo, che per amor vostro lo faccio, e non
dovete allontanarmi per questo”.
Dopo abbiamo continuato a girare.
Io facevo quanto potevo a non dirgli niente per non dargli occasione che mi
facesse ritirare, e perdere la sua amabile presenza; ma dove non potevo
incominciavo a contrastare. Giunti ad un punto dell’Italia, stavano facendo un
combinato che[34]
doveva venire un gran dissesto, ma non ho capito che cosa fosse, perché avendo
incominciato a dire: “Signore, non permettete! Povera gente, come faranno?”,
vedendo Gesù che io mi affannavo e volevo impedirglielo, mi ha detto con impero:
“Ritirati, ritirati!”, e togliendosi una cinta di chiodi, di spilli, che teneva
incarnati nel suo corpo, che lo faceva molto soffrire, ha soggiunto: “Ritirati
e portati questa cinta con te, che mi darai molto sollievo”.
Ed io: “Sì, me la metterò in vece
vostra, ma lasciatemi stare con voi”.
E lui: “No, ritirati!”
E l’ha detto con tale impero che,
non potendo resistere, in un istante mi son trovata in me stessa e non ho
potuto capire che cosa fosse il combinato.
Questa mattina il mio adorabile
Gesù, nell’atto di venire mi ha detto: “Come il sole è la luce del mondo, così
il Verbo di Dio nell’incarnarsi divenne la luce delle anime; e come il sole
materiale dà luce in generale ed a ciascuno in particolare, tanto che ognuno lo
può godere come se fosse suo, così il Verbo mentre dà luce in generale è sole
per ciascuno in particolare; tanto vero che questo sole divino ognuno lo può
tener con sé come se fosse solo”.
Chi può dire quello che
comprendevo su questa luce, e i benefici effetti che ridondano nelle anime che
tengono questo sole come se fosse loro proprio? Mi pareva che l’anima
possedendo questa luce mette in fuga le tenebre dello spirito, come il sole
materiale con lo spuntare sul nostro orizzonte mette in fuga le tenebre della
notte. Questa luce divina, se l’anima è fredda la riscalda, se è nuda di virtù
la rende feconda; se inondata dal morbo pestifero della tiepidezza, col suo
calore assorbe quell’umore cattivo. In una parola, per non andare troppo per le
lunghe, questo sole divino, introducendo[la] nel centro della sua sfera ricopre
l’anima con tutti i suoi raggi e giunge a trasformare l’anima nella sua stessa
luce.
Dopo ciò, siccome io mi sentivo
tutta affranta, Gesù, volendomi ristorare, mi ha detto: “Questa mattina voglio
dilettarmi con te”, ed ha incominciato a fare i suoi soliti stratagemmi
amorosi.
Dopo aspettare e riaspettare, il
mio dolce Gesù si faceva vedere da dentro il cuore. Mi pareva di vedere un sole
che spandeva i raggi, e guardando nel centro di questo sole vi scorgevo il
volto di Nostro Signore; ma quello che mi ha fatto stupire è che vedevo nel mio
cuore tante donzelle vestite di bianco con corona in testa, che attorniavano
questo sole divino, nutrendosi di questi raggi che spandeva questo sole. Oh,
come erano belle, modeste, umili, e tutte intente a bearsi in Gesù! Onde non
conoscendo il significato di ciò, con un po’ di timore ho chiesto a Gesù di
farmi sapere chi erano quelle donzelle, e Gesù mi ha detto: “Queste donzelle
erano le tue passioni, che ora con la mia grazia ho cambiato in tante virtù che
mi fanno nobile corteggio. Stanno tutte a mia disposizione, ed io in ricompensa
le vado nutrendo con la mia continua grazia”.
Ah, Signore, eppure mi sento
tanto cattiva che mi vergogno di me stessa!
Questa mattina ho dovuto molto
soffrire per l’assenza del mio caro Gesù, ma però ha ricompensato le mie pene
col soddisfare il mio desiderio di voler sapere una cosa che da molto tempo
bramavo. Onde dopo aver girato e rigirato in cerca di Gesù, or lo chiamavo con
la preghiera, or con le lacrime, or col canto, chi sa potesse restar ferito
dalla mia voce e così farsi trovare; ma tutto indarno. Ho replicato i gemiti, a
chiunque trovavo domandavo di lui.
Finalmente, quando il mio cuore
si sentiva crepare e che non ne potevo più, l’ho trovato, ma lo vedevo di
tergo, e ricordandomi di una resistenza che gli feci, che dirò nel libro del
confessore, gli ho chiesto perdono, e così pare che ci siamo messi d’accordo,
tanto che lui stesso mi ha domandato che cosa volessi, ed io gli ho detto:
“Compiacetevi di farmi conoscere la vostra Volontà sul mio stato, specialmente
che cosa devo fare quando mi trovo con poche sofferenze e voi non venite, e se
venite è quasi ad ombra. Onde non vedendo voi, i miei sensi me li sento in me
stessa, e trovandomi in questa posizione mi sento come se ci mettessi del mio e
non fosse necessario aspettare la venuta del confessore per uscire da quello
stato”.
E Gesù: “O soffri o non soffri, o
vengo o non vengo, il tuo stato è sempre di vittima; molto più che questa è la
mia Volontà e la tua, ed io giudico non secondo le opere che si fanno, ma
secondo la volontà con cui si opera”.
Ed io: “Signore mio, va bene come
dite, ma mi pare che sto[35]
inutile e si perde molto tempo, e mi sento un fastidio, un timore; e poi far
venire il confessore, mi tormenta l’anima che non fosse Volontà vostra”.
E lui: “Pensi tu che fosse
peccato il far venire il confessore?”
Ed io: “No, ma temo che non fosse
tua Volontà”.
E lui: “Del peccato devi fuggire
anche l’ombra, ma del resto non devi darti pensiero”.
Ed io: “Se non fosse tua Volontà
a che pro starci?”
E lui: “Oh, mi pare che la figlia
mia vuole sfuggire lo stato di vittima, non è vero?”
Ed io, tutta arrossendo, ho
detto: “No, Signore, dico questo per quando qualche volta non mi fate soffrire
e voi non venite; del[36]
resto fatemi soffrire ed io non mi darò nessun pensiero”.
E Gesù: “E a me pare che vuoi
sfuggire. Poi, sai tu quando ho riservato di venire a comunicarti le mie pene, se [al]la prima, [al]la seconda, [al]la terza o
anche [al]l’ultima ora? Onde, distraendoti da me e sforzandoti ad
uscire ti occuperai in altro, ed io venendo non ti troverò preparata e prenderò
la mia volta e me ne andrò altrove”.
Ed io tutta spaventata: “Non sia
mai, o Signore! Non voglio altro sapere che la vostra Santissima Volontà”.
E lui: “Statti calma ed aspetta
il confessore”. Detto ciò è scomparso.
Pare che mi sento sgravata da un
gran peso, da questo parlare di Gesù; ma con tutto ciò non è scemata in me la
pena dolorosa [di] quando Gesù mi priva di lui.
Avendo questa mattina fatto la
santa comunione, mi trovavo in un mare di amarezze, ché non vedevo il mio sommo
bene Gesù. Tutto il mio interno me lo sentivo messo in allarme, quando in un
istante si è fatto vedere e mi ha detto, quasi rimproverandomi:
“Non sai tu che il non
abbandonarsi in me è un volere usurpare i diritti della mia divinità, facendomi
un grande affronto? Perciò abbandonati, quieta il tuo interno tutto in me e
troverai la pace, e trovando la pace troverai me stesso”.
Detto ciò, come lampo è scomparso
senza farsi più vedere. Ah, Signore, tenetemi voi tutta abbandonata e ben
stretta nelle vostre braccia, in modo che non possa mai sfuggire, altrimenti
farò sempre delle scappatine!
Continua il benedetto Gesù a non
venire. Oh, Dio, che pena indicibile è la sua privazione! Cercavo quanto più
potevo di starmene in pace e tutta abbandonata in lui, ma che! Il mio povero
cuore non ne poteva più; facevo quanto più potevo per calmarlo e dicevo: “Cuor
mio, aspettiamo un altro poco, chi sa [se] viene. Usiamo qualche stratagemma
per tirarlo a venire”.
Onde rivolta a lui gli dicevo:
“Signore venite, l’ora si fa tarda, e voi non venite ancora? Questa mattina
cerco quanto posso a starmi quieta, eppure non vi fate trovare? Signore, vi
offro il martirio della vostra privazione come attestato d’amore e come farvi
un presente per attirarvi a venire. È vero che non son degna, ché senza di voi
mi sento mancare la vita”. E siccome non veniva gli dicevo: “Signore, o venite
o vi stancherò col mio dire, e quando vi sarete stancato, neppure allora ci
dovrete venire?”
Ma chi può dire tutti i miei
spropositi? Gliene dicevo tanti che andrei troppo per le lunghe se volessi dire
tutto. Dopo ciò, quando appena ho veduto il mio dolce Gesù che si muoveva
dentro il mio interno, come se si risvegliasse da un sonno, onde si è fatto
vedere più chiaro, e trasportandomi fuori di me stessa mi ha detto:
“Come l’uccello quando deve
volare batte le ali, così l’anima [che è] mia, ai voli dei desideri batte le
ali dell’umiltà, ed in quei battiti manda una calamita che mi attira, in modo
che mentre lei prende il suo volo per venire a me, io prendo il mio per andare
a lei”.
Ah, Signore, si vede che mi manca
la calamita dell’umiltà! Se io nel mio cammino spandessi ovunque la calamita
dell’umiltà, non stenterei tanto ad aspettare e riaspettare la tua venuta!
Dopo aver passati giorni amari e
di privazione e di rimproveri del benedetto Gesù per le mie ingratitudini e
resistenze al suo Volere ed alle sue grazie, questa mattina mi ha detto:
“Figlia mia, il passaporto per
entrare nella beatitudine che l’anima può possedere su questa terra, deve
essere firmato con tre firme, e queste sono: la rassegnazione, l’umiltà e
l’ubbidienza. La rassegnazione perfetta al mio Volere è cera che liquefa i
nostri voleri[37]
e ne forma uno solo, è zucchero e miele, ma per ogni resistenza al mio Volere
la cera si disunisce, lo zucchero si rende amaro ed il miele si converte in
veleno. Or non basta essere rassegnata, ma l’anima deve essere convinta che il
maggior bene per sé ed il maggior modo di glorificarmi è il far sempre la mia
Volontà. Ecco la necessità della firma dell’umiltà, perché l’umiltà produce
questa conoscenza. Ma chi nobilita queste due virtù, chi le fortifica, chi le
rende perseveranti, chi le incatena insieme in modo da non potersi separare,
chi le incorona? L’ubbidienza!
Ah, sì, l’ubbidienza,
distruggendo affatto il proprio volere e tutto ciò che è materiale,
spiritualizza tutto, e come corona si pone intorno. Onde la rassegnazione e
l’umiltà senza l’ubbidienza saranno soggette ad instabilità, ma con
l’ubbidienza saranno fisse e stabili. Ed ecco la stretta necessità della firma
dell’ubbidienza, per fare che questo passaporto possa correre, per passare al
regno della beatitudine spirituale che l’anima può godere di qua. Senza queste
tre firme, il passaporto non avrà valore e l’anima sarà sempre respinta dal
regno della beatitudine e sarà costretta a stare nel regno dell’inquietudine,
dei timori e dei pericoli, e per sua disgrazia avrà per dio il proprio io, e
quest’io sarà corteggiato dalla superbia e dalla ribellione”.
Dopo ciò mi ha trasportato fuori
di me stessa, dentro un giardino che pareva che fosse il giardino della Chiesa,
in cui vedevo che fuorviavano da cinque a sei persone, sacerdoti e secolari,
che unendosi coi nemici della Chiesa muovevano una rivoluzione. Che pena faceva
vedere Gesù benedetto piangere il triste stato di queste persone! Poi ho
guardato nell’aria e vedevo una nube d’acqua ripiena di pezzi di ghiaccio
grossi che cadevano sopra la terra. Oh, quanto strazio facevano sopra i
raccolti e sopra l’umanità! Ma però spero che voglia placarsi. Onde più
afflitta di prima son ritornata in me stessa.
Continua il mio amabile Gesù a
venire, quando appena e ad[38]
ombra, ed anche a[39]
venire non dice niente. Questa mattina, poi, dopo avermi rinnovato i dolori
della croce per ben due volte, guardandomi con tenerezza mentre stavo soffrendo
lo spasimo delle trafitture dei chiodi mi ha detto:
“La croce è uno specchio dove
l’anima rimira la Divinità, e rimirandosi ne ritrae i lineamenti, la
rassomiglianza più consimile a Dio. La croce non solo si deve amare,
desiderare, ma farsene un onore, una gloria della stessa croce. Questo è
operare da Dio e diventare come Dio per partecipazione, perché solo io mi
gloriai della croce e me ne feci un onore del patire e l’amai tanto che in
tutta la mia vita non volli stare un momento senza la croce”.
Chi può dire ciò che comprendevo della
croce e da questo parlare del benedetto Gesù? Ma mi sento muta d’esprimerlo con
le parole. Ah, Signore, vi prego a tenermi sempre confitta in croce, affinché
avendo sempre dinanzi questo specchio divino, possa tergere tutte le mie
macchie ed abbellirmi sempre più a vostra somiglianza!
Trovandomi nello stesso stato,
anzi, con un poco di timore per cosa mia particolare, il mio dolce Gesù nel
venire mi ha detto: “... E sono i vasi sacri ed è necessario di tanto in tanto
spolverarli. I vostri corpi sono tanti vasi sacri in cui vi faccio la mia
dimora, perciò è necessario che vi faccia di tanto in tanto delle spolveratine,
cioè che li visiti con qualche tribolazione, per fare che io vi stia sempre con
più decoro. Perciò statti calma”.
Dopo ciò, avendo fatta la santa
comunione ed egli avendomi rinnovati i dolori della crocifissione, ha
soggiunto: “Figlia mia, quanto è preziosa la croce! Vedi un po’: il sacramento
del mio corpo, nel darsi all’anima, la unisce con me, la trasmuta fino a diventare
una stessa cosa con me, ma col consumarsi delle specie si disunisce l’unione
realmente contratta; ma la croce no, [essa] prende Iddio e l’unisce con l’anima
per sempre e con maggiore sicurezza lei si pone come suggello. Dunque la croce
suggella Iddio nell’anima, in modo che non c’è mai separazione tra Dio e
l’anima crocifissa”.
Questa mattina, trovandomi fuori
di me stessa vedevo il mio dolce Gesù che soffriva molto, ed io l’ho pregato
che mi facesse parte delle sue pene, e lui mi ha detto: “Anche tu soffri,
piuttosto io mi metto nel tuo posto e tu fammi l’ufficio d’infermiera”.
Così pareva che Gesù si mettesse
nel mio letto, ed io in piedi accanto a lui; incominciavo a rialzargli la testa
e ad una ad una gli toglievo le spine che stavano conficcate nel suo benedetto
capo. Poi sono andata al suo corpo ed ho visitato tutte le sue piaghe, le[40]
asciugavo il sangue e le baciavo; ma non avevo come ungerle per mitigare lo
spasimo, quando ho visto che dal mio petto usciva un olio, ed io lo prendevo ed
ungevo le piaghe di Gesù; ma facevo ciò con un certo timore, ché non capivo che
cosa significasse quell’olio che usciva da me. Ma Gesù benedetto mi ha fatto
capire che la rassegnazione al Divino Volere è olio che, mentre unge e mitiga
le nostre pene, nel medesimo tempo è olio che unge e mitiga lo spasimo delle
piaghe di Gesù. Onde, dopo essere stata per un buon pezzo di tempo a far
quest’uffizio al mio caro Gesù, mi è scomparso ed io son ritornata in me
stessa.
Trovandomi fuori di me stessa, e
non trovando il mio dolce Gesù, ho dovuto girare molto per andare in cerca di
lui; alla fine l’ho trovato in braccio alla Regina Mamma, ma però neppure mi
guardava. Chi può dire la pena del mio povero cuore nel vedere che Gesù non si
curava di me!
Dopo ho guardato nel suo petto e
teneva una piccola perla tanto risplendente che investiva l’umanità santissima
di Nostro Signore, di luce. Onde volendo sapere il significato, ho domandato a
Gesù che cosa fosse quella perla, che mentre pare così piccola spande tanta
luce. E Gesù:
“La purità del tuo patire, che
ancorché piccolo, [ep]pure perché soffri per solo amor mio ed ancora saresti
pronta a soffrire altro se io te lo concedessi, ecco[41]
la causa di tanta luce. Figlia mia, la purità nell’operare è tanto grande che
chi opera per il solo fine di piacermi non fa altro che mandare luce in tutto
il suo operare; chi non opera rettamente, anche il bene non fa altro che
spandere tenebre”.
Quindi ho visto nel petto di
Nostro Signore che teneva uno specchio tersissimo, e pareva che chi camminava
rettamente restava tutta assorbita in quello specchio, chi no, restava fuori,
senza che potessero ricevere nessuna impronta dell’immagine del benedetto Gesù.
Ah, Signore, tenetemi tutta assorbita in questo specchio divino acciò nessun’altra
ombra d’intenzione io abbia nel mio operare.
Questa mattina, avendo fatta la
santa comunione, mi pareva che il confessore mettesse l’intenzione di farmi
soffrire la crocifissione, e all’istante ho visto l’angelo custode che mi
distendeva sulla croce per farmela soffrire.
Dopo ciò ho visto il mio dolce
Gesù che tutta mi compativa, e mi ha detto: “Il tuo refrigerio sono io, il mio
refrigerio è il tuo patire”. E mostrava un contento indicibile del mio patire,
e del confessore che con l’ubbidienza che mi aveva dato di soffrire gli aveva
procurato quel sollievo. Poi ha soggiunto: “Siccome il sacramento dell’Eucaristia
è frutto della croce, perciò mi sento più disposto a concederti il patire
quando ricevi il mio corpo, perché vedendo te patire, mi pare che non
misticamente, ma realmente continua in te la mia passione a pro delle anime, e
questo è per me un grande sollievo, perché raccolgo il vero frutto della mia
croce e dell’Eucaristia”.
Dopo ciò ha detto: “Finora è
stata l’ubbidienza che ti ha fatto soffrire; vuoi tu che [io] mi diverta un
poco col rinnovarti di nuovo la crocifissione di propria mia mano?”
Ed io, sebbene mi sentivo molto
sofferente ed ancor freschi i dolori della croce: “Rinnovatemi — ho detto —
Signore, son nelle vostre mani, fate di me ciò che volete”.
Allora Gesù tutto contento ha
incominciato a conficcarmi di nuovo i chiodi nelle mani e nei piedi; vi sentivo
tale intensità di dolore che non so io stessa come sono rimasta viva, ma io
però ero contenta perché contentavo Gesù. Onde, dopo che mi ha ribattuto i
chiodi, mettendosi a me vicino a incominciato a dire: “Quanto sei bella! Ma
quanto più cresce la tua bellezza nel tuo patire! Oh, come mi sei cara! I miei
occhi restano feriti nel guardarti, ché scorgono in te la mia stessa immagine”.
E diceva tante altre cose, che
sarebbe inutile il dirle, prima perché sono cattiva, secondo ché non vedendomi
quale il Signore mi dice, mi sento una confusione ed un rossore nel dire queste
cose; onde spero che il Signore mi farà veramente buona e bella, ed allora
scemando il mio rossore potrò descrivere il tutto. Ma per ora faccio punto.
Avendo fatta la santa comunione,
il mio dolce Gesù si è fatto vedere tutto affabilità, e siccome pareva che il
confessore mettesse l’intenzione della crocifissione, la mia natura ne sentiva
quasi una ripugnanza a sottomettersi. Il mio dolce Gesù per rincorarmi mi ha
detto:
“Figlia mia,
se l’Eucaristia è caparra della futura
gloria, la croce è sborso come comprarla. Se l’Eucaristia è seme che impedisce
la corruzione, ed è come quelle erbe aromatiche che ungendosi i cadaveri non ne
restano corrotti, e dona l’immortalità all’anima e al corpo, la croce li
abbellisce ed è tanto potente che se c’è contrazione di debiti essa se ne fa
mallevadrice, con maggior sicurezza si fa restituire la scrittura del debito
contratto, e dopo che ha soddisfatto ogni debito forma all’anima il trono più
sfolgorante nella futura gloria. Ah, sì, la croce e l’Eucaristia si avvicendano
insieme e una spera[42]
più potentemente dell’altra”.
Poi ha soggiunto: “La croce è il
mio letto fiorito, non perché non soffrivo atroci spasimi, ma perché per mezzo
della croce partorivo tante anime alla grazia, vedevo spuntare tanti bei fiori
che producevano tanti frutti celesti; quindi vedendo tanto bene, tenevo a mia
delizia quel letto di dolore e mi dilettavo della croce e del patire. Anche tu,
figlia mia, prendi come delizie le pene e dilettati di starti crocifissa nella
mia croce. No, no, non voglio che tema il patire, quasi volessi operare da
infingarda. Su, coraggio! Opera da valorosa e disponiti da te stessa al
patire”.
Mentre così diceva, vedevo il mio
buon angelo custode che stava preparato per crocifiggermi; ed io da me stessa
ho disteso le braccia e l’angelo mi crocifiggeva. Godeva il buon Gesù del mio
patire, e quanto ne ero contenta io, dacché potevo dar gusto a Gesù, [pur
essendo] un’anima così miserabile. Mi pareva che fosse un grande onore per me
il patire per amor suo.
Questa mattina mi son trovata
fuori di me stessa e vedevo tutto il cielo cosparso di croci: chi[43]
piccole, chi grandi, chi mezzane; chi più grande più dava splendore. Era un
incanto dolcissimo il vedere tante croci che abbellivano il firmamento, più
risplendenti del sole. Dopo ciò pareva che si aprisse il cielo, e si vedeva e
sentiva la festa che si faceva dai beati alla croce. Chi più aveva sofferto era
più festeggiato in questo giorno. Si distinguevano in modo speciale i martiri e
chi aveva sofferto di nascosto. Oh, in quel beato soggiorno si stimava la croce
e chi più aveva sofferto.
Mentre ciò vedevo, una voce ha
risuonato per tutto l’empireo, che diceva: “Se il Signore non mandasse le croci
sopra la terra, sarebbe come quel padre che non ha amore per i propri figli,
che invece di volerli vedere onorati e ricchi, li vuol vedere poveri e disonorati”.
Il resto che vidi di questa
festa, non ho parole come esprimerlo; me lo sento in me ma non so metterlo
fuori, perciò faccio silenzio.
Dopo aver passati giorni di
privazione, non solo, ma di turbazione ancora, questa mattina trovandomi più
turbata sul misero mio stato, l’adorabile Gesù nel venire mi ha detto: “Tu con
lo starti inquieta hai turbato il mio dolce riposo. Ah, sì, non mi fai più
riposare”.
Chi può dire quanto son rimasta
mortificata nel sentire d’aver tolto il riposo a Gesù Cristo! Con tutto ciò per
qualche ora mi son quietata, ma dopo mi son trovata più inquieta di prima, che
io stessa non so questa volta dove andrò a finire. Dopo quelle due parole che
ha detto Gesù, mi son trovata fuori di me stessa, e guardando nella volta dei
cieli vi scorgevo tre soli: uno pareva che si posasse all’oriente, l’altro
all’occidente, il terzo a mezzogiorno. Era tanto lo splendore dei raggi che
tramandavano, che si univano l’uno con l’altro in modo che formavano uno solo.
Mi pareva di vedere il mistero della Santissima Trinità, e l’uomo formato con
le tre potenze ad immagine di essa. Comprendevo pure che chi stava in quella
luce, restava trasformata la memoria nel Padre, l’intelletto nel Figlio, la
volontà nello Spirito Santo. Quante cose comprendevo! Ma non so manifestarlo.
Continua lo stesso stato e forse
anche peggio, sebbene faccio quanto posso a starmi quieta senza turbarmi perché
così vuole l’ubbidienza, ma con tutto ciò non lascio di sentirne il peso
dell’abbandono che mi preme e giunge fino a schiacciarmi. O Dio, che stato è
codesto? Ditemi almeno, dove vi ho offeso? Qual ne è la causa? Ah, Signore, se
volete continuare in questo modo, credo che non potrò più aver resistenza!
Onde, quando appena si è fatto
vedere mettendomi una mano sotto il mento in atto di compatirmi, e mi ha detto:
“Povera figlia, come ti sei
ridotta!” E facendomi parte delle sue pene, come lampo è scomparso, lasciandomi
più afflitta di prima come se non fosse venuto; anzi mi sento come se non fosse
venuto da tanto tempo e vi provo tale afflizione, che vivo e il mio vivere è un
continuo agonizzare. Ah, Signore, porgetemi aiuto e non mi lasciate in abbandono,
sebbene lo merito.
Continua lo stesso stato di
privazione e di abbandono. Onde trovandomi
fuori di me stessa, vedevo un’inondazione d’acqua mista con grandine e
pareva che varie città ne restassero inondate con tale[44]
danno. Mentre ciò vedevo mi trovavo in grande costernazione, perché volevo
impedire quell’inondazione, ma siccome mi trovavo sola, molto più che non avevo
meco Gesù, quindi le mie povere braccia me le sentivo deboli per poter ciò
fare. Onde con mia sorpresa ho veduto venire (mi pareva che fosse dall’America)
una vergine e, lei da un punto ed io dall’altro, ci siamo riuscite ad impedire
in gran parte il flagello che ci minacciava.
Dopo ciò, essendoci riunite
insieme, scorgevo quella vergine con le insegne della passione, coronata con
corona di spine, come pure mi trovavo io; e una persona che mi pareva che fosse
un angelo diceva: “Oh, potenza delle anime vittime! Ciò che non è dato a noi
angeli di fare, con le loro sofferenze possono far loro. Oh, se gli uomini
sapessero il bene [che viene] da loro, perché stanno per il bene pubblico e
particolare, non farebbero altro che implorare da Dio che si moltiplicasse[ro]
queste anime sulla terra!”
Dopo ciò, avendoci detto[45]
che ci raccomandassimo a vicenda al Signore, ci siamo separate.
Trovandomi ancor priva
dell’adorabile Gesù mio, al più [vedevo] qualche ombra. Oh, quanto mi costa
amaro! Quante lacrime mi conviene versare! Questa mattina, dopo aver aspettato
e ricercato, l’ho trovato accanto a me tutto afflitto con la corona di spine
che gli trafiggeva la testa; gliel’ho tolta pian piano e l’ho messa sulla mia.
Oh, quanto mi vedevo cattiva innanzi alla sua presenza! Non avevo forza di dire
una sola parola.
Gesù avendo di me compassione mi
ha detto: “Fatti cuore, non temere, cerca di riempire il tuo interno di me e
d’impregnarlo di tutte le virtù fino a traboccarne fuori, e quando giungerai a
farne il trabocco, allora ti porterò nel cielo e finiranno tutte le tue privazioni”.
Dopo ciò, prendendo un’aria
afflitta ha soggiunto: “Figlia mia, prega, perché stanno preparati tre distinti
giorni, l’uno lontano dall’altro, di tempeste, grandine e fulmini, inondazioni
che faranno gran danno agli uomini ed alle piante”.
Detto ciò è scomparso lasciandomi
un po’ più sollevata nello stato in cui mi trovo, ma con un pensiero: “Chi sa
quando farò questo trabocco fuori? E se non lo faccio mai, mi converrà forse
starmene sempre lontana da lui”.
Trovandomi fuori di me stessa, mi
pareva che fosse notte e vedevo tutto l’universo, tutto l’ordine della natura,
il cielo stellato, il silenzio notturno; insomma mi pareva che tutto avesse un
significato. Mentre ciò vedevo, mi pareva vedere Nostro Signore che prendendo
la parola su ciò che vedevo ha detto:
“Tutta la natura invita ad un
riposo, ma qual è il vero riposo? È il riposo interno, il silenzio di tutto ciò
che non è Dio. Vedi le stelle scintillanti di luce temperata, non abbagliante
come il sole, il sonno, il silenzio di tutta la natura, degli uomini e fin
degli animali, che tutti cercano un luogo, una tana dove starsene in silenzio e
riposarsi dalla stanchezza della vita. Se ciò è necessario per il corpo, molto
più per l’anima. È necessario riposarsi nel suo proprio centro che è Dio. Ma
per potersi riposare in Dio è necessario il silenzio interno, come al corpo è
necessario il silenzio esteriore per potersi placidamente addormentare. Ma qual
è questo silenzio interiore? È di far zittire le proprie passioni col tenerle a
posto, di imporre silenzio ai desideri, alle inclinazioni, agli affetti, insomma,
a tutto ciò che non chiama Dio.
Or qual è il
mezzo per giungere l’uomo a ciò? L’unico
mezzo ed assolutamente necessario è di disfare il proprio essere secondo la
natura, ridurlo al nulla come un nulla era prima che fosse creato; e quando
avrà ridotto al nulla il suo essere, riprenderlo in Dio. Figlia mia, tutte le
cose dal nulla hanno principio. Questa stessa macchina dell’universo che tu
rimiri con tanto ordine, se prima di crearla fosse stata ripiena d’altre cose,
non avrei potuto mettere la mia mano creatrice per farla con tanta maestria e
renderla tanto splendida ed ornata; al più avrei potuto disfare tutto ciò che
ci poteva essere, e poi rifarla come a me piaceva. Ma siamo sempre lì, che
tutte le mie opere dal nulla hanno principio, e quando c’è mischianza di altre
cose non è decoroso della mia Maestà scendere ed operare nell’anima; ma quando
l’anima si riduce al nulla e risale a me e prende il suo essere nel mio, allora
io vi opero da quel Dio che sono, e l’anima vi trova il vero riposo. Eccoti che
tutte le virtù dall’umiltà e dall’annientamento di sé stesso hanno principio”.
Chi può dire quanto comprendevo
su ciò che mi diceva il benedetto Gesù? Oh, come felice sarebbe l’anima mia se
potessi giungere a disfare il mio povero essere per poter ricevere dal mio Dio
il suo Essere Divino! Oh, come mi nobiliterei, come resterei santificata! Ma
quale sciocchezza è la mia? dove mi abbia[46]
il cervello se ancor non lo faccio? Che miseria umana che, invece di cercare il
suo vero bene e di prendere il suo volo in alto, si contenta di arrampicarsi
per terra e di vivere nel fango e nel marciume!
Dopo ciò il mio diletto Gesù mi
[ha] trasportata dentro un giardino, dove era molta gente che si preparava ad
assistere ad una festa, ma solo quelli che ricevevano una divisa vi potevano
assistere, ed erano pochi quelli che ricevevano questa divisa. Venne a me gran
voglia di riceverla, e tanto ho fatto che ho ottenuto l’intento. Onde giunta al
punto dove si riceveva, una matrona veneranda, prima mi ha vestita di bianco,
poi mi ha messo una tracolla celeste da cui pendeva una medaglia improntata del
volto di Gesù, e che mentre era volto, era insieme specchio, che rimirandolo si
scorgeva[no] le più piccole macchie, che l’anima con l’aiuto di una luce che
veniva da dentro quel volto facilmente si poteva togliere. Mi pareva che quella
medaglia racchiudesse un senso misterioso. Dopo ha preso un manto d’oro
finissimo e tutta mi ha coperta. Mi pareva che così tutta vestita potessi gareggiare
con le vergini comprensorie[47].
Mentre ciò succedeva, Gesù mi ha detto: “Figlia mia, ritorniamo a vedere ciò
che fanno gli uomini; basta che sei[48]
vestita, [e] quando sarà la festa allora ti porterò ad assistere”.
Così, dopo aver girato un poco,
mi ha trasportato al mio posto.
Questa mattina il mio adorabile
Gesù non veniva; onde dopo molto aspettare è venuto, e carezzandomi mi ha
detto: “Figlia mia, sai tu qual è la mia mira su di te e lo stato che voglio da
te?”
E soffermandosi un poco ha
soggiunto: “La mira che ho [su] di te non è di cose prodigiose e di tante cose
che potrei operare su di te per mostrare l’opera mia, ma la mia mira è di
assorbirti nella mia Volontà e di farne una sola [con la tua] e di lasciare di
te un esemplare perfetto di uniformità del tuo col mio Volere. Ma ciò è lo
stato più sublime, è il prodigio più grande, è il miracolo dei miracoli che di
te intendo fare. Figlia mia, per giungere perfettamente a fare uno il nostro
Volere, l’anima deve rendersi invisibile, deve imitare me, che mentre riempio
il mondo col tenerlo assorbito in me e col non restare assorbito in esso, mi
rendo invisibile, ché da nessuno mi lascio vedere.
Ciò significa che non c’è nessuna
materia in me, ma tutto è purissimo Spirito; e se nella mia umanità assunta
presi la materia, fu per rassomigliarmi in tutto all’uomo e dargli un esemplare
perfettissimo [di] come spiritualizzare questa stessa materia. Onde l’anima
deve tutto in sé spiritualizzare e giungere a rendersi come se fosse un puro
spirito, e la materia in lei più non esistesse, quasi fosse sparita e resa
invisibile per poter formare facilmente una la tua con la mia Volontà, perché
ciò che è invisibile può essere assorbito in un altro oggetto. Di due oggetti,
dei quali si vuol formare uno solo, è necessario che uno perda la propria
forma, altrimenti mai si giungerebbe a formare un solo essere. Quale fortuna
sarebbe la tua se, distruggendo te stessa fino a renderti invisibile, potessi
ricevere una forma tutta divina! Anzi tu, col restare assorbita in me ed io in
te formando un solo essere, verresti a ritenere in te la fonte divina; e
siccome la mia Volontà contiene ogni bene che ci può mai essere, verresti a
ritenere tutti i beni, tutti i doni, tutte le grazie, e non avresti a cercarli
altrove, ma in te stessa.
E se le virtù non hanno confine,
stando nella mia Volontà, secondo che[49]
la creatura può giungere troverà il suo[50]
termine, perché la mia Volontà fa giungere ad acquistare le virtù più eroiche e
più sublimi, che la creatura non può sorpassare. È tanta l’altezza della
perfezione dell’anima disfatta nel mio Volere, che giunge ad operare come Dio;
e questo non è meraviglia, perché siccome non vive più la sua volontà in essa,
ma la Volontà di Dio medesimo, cessa ogni stupore se vivendo con questa Volontà
possiede la potenza, la sapienza, la santità e tutte le altre virtù che
contiene lo stesso Dio. Basta dirti, per fare che tu t’innamori e cooperi
quanto puoi da parte tua per giungere a tanto, che l’anima che giunge a vivere
del solo mio Volere è regina di tutte le regine ed il suo trono è tanto alto
che giunge fino al trono dell’Eterno; ed entra nei segreti dell’Augustissima
Triade e partecipa all’amore reciproco del Padre, del Figlio e dello Spirito
Santo. Oh, come tutti gli angeli ed i santi la onorano, gli uomini l’ammirano
ed i demoni la temono scorgendo in lei l’Essere Divino!”
Ah, Signore, quando mi farete
giungere a questo? Perché da me niente posso.
Or chi può dire ciò che il
Signore infondeva in me con luce intellettuale su questa uniformità di voleri!
È tanta l’altezza dei concetti, che la mia lingua non bene [in]dirizzata non ha
parole come esprimerlo. Appena ho potuto dire questo poco, sebbene
spropositando, di ciò che il Signore con luce vivissima mi fece comprendere.
Trovandomi molto afflitta per la
privazione del mio adorabile Gesù, al più si faceva vedere ad ombra ed a lampo,
sento proprio che non posso tirare più innanzi se lui vuole continuare più oltre. Onde trovandomi nel sommo
dell’afflizione, per un poco si è fatto vedere tutto stanco, come se avesse
bisogno di un ristoro, e menando le sue braccia al mio collo mi ha detto:
“Diletta mia, portami dei fiori e
circondami tutto, che mi sento languire d’amore. Figlia mia, l’odoroso profumo
dei tuoi fiori mi sarà di ristoro e vi porrà un rimedio ai miei mali, che[51]
languisco e vengo meno”.
Ed io subito ho soggiunto: “E
voi, diletto mio Gesù, datemi dei frutti, che l’ozio e lo scarso patire
aumentano talmente il mio languire, che vengo meno fino a sentirmi morire. Ed
allora non solo dei fiori, ma potrò darvi dei frutti per poter maggiormente
ristorare il vostro languire”.
E Gesù ha ripreso il suo dire e
mi ha detto: “Oh, come ci combiniamo bene! Non è vero? Pare che il tuo volere è
uno col mio”.
Per un momento pare che sono
rimasta sollevata, come se volesse cessare lo stato in cui mi trovavo; ma dopo
poco mi son trovata immersa nello stesso letargo di prima, priva del mio sommo
Bene, abbandonata e sola.
Questa mattina, sentendomi più
che mai afflitta per la privazione del mio sommo Bene, quando appena mi si è
fatto vedere e mi ha detto:
“Come un vento impetuoso investe
le persone e penetra fin nelle viscere in modo da scuotere tutta la persona, così il mio amore e la mia grazia,
impennandosi sulle ali dei venti, investe e penetra nel cuore, nella
mente e nelle più intime parti dell’uomo. Con tutto ciò, l’uomo ingrato
respinge la mia grazia e mi offende. Qual non è il mio acerbo dolore!”
Io però me ne stavo tutta confusa
ed annientata in me stessa e non ardivo di dire una parola. Solo pensavo: “Come
è che non viene? Ed anche a venire[52],
non lo veggo chiaro; pare che ho perduto la chiarezza. Chi sa se lo vedrò
svelato il suo bel volto come prima?” Mentre così pensavo, il mio benigno Gesù
ha soggiunto: “Figlia mia, perché temi se il tuo stato è in excelsis per
l’unione dei nostri voleri?”
E volendomi rincorare e compatire
lo stato mio doloroso, mi ha detto: “Tu sei il mio novello Giobbe. Non ti
opprimere [in modo] soverchio se non mi vedi con chiarezza. Te lo dissi fin
dall’altro giorno che non ci vengo secondo il solito, ché voglio castigare le
genti; e se tu mi vedessi con chiarezza verresti a comprendere con chiarezza
ciò che io sto facendo, ed il tuo cuore siccome ha ricevuto l’innesto del mio,
quindi conosco io quello che tu verresti a soffrire, come sta soffrendo il mio
cuore ché mi veggo costretto a castigare le mie creature. Anche per
risparmiarti queste pene non mi faccio vedere con chiarezza”.
Chi può dire la trafittura che ha
lasciato al mio povero cuore! Ah, Signore, datemi la forza a sostenere il dolore!
Continuando a stare nello stesso
stato, mi sentivo tutta oppressa ed avevo tutta la necessità di un sostegno per
poter sopportare la privazione del mio sommo Bene. Il benedetto Gesù, avendo di
me compassione, per qualche minuto ha mostrato il suo volto da dentro il mio
cuore, però non con chiarezza, e facendo sentire la sua soavissima voce mi ha
detto: “Coraggio, figlia mia, un altro poco lasciami finire di castigare, che
dopo ci verrò come prima”.
Mentre così diceva, nella mia
mente gli ho domandato: “Quali sono i castighi che hai incominciato a mandare?”
E lui ha soggiunto: “La pioggia
continuata è più che grandine [per ciò] che sta facendo, e vi porterà delle
tristi conseguenze sopra le genti”.
Detto ciò è scomparso, ed io mi
son trovata fuori di me stessa, dentro un giardino, e da lì dentro vi vedevo i
raccolti disseccati nelle vigne; e dentro di me andavo dicendo: “Povere genti,
povere genti, come faranno?”
Mentre così dicevo, dentro quel
giardino vi era un ragazzino che piangeva e gridava tanto forte che assordava
cielo e terra, ma nessuno aveva di lui compassione, sebbene lo sentivano tutti
che così piangeva, tanto che non si brigavano di lui e lo lasciavano
abbandonato a solo. Un pensiero mi è balenato: “Chi sa che non fosse Gesù?” Ma
non ne son rimasta certa. Onde avvicinandomi a lui ho detto: “Che hai che
piangi, bambino caro? Vuoi venire insieme con me, giacché tutti ti hanno
lasciato in preda alle lacrime ed al dolore che tanto ti opprime, che ti fa
gridare così forte?”
Ma che! Chi poteva quietarlo? Appena
con singulti ha risposto che sì, se ne voleva venire. Onde l’ho preso per mano
per condurlo insieme con me, e nell’atto stesso di ciò fare mi son trovata in
me stessa.
Trovandomi nello stesso stato,
questa mattina per qualche poco[53]
ho visto il mio adorabile Gesù che se ne stava dentro il mio cuore che dormiva;
ed il suo sonno attirava l’anima mia ad assonnarmi insieme con lui, tanto che
mi sentivo tutte le interiori potenze tutte addormentate, senza più agire.
Delle volte mi sforzavo di uscire da quel sonno, ma non potevo; quando per poco
si è destato il benedetto Gesù ed ha mandato tre volte il suo alito dentro di
me, e mi pareva che lui restasse tutto assorbito in me. Dopo mi pareva che Gesù
se li attirasse un’altra volta dentro di sé, quei tre aliti che mi aveva
mandato, ed io mi son trovata tutta trasformata in lui. Chi può dire ciò che
succedeva in me, da questi tre soffi divini? Oh, l’unione inseparabile tra me e
Gesù, non ho parole da esprimerlo!
Dopo ciò mi pare che mi son
potuta destare, e Gesù rompendo il silenzio mi ha detto: “Figlia mia, ho
guardato e riguardato, ho cercato e ricercato scorrendo per tutta la terra, ma
in te ho fissato i miei sguardi ed ho trovato le mie compiacenze, e ti ho
eletta tra mille”.
Poi volgendosi a certe persone
che vedeva, li ha ripresi col dir loro: “La mancanza di stima della persona
altrui è mancanza di vera umiltà cristiana e di dolcezza, perché uno spirito
umile e dolce sa rispettare tutti ed interpreta sempre bene i fatti altrui”.
Detto ciò è scomparso senza che
io avessi potuto dirgli una parola. Sia sempre benedetto che così vuole, e sia
tutto per sua gloria.
Siccome continuava il mio
adorabile Gesù a non farsi vedere con chiarezza, questa mattina, avendo fatta
la santa comunione, il confessore ha messo l’intenzione della crocifissione.
Mentre mi trovavo in quelle sofferenze, il benedetto Gesù quasi tirato dalle
mie pene si è mostrato con chiarezza. Oh, Dio, e chi può dire le sofferenze che
pativa Gesù e lo stato violento in cui si trovava mentre era costretto a
mandare i castighi! Faceva tale violenza che non voleva mandarli! Faceva tale
compassione vederlo in questo stato, che se gli uomini lo potessero vedere,
ancorché i loro cuori fossero di diamante, si spezzerebbero per tenerezza come
fragil vetro. Onde ho incominciato a pregarlo che si placasse e che si
contentasse di farmi soffrire a me e risparmiasse il popolo.
Poi ho soggiunto: “Signore, se
non volete dare ascolto alle mie preghiere, [ri]conosco che lo merito. Se non
volete avere compassione dei popoli, ne avete ragione, perché grandi sono le
nostre iniquità; ma vi chieggo in grazia che abbiate pietà della violenza che
vi fate nel punire le vostre immagini. Ah! Sì, ve lo chieggo per amor di voi
stesso, che non mandiate castighi fino a togliere il pane ai vostri figli e
farli perire. Oh, no, non è della natura del vostro cuore operare in questo
modo! Ecco perciò la violenza che provate, che se avesse potere vi darebbe la
morte”.
E lui tutto afflitto mi ha detto:
“Figlia mia, è la giustizia che mi fa violenza, e l’amore che ho verso gli
uomini mi usa violenza più forte, da mettere il mio cuore in angoscia di morte
nel punire le creature”.
Ed io: “Perciò, Signore,
scaricate sopra di me la giustizia, ed il vostro amore non sarà più violentato
dalla giustizia e non si troverà in contrasti di castigare le genti, che
davvero come faranno se voi fate, come mi fate comprendere, disseccare tutto
ciò che serve all’alimento dell’uomo? Deh! Vi prego, lasciatemi soffrire a me
e risparmiate loro, se non in tutto, almeno in parte”.
E Gesù, come se si vedesse
costretto dalle mie preghiere, si è avvicinato alla mia bocca ed ha versato
dalla sua un poco d’amarezza densa e stomachevole, che appena trangugiata mi ha
prodotto tali e tante specie di pene che mi sentivo morire. Allora il benedetto
Gesù, sostenendomi in quelle pene, altrimenti sarei rimasta vittima (eppure non
era stato altro che un poco che aveva versato; che sarà del suo cuore adorabile
che tanto ne conteneva?), ha mandato un sospiro come se si fosse sollevato da
un peso, e mi ha detto: “Figlia mia, la mia giustizia aveva deciso di
distruggere tutto, ma ora sgravandosi un poco sopra di te, per amor tuo concede
un terzo di ciò che serve all’alimento dell’uomo”.
Ed io: “Ah, Signore, è troppo
poco, almeno metà!”
E lui: “No, figlia mia,
contentati”.
Ed io: “No, Signore; almeno se
non volete contentarmi per tutti, contentatemi per Corato e per quelli che mi
appartengono”.
E Gesù: “Oggi sta preparata una
grandine che deve fare gran danno. Tu stai coi dolori della croce; esci fuori
di te stessa in forma di crocifissa, va’ nell’aria e metti in fugga i demoni da
sopra Corato, che alla forma crocifissa non potranno resistere ed andranno
altrove”.
Così sono uscita fuori di me
stessa, crocifissa, ed ho visto la grandine ed i fulmini che stavano per
scoppiare sopra Corato. Chi può dire lo spavento dei demoni, come se la davano
a gambe alla vista della mia forma crocifissa, come si morsicavano le dita per
rabbia! E giungevano a prendersela contro il confessore, che questa mattina mi
aveva dato l’ubbidienza di soffrire la crocifissione, giacché con me non se la
potevano prendere, anzi erano costretti a fuggire da me per il segno della
redenzione che vi scorgevano. Onde dopo di averli messi in fuga, mi sono
ritirata in me stessa trovandomi con una buona dose di patimenti. Sia tutto per
la gloria di Dio.
Siccome mi trovavo in qualche
modo sofferente, mi pareva che quelle sofferenze erano una dolce catena che tirava il mio buon Gesù a farlo venire quasi [di]
continuo, e mi pareva che quelle pene chiamavano Gesù a fargli versare
altre amarezze. Onde nel venire, or mi sosteneva nelle sue braccia per darmi
forza ed ora versava di nuovo. Io però di tanto in tanto gli dicevo: “Signore,
adesso sento in me parte delle vostre pene, vi prego di contentarmi, come vi
dissi ieri, di darmi almeno la metà di ciò che serve ad alimentare l’uomo”.
E lui:
“Figlia mia, per contentarti ti consegno le
chiavi della giustizia e la conoscenza di quanto è necessario assolutamente
punire l’uomo, e con ciò farai quello che ti piace. Non ne sei contenta?”
Nel sentire dirmi ciò mi
consolai, e dicevo nel mio interno: “Se starà a me, non castigherò affatto
nessuno”. Ma quanto restai disingannata quando il benedetto Gesù mi diede una
chiave e mi mise in mezzo ad una luce, ché guardando da mezzo a quella luce
scorgevo tutti gli attributi di Dio, come pure quello della giustizia! Oh, come
è tutto ordinato in Dio! E se la giustizia punisce, è ordine; e se non punisse
non starebbe in ordine cogli altri attributi. Onde mi vedevo misero verme in
mezzo a quella luce, che se volessi impedire il corso alla giustizia, guasterei
l’ordine ed andrei contro gli uomini stessi, perché comprendevo che la stessa
giustizia è amore purissimo verso di loro.
Onde mi son trovata tutta confusa
ed imbarazzata, perciò per sbarazzarmi ho detto a Nostro Signore: “Con questa
luce di cui mi avete circondato, capisco le cose diversamente, e se lasciaste
fare a me farei peggio che voi, perciò non accetto questa conoscenza e vi
ringrazio [per] le chiavi della giustizia. Quello che accetto e voglio è che
facciate soffrire me e che risparmiate le genti; del resto non voglio sapere
niente”.
E Gesù, sorridente al mio dire,
mi ha detto: “Come, subito vuoi sbarazzarti non volendo conoscere nessuna
ragione? e volendomi fare più forte violenza te ne vuoi uscire con due parole:
‘Fate soffrire a me e risparmiate loro’?”
Ed io: “Signore, non è che non
voglio sapere ragione, ma perché non è ufficio mio ma vostro; il mio ufficio è
quello di essere vittima. Perciò voi fate il vostro ufficio ed io faccio il
mio. Non è vero mio caro Gesù?”
E lui mostrando come
un’approvazione mi è scomparso.
Mi pare che il mio adorabile Gesù
continua a dimezzare la giustizia col versare un poco su di me ed il resto
sopra le genti. Questa mattina specialmente, quando mi son trovata con Gesù, mi
si strappava l’anima nel vedere la tortura del suo dolcissimo cuore nel
castigare le creature. Era tanto lo stato sofferente in cui si trovava Gesù,
che non faceva altro che mandare continui gemiti. Teneva in testa una folta
corona di spine, tutta incarnata dentro, tanto che la testa pareva un pezzo di
spine. Onde per sollevarlo un poco gli ho detto: “Dimmi mio Bene, che hai che
sei tanto sofferente? Permettete che vi tolga queste spine, che vi tormentano
non poco!”
Ma Gesù non mi rispondeva, anzi
neppure ascoltava ciò che io dicevo. Quindi mi son messa a togliere quelle
spine ad una ad una, e dopo quella corona l’ho messa nella mia testa. Or mentre
ciò facevo, ho visto che a parte lontane[54]
doveva fare un terremoto che avrebbe fatto strage di gente. Dopo, Gesù è
scomparso ed io son ritornata in me stessa, ma con somma mia afflizione nel pensare allo stato sofferente di Gesù ed alle
sciagure della misera umanità.
Questa mattina, nel venire il mio
amabile Gesù, ho incominciato a dire: “Signore, che fate? Pare che vi
inoltriate troppo con la giustizia”. Mentre volevo continuare a dire per
scusare le miserie umane, Gesù mi ha imposto silenzio col dirmi: “Taci, se vuoi
che mi trattenga con te, vieni a baciarmi e a salutarmi, con le tue solite
adorazioni, tutte le mie membra sofferenti”.
Così ho incominciato dalla testa
e poi man mano per tutte le altre membra. Oh, quante piaghe profonde conteneva
quel corpo sacrosanto che al solo guardarlo metteva raccapriccio! Onde, non appena
ho finito è scomparso, lasciandomi con scarsissimo patire e con un timore: chi
sa come si verserà sopra le genti, che non si è benignato di versare sopra di
me le sue amarezze!
Dopo poco è venuto il confessore
e gli ho detto ciò che dissi di sopra e lui mi ha risposto: “Oggi per
ubbidienza assoluta, quando fai la meditazione devi pregarlo che ti faccia
soffrire la crocifissione e che cessi di mandare i flagelli”.
Così quando ho fatta la
meditazione l’ho pregato secondo l’ubbidienza ricevuta. Quando appena, si
faceva vedere, ma senza darmi retta, anzi, or si faceva vedere che volgeva le
spalle alle genti, or che dormiva per non essere da me importunato, e che so
io; mi sentivo crepare che non si curava di farmi fare l’ubbidienza, onde ho
preso coraggio, e mettendo tutta la fiducia nella santa ubbidienza l’ho preso
per braccio per risvegliarlo e gli ho detto: “Signore, che fate, questo è
l’amore che portate alla vostra virtù tanto prediletta dell’ubbidienza? Questi
sono gli elogi che tante volte le avete dati? Questi sono gli onori che avete
prodigati, fino a dire che vi sentite scosso e non potete resistere alla virtù
dell’ubbidienza e vi sentite soggiogare dall’anima che si dona a questa virtù,
che adesso pare che non vi curate di farmi ubbidire?”
Mentre ciò dicevo ed altre cose
che andrei troppo per le lunghe se volessi scriverle, il benedetto Gesù si è
scosso, e come colpito da vivissimo dolore ha dato in dirottissimo pianto, e
singhiozzando ha detto:
“Anch’io non voglio mandare
flagelli, ma è la giustizia che mi costringe, e quasi per forza; ma tu con
questo parlare vuoi pungermi al vivo, è toccarmi un tasto per me troppo
delicato e da me molto amato, tanto che non volli altro onore né altro titolo
che quello di ubbidiente. Ed ecco, per farti vedere che non è che non mi curo
di farti ubbidire, con tutto ciò che[55]
la giustizia mi costringe a non farlo, ti partecipo in parte i dolori della
croce”.
Mentre ciò diceva è scomparso,
lasciandomi contenta che mi ha fatto ubbidire, e con un dispiacere nell’anima,
come se fossi stata causa di far piangere il Signore col mio parlare. Ah,
Signore, vi prego a perdonarmi!
Trovandomi non poco sofferente,
il mio adorabile Gesù, nel venire, tutta mia compativa e mi ha detto: “Figlia
mia, che hai che soffri tanto? Lasciami sollevarti un poco”.
Ma Gesù era più sofferente di me.
Così ha baciato l’anima mia; siccome era crocifisso mi ha tirato fuori di me
stessa ed ha messo le mie mani nelle sue, i miei piedi nei suoi, la mia testa
poggiava sulla sua e la sua sopra la mia. Come ero contenta nel trovarmi in
questa posizione! Sebbene i chiodi e le spine di Gesù mi davano dolori, pure
erano dolori che mi davano gioia perché sofferti per l’amato mio Bene, anzi
avrei voluto che più crescessero.
Anche Gesù pareva contento di me,
che mi teneva in quel modo attirata a sé. Mi pareva che Gesù ristorava me ed io
fossi di ristoro a lui. Onde in questa posizione siamo usciti fuori, ed avendo trovato
il confessore, subito l’ho pregato per i bisogni di lui e ho detto al Signore
che si benignasse di fare sentire quanto è dolce e soave la sua voce, al
confessore.
Gesù per contentarmi si è rivolto
a lui ed ha parlato della croce col dire: “La croce assorbe nell’anima la mia
Divinità, la rassomiglia alla mia umanità, e ricopia in sé stessa[56]
le mie stesse opere”.
Dopo abbiamo continuato a girare
un altro poco, ed oh! Quante viste dolorose, che trafiggevano l’anima parte a
parte: le gravi iniquità degli uomini che neppure si abbassano a fronte nella[57]
giustizia, anzi si scagliano con maggiore furore, quasi che volessero rendere
ferite per doppie ferite[58];
e la grande miseria che loro stessi si stanno preparando. Onde con nostro sommo
rammarico ci siamo ritirati. Gesù è scomparso ed io mi sono ritirata in me
stessa.
Siccome questa mattina il
benedetto Gesù non ci veniva, nel mio interno mi sentivo suscitare qualche ombra
di turbazione sul perché non ci veniva; onde nel venire mi ha detto:
“Figlia mia, contenersi in Dio e
non uscire dai confini della pace è tutto lo stesso; sicché se tu avverti un
poco di turbazione è segno che fai un poco di uscita da dentro Dio. Perché
contenersi in lui e non aver perfetta pace è impossibile, molto più che i
confini della pace sono interminabili, anzi tutto ciò che a Dio appartiene, tutto
è pace”.
Dopo ha soggiunto: “Non sai tu
che le privazioni dell’anima servono come l’inverno alle piante, che mettono
più profonde le radici, le fortifica, e le fa rinverdire e fiorire a maggio?”
Dopo ciò mi ha trasportata fuori
di me stessa, ed avendogli raccomandato vari bisogni, è scomparso ed io mi sono
trovata in me stessa, con un gran desiderio di tenermi sempre dentro Dio,
acciocché mi potessi trovare nei confini della pace.
Seguitando [Gesù] a non venire,
ho cercato di applicarmi a considerare il mistero della flagellazione. Mentre
ciò facevo, quando appena, ho visto il benedetto Gesù tutto piagato e grondante
sangue, e mi ha detto:
“Figlia mia, il cielo con tutto
il creato ti addita l’amor di Dio, il mio corpo piagato ti addita l’amor del
prossimo; tanto che[59]
la mia umanità è unita alla mia Divinità, [che] di due nature ne feci una sola
Persona e così in me le due nature resi inseparabili, per cui non solo
soddisfeci alla divina giustizia, ma operai la salvezza degli uomini. E per
fare che tutti assumessero questo obbligo d’amare Dio ed il prossimo, non solo
ne feci un solo, ma giunsi a farne un precetto divino. Sicché le mie piaghe ed
il mio sangue sono tante lingue che insegnano ad ognuno il modo d’amarsi e
l’obbligo che tutti hanno di badare alla salvezza altrui”.
Dopo, prendendo un aspetto più
afflitto, ha soggiunto: “Che tiranno spietato è per me l’amore, che non solo
impiegai tutto il corso della mia vita mortale in continui sacrifizi, fino a
morire svenato sopra una croce, ma mi lasciai vittima perenne nel sacramento
dell’Eucaristia; e questo non solo, ma tutte le mie membra predilette le tengo
vittime viventi in continue sofferenze, impiegate per la salvezza degli uomini;
come fra tanti ho eletto te per tenerti sacrificata per amor mio e per gli
uomini. Ah, sì, il mio cuore non trova requie né riposo se non trova l’uomo! E
l’uomo, come corrisponde? Con ingratitudini enormissime!”
Detto ciò è scomparso.
Questa mattina, trovandomi fuori
di me stessa e non trovando il mio sommo Bene, ho dovuto girare e rigirare in
cerca di lui. Quando mi sono stancata [fino] a sentirmi venir meno, me lo son
sentito dietro le spalle, che mi sorreggeva. Onde ho distesa la mano e l’ho
tirato innanzi dicendogli: “Diletto mio, sai che non posso stare senza di te!
Eppure mi fai tanto aspettare fino a venir meno. Dimmi almeno qual ne è la
causa? Dove ti ho offeso, che mi sottoponi a strazi così crudeli e a martìri
così dolorosi qual è la tua privazione?”
E Gesù interrompendo il mio dire
mi ha detto: “Figlia mia, figlia mia, non accrescere più lo strazio al mio
cuore esacerbato al sommo, trovandosi in continua lotta per le violenze che
continuamente tutti mi fanno: violenza mi fanno le iniquità degli uomini, che
attirando su di loro la giustizia mi sforzano a castigarli; e la giustizia
cozzandosi in continua lotta con l’amore che ho verso gli uomini, mi straziano
il cuore in modo sì doloroso da farmi morire continuamente. Violenza mi fai tu,
che venendo io e conoscendo tu i castighi che sto facendo, non te ne stai
quieta, no, ma mi sforzi, mi fai violenza, e non vuoi che castighi; e conoscendo
io che tu non puoi fare diversamente alla mia presenza, per non esporre il
cuore ad una lotta più fiera mi astengo dal venire. Perciò non volermi
violentare a farmi venire per ora, lasciami sfogare il mio furore e non volere
accrescere le mie pene col tuo parlare.
Del resto non voglio che ci
pensi, perché l’umiltà più sublime è quella di perdere ogni ragione e di non
discorrere sul perché e come, ma di disfarsi nel proprio nulla; e mentre sta
ciò facendo, senza avvedersi si trova dispersa in Dio, e ciò produce nell’anima
l’unione più intima, l’amore più perfetto verso il sommo Bene; però con sommo
vantaggio dell’anima, perché perdendo la propria ragione acquista la ragione
divina; e perdendo ogni discorso sul conto proprio, cioè se fredda o calda, se
favorevoli o avverse le cose che le succedono, non se ne interesserà ed
acquisterà un linguaggio tutto celeste e divino. Oltre di ciò l’umiltà produce
nell’anima una veste di sicurezza, onde involta in questa veste di sicurezza,
l’anima se ne sta nella calma più profonda, tutta abbellendosi per piacere al
suo diletto e amato Gesù”.
Chi può dire quanto sono rimasta
sorpresa da questo suo parlare? Non ho avuto una parola per rispondergli; dopo
è scomparso ed io mi sono trovata in me stessa, quieta sì, ma al sommo
afflitta, prima per le afflizioni e le lotte in cui si trovava il mio caro Gesù
e poi per timore che ancor non ci venisse. Chi potrà resistere? Come farò a
sopportare me stessa per la sua assenza? Ah, Signore, datemi la forza per
sopportare sì duro martirio, è tanto insopportabile alla mia povera anima! Del
resto, dite quel che volete, che da me non lascerò nessun mezzo, tenterò tutte
le vie, userò tutti gli stratagemmi come tirarvi a venire.
Dopo aver passato qualche giorno
di privazione, al più si è fatto vedere ad ombra ed a lampo, però tutte le mie
potenze me le sentivo tutte addormentate, in modo che io stessa non capivo ciò
che succedeva nel mio interno. In questo assonnamento, una sola pena si destava
nel mio interno ed era che mi pareva di essermi accaduto come a colui che
mentre dorme perde la vista ovvero viene spogliato di tutte le sue ricchezze;
onde il misero non può dolersi né difendersi né usare qualche mezzo per
liberarsi dai suoi infortuni. Poveretto, in che stato compassionevole si trova!
Ma quale la causa? Il sonno, perché se fosse desto si saprebbe certo ben
difendere dalle sue sventure. Tale è il mio misero stato; non mi vien dato
neppure di mandare un gemito, un sospiro, di versare una lacrima, perché ho
perduto di vista colui che è tutto il mio amore[60],
tutto il mio bene e che forma tutto il mio contento. Parmi che per non farmi
dolere della sua privazione mi ha assonnata e mi ha lasciata. Ah, Signore,
destatemi voi, acciocché possa vedere le mie miserie e conoscere almeno di chi
sono priva!
Ora mentre mi trovavo in questo
stato, da dentro il mio interno ho inteso il benedetto Gesù che si lamentava
continuamente. Quei lamenti hanno ferito il mio udito; ed un po’ destandomi ho
detto: “Mio solo ed unico Bene, dai vostri lamenti avverto lo stato troppo
sofferente in cui vi trovate; ciò vi avviene perché volete soffrire da solo e
non farmi parte delle vostre pene; anzi, per non avermi in vostra compagnia mi avete
assonnata e mi avete lasciata senza farmi capire più nulla. Capisco il tutto
donde ciò viene, ed è [per essere] più libero nel castigare; ma deh, abbiate
pietà, compassione, di me che senza di voi sono cieca, e di voi ché è sempre
buono in tutte le circostanze avere chi vi faccia compagnia, chi vi sollevi e
chi in qualche modo spezzi il vostro furore; perché per ora state nel furore di
mandare flagelli, ma quando vedrete le nostre immagini perire per la miseria,
manderete più lamenti che ora e forse mi direte: ‘Ah, se tu ti fossi più
impegnata a placarmi, se avessi preso su di te le pene delle creature, non
vedrei tanto straziate le mie stesse membra!’ Non è ciò vero, mio pazientissimo
Gesù? Deh, sollevatevi un poco e lasciatemi soffrire in vece vostra!”
Mentre ciò dicevo, lui
continuamente si lamentava, quasi in atto di volere essere compatito e
sollevato; ma questo stesso sollievo del parteciparmi le sue pene, lo voleva
strappato quasi per forza. Onde dietro le mie importunità ha disteso nel mio
interno le sue mani e i suoi piedi inchiodati e mi ha partecipato un poco le
sue pene. Dopo ciò dando un po’ di tregua ai suoi lamenti mi ha detto:
“Figlia mia, sono tristi tempi
che a ciò mi costringono, perché gli uomini si sono tanto ingagliarditi ed
insuperbiti che ognuno crede di essere dio a sé stesso; e se io non metto mano
ai flagelli, farei un danno alle loro anime, perché la sola croce è l’alimento
dell’umiltà. Onde se ciò non facessi, verrei io stesso a far loro mancare il
mezzo come farli umiliare ed arrenderli dalla loro strana pazzia, sebbene la
maggior parte degli uomini si irritano e mi offendono. Ma io faccio come un
padre che spezza a tutti il pane come alimentarsi; ma alcuni figli non lo
vogliono prendere, anzi se ne servono per gettarlo in faccia al padre. Che
colpa ne ha il povero padre? Tale sono io; perciò compatiscimi nelle mie
afflizioni”.
Detto ciò è scomparso,
lasciandomi mezza desta e mezza addormentata, non sapendo io stessa né se debbo
perfettamente destarmi né se devo un’altra volta assonnarmi.
Continuo a starmi assonnata.
Questa mattina per pochi minuti mi son trovata desta e comprendevo il mio stato
miserabile e sentivo l’amarezza della privazione del mio sommo ed unico Bene.
Appena ho potuto versare due lacrime, dicendogli: “Mio sempre buon Gesù, come
non vieni? Queste non sono cose da farsi: ferire un’anima di te e poi
lasciarla! E per soprappiù, per non farle conoscere quello che fate la lasciate
in preda del sonno. Deh, venite, non mi fate tanto aspettare!”
Mentre ciò dicevo ed altri
spropositi ancora, in un istante è venuto e mi ha trasportato fuori di me
stessa; e siccome volevo dirgli il mio povero stato, Gesù, imponendomi silenzio,
mi ha detto:
“Figlia mia, quello che voglio da
te è di non più riconoscerti in te stessa, ma di riconoscerti solamente in me;
sicché di te non più ti ricorderai, né avrai più di te riconoscenza, ma ti
ricorderai di me e disconoscendo te stessa acquisterai la mia sola riconoscenza.
Ed a misura che oblierai e distruggerai te stessa, così ti avanzerai nella mia
conoscenza e ti riconoscerai solamente in me. Quando avrai tutto ciò fatto, non
più penserai con la tua mente ma con la mia; non guarderai coi tuoi occhi, non
più parlerai con la tua bocca né palpiterai col tuo cuore né opererai con le
tue mani né camminerai coi tuoi piedi, ma guarderai coi miei occhi, parlerai
con la mia bocca, palpiterai col mio cuore, opererai con le mie mani, camminerai
coi miei piedi.
Perché ciò avvenga, cioè per
riconoscerti solamente in Dio, l’anima ha bisogno che vada alla sua origine e
che ritorni al suo principio, Iddio, da donde uscì, e che uniformi tutta sé
stessa al suo Creatore; e tutto ciò che ritiene di sé stessa e che non è conforme
al suo principio lo deve disfare e ridurre al nulla. In questo sol modo, nuda,
disfatta, può ritornare alla sua origine e riconoscersi solo in Dio ed operare
secondo il fine per cui è stata creata. Ecco perciò che per uniformarsi tutta
in me, l’anima deve rendersi invisibile con me[61]”.
Mentre ciò diceva, io vedevo il
castigo terribile delle piante disseccate, e come ancora più si deve inoltrare.
Appena ho potuto dire: “Deh, Signore, come faranno le povere genti?” E lui per
non darmi retta, come un lampo mi è sfuggito ed è scomparso. Chi può dire
l’amarezza dell’anima mia nel ritrovarmi in me stessa, per non avergli potuto
dire neppure una parola per me, e per il mio prossimo, e per la tendenza al
sonno come di nuovo son rimasta?
Questa mattina, trovandomi
sommamente afflitta per la privazione del mio amante Gesù, quando appena l’ho
visto mi ha detto: “Figlia mia, quante maschere si smaschereranno in questi
tempi di castighi! Perché questi castighi presenti non sono altro che una
predisposizione a tutti quelli che ti manifestai lo scorso anno”.
Mentre ciò diceva, nel mio
interno pensavo: “Se il Signore continua a fare come sta facendo, cioè che
siccome vuole mandare castighi non viene, non mi partecipa le sue pene, mi
tratta con modi insoliti, chi potrà resistere? Chi mi darà la forza a starmene
in questo stato?”
E Gesù, rispondendo al mio
pensiero ha soggiunto, in atto di compatimento: “Ed allora vuoi tu che ti sospenda
lo stato di vittima e poi te lo faccio riprendere?”
Mentre ciò diceva, ho provato
tale confusione e amarezza vedendo[62]
che il Signore con quella proposta mi cacciasse da sé; non ho saputo dire né sì
né no, anche per sentire che cosa decide l’ubbidienza. Onde, senza aspettare il
mio dire è scomparso lasciandomi con un chiodo fitto nel cuore, nel pensare che
Gesù mi rigettava da sé. Era tanto il dolore, che non ho fatto altro che versare
lacrime amare.
Continuando a stare amareggiata,
il mio adorabile Gesù avendo di me compassione è venuto, e pareva che mi
sostenesse con le sue braccia. Poi, trasportandomi fuori di me stessa, vedevo
che vi regnava un profondo silenzio, una mestizia, un lutto per ogni dove. Era
tanta l’impressione che faceva sull’anima il vedere in quel modo le genti, che
si provava una stretta al cuore. Allora il benedetto Gesù tirandomi come in disparte
mi ha detto: “Figlia mia, allontaniamo per poco ciò che ci affligge e
ristoriamoci a vicenda”.
E mentre ciò diceva ha cominciato
a carezzarmi e sollevarmi con l’alito dei suoi dolci baci. Ma era tanta la
confusione mia che non ardivo di rendergli i baci e le carezze; e lui ha
soggiunto: “Come, io ristoro te coi casti baci e con le carezze, e tu non vuoi
ristorare me col rendermi i tuoi baci e le tue carezze?” Così mi son sentita
fiducia di rendergli la pariglia. Mentre ciò facevo è scomparso.
Continuo a starmi amareggiata ed
afflitta come una stupida. Questa mattina non era venuto affatto. È venuto il
confessore ed ha messo l’intenzione della crocifissione; in primo il benedetto
Gesù non concorreva, onde dopo averlo pregato che si benignasse di farmi ubbidire,
quando appena mi si faceva vedere e mi ha detto: “Che vuoi? Perché volermi fare
violenza per forza una volta che è necessario castigare i popoli?”
Ed io: “Signore, non sono io, è
l’ubbidienza che così vuole”.
E lui: “Ebbene, quando è
l’ubbidienza ti voglio partecipare la mia crocifissione e frattanto voglio
ristorarmi un poco”.
Mentre ciò diceva mi ha
partecipato i dolori della croce, e mentre io soffrivo Gesù si è messo vicino a
me e pareva che si ristorasse alquanto. Ora mentre mi trovavo in questa posizione,
insieme con lui, mi ha fatto vedere nell’aria che da una parte veniva una nube,
ma che al sol vederla metteva terrore e spavento, e tutti dicevano: “Questa
volta moriamo”. Mentre tutti stavano atterriti, si è sollevata da mezzo a me e
Gesù una croce risplendente, che facendosi contra a questa procella l’ha messa
in fuga in gran parte (pare che fosse un uragano accompagnato da fulmini, che
trascinava con sé le fabbriche), tanto che pareva che le genti si calmavano, e
la croce che l’ha fugato in gran parte, mi pareva che fosse il piccolo mio patire
che Gesù mi ha partecipato.
Sia benedetto il Signore e tutto
sia per la sua gloria ed onore.
Questa mattina, avendo fatta la
santa comunione, ho visto il mio adorabile Gesù e gli ho detto: “Mio diletto
Signore, perché non volete placarvi?”
E Gesù benedetto, spezzando il
mio dire ha risposto: “Eppure i castighi che sto mandando sono niente a
confronto di quelli che stanno preparati”.
Mentre ciò diceva, innanzi a me
vedevo tante persone infettate da malori contagiosi, che ne morivano. Onde
presa da raccapriccio, gli ho detto: “Deh, Signore, ci vorrebbe anche questa!
Che fate, che fate? Se ciò volete fare, toglietemi da questa terra, che non mi
regge l’anima vedere spettacoli così funesti. Chi mi darà la forza di stare in
questo stato?”
Mentre sfogavo la mia afflizione,
Gesù compatendomi mi ha detto: “Figlia mia, non temere del tuo stato di assonnamento.
Questo dice che, siccome sto io con le genti come se dormissi, come se non li
sentissi e guardassi, così ho messo te nello stesso stato. Del resto, se ti
dispiace, te lo dissi altra volta, vuoi che ti sospenda lo stato di vittima?”
Ed io: “Signore, non vuole
l’ubbidienza che accetti la sospensione”.
E lui: “Ebbene, che vuoi da me?
Statti quieta ed ubbidisci!”
Chi può dire quanto sono restata
afflitta? Non solo, ma mi pare d’essere restate[63]
addormentate le potenze interne, da vivere come se non vivessi. Ah, Signore,
abbiate pietà di me, non mi lasciate in abbandono, in uno stato sì
compassionevole e doloroso!
Continua lo stesso stato e forse
anche peggio, e se qualche volta [Gesù] si fa vedere ad ombra e a lampo, è
quasi sempre in silenzio. E questa mattina trovandomi al sommo dell’afflizione
e della stupidità per il sonno continuo, quando appena si è fatto vedere mi ha
detto:
“L’anima veramente mia, non solo
deve vivere per Dio, ma in Dio. Tu cerca di vivere in me, che in me troverai il
ricettacolo di tutte le virtù, e passeggiando in mezzo a loro ti alimenterai
del loro profumo, tanto da restarne satolla, e tu stessa non farai altro che
mandare luce e profumo celeste, perché il vivere in me è la vera virtù ed ha
virtù di dare all’anima la stessa forma della Divina Persona in cui fa la sua
dimora, e di trasformarla nelle stesse virtù divine in cui si nutrisce”.
Dopo ciò come un lampo è
scomparso, e l’anima mia correndo dietro a quel lampo si è trovata fuori di me
stessa, ma era già sfuggito e non mi è stato dato di ritrovarlo; ed ho subito
solo l’amarezza di vedere grandine terribile che aveva fatto grande strage,
fulmini come se avesse[ro] prodotto degli incendi, ed altre cose che stavano
preparate. Visto ciò mi son ritrovata in me stessa più afflitta di prima.
Trovandomi nella stessa
confusione, come un lampo [Gesù] si è fatto vedere, e mi ha fatto capire che
non avevo scritto tutto ciò che lui mi aveva detto il giorno innanzi, cioè che
l’anima non solo deve vivere per Dio. Onde il benedetto Gesù mi ha ripetuto la
differenza che passa tra il vivere per Dio e il vivere in Dio, col dirmi:
“Nel vivere per Dio, l’anima può
star soggetta alle turbazioni, alle amarezze, essere incostante, a sentire il
peso delle passioni, a mischiarsi nelle cose terrene. Ma il vivere in Dio, no,
è tutto diverso, perché la cosa principale per potersi dire che una persona
vivesse in un’altra persona, dovrebbe avvenire che avesse lasciato i propri
pensieri ed avesse pure quelli dell’altra, così del suo stile, dei suoi gusti,
e ancor più che avesse lasciato la sua volontà per prendere la volontà
dell’altra.
Così, perché un’anima viva nella
Divinità e vi abiti, deve lasciare tutto ciò che è suo, cioè spogliarsi di
tutto, lasciare le proprie passioni; in una parola lasciare tutto per trovare
tutto in Dio. Or quando l’anima si è non solo spogliata, ma assottigliata ben
bene, allora potrà entrare per la porta stretta del mio cuore a vivere in me, a
mio modo e della mia stessa vita; perché sebbene il mio cuore è larghissimo,
tanto che non c’è termine ai suoi confini, ma la porta è strettissima e solo
può entrarvi chi è denudato del tutto. E questo con ragione, perché essendo io
Santissimo, non ammetterei giammai a vivere in me alcunché che fosse estraneo
alla mia santità. Perciò, figlia mia, cerca di vivere in me e possederai il
paradiso anticipato”.
Chi può dire quanto io
comprendevo di questo vivere in Dio? Ma dopo è scomparso e sono rimasta nel mio
stesso stato.
Questa mattina avendo fatta la
santa comunione e continuando lo stesso stato di confusione, me ne stavo tutta
rannicchiata in me stessa, quando dopo [ho] visto il mio adorabile Gesù che
veniva a me tutto in fretta dicendomi: “Figlia mia, spezzami un poco il mio furore,
altrimenti...”.
Onde io tutta spaventata ho
detto: “Che volete che faccia per spezzare il vostro furore?”
E lui: “Col richiamare in te le
mie sofferenze verrai a placare il furore mio”.
In questo mentre, vedevo come se
chiamasse il confessore mandando un raggio di luce, e lui subito ha messo
l’intenzione di farmi soffrire la crocifissione. Il Signore benedetto
prontamente ha concorso ed io mi son trovata in tante sofferenze che per la forza
dei dolori mi sentivo uscire l’anima dal corpo. Quando mi credevo in punto di
spirare, e contenta io che Gesù ricevesse l’anima mia, ho visto il confessore
che col dire basta mi richiamava in me stessa. Allora Gesù mi ha detto:
“L’ubbidienza ti chiama”.
Ed io: “Deh, Signore, me ne
voglio venire!”
E Gesù: “Che vuoi da me?
L’ubbidienza continua a chiamarti”.
E così pare che questa nuova
ubbidienza non ha fatto andare più innanzi le sofferenze. Ma obbedienza certo
per me crudele,che mentre mi pareva afferrare il porto, sono stata sbalzata
fuori a navigare la via.
Onde dopo, sebbene son rimasta
sofferente, ma non mi sentivo quella cosa di morire, il mio benigno Signore ha
ripreso a dire: “Figlia mia, se tu oggi non avessi spezzato il mio furore, era
giunto tanto al colmo che non solo avrei distrutto le piante, ma anche gli
uomini; e se lo stesso confessore non si fosse interposto col richiamare in te
le mie sofferenze, non avrei avuto neppure riguardo di lui. È vero che sono
necessari i castighi, ma è necessario che di tanto in tanto, quando il mio
furore s’inoltra, tu me lo spezzi, altrimenti quanti flagelli manderei!”
E mentre ciò diceva, mi pareva di
vederlo stanco che lamentandosi diceva: “Figli miei, poveri figli miei, come vi
vedo ridotti!”
E con mia sorpresa mi ha fatto
capire che dopo essersi calmato un poco, doveva riprendere il furore per
continuare i castighi, e questo era servito solo a non farlo troppo infierire
contro le genti. Ah, Signore, placatevi ed abbiate pietà di quei tali che voi
stesso chiamate ‘figli miei’!
Pare che ho passati diversi
giorni senza stare immersa nel letargo del sonno, ed un poco insieme con Gesù
benedetto, dandoci a vicenda un po’ di ristoro. Ma quanto temo che mi abbia a
gettare un’altra volta in quel sonno così profondo! Onde questa mattina, dopo
avermi ristorato col latte che scendeva dalla sua bocca versandolo in me, ed io
l’ho ristorato col togliergli la corona di spine per conficcarla nella mia
testa, tutto afflitto mi ha detto:
“Figlia mia, il decreto dei
castighi è firmato, non resta altro che decidere il tempo dell’esecuzione”.
Questa mattina il mio adorabile
Gesù non ci veniva. Dopo molto aspettare è venuto e mi ha detto:
“Figlia mia, la migliore cosa è
rimettersi in me; essendo io pace, ancorché [tu] vedessi mandare castighi,
resteresti in pace senza provare turbazione”.
Ed io: “Ah, Signore, sempre là
andate: ai castighi! Placatevi una volta e non più flagelli; e poi non posso
rimettermi al vostro Volere a questo riguardo”.
E lui ha soggiunto: “Non posso
placarmi. Che diresti tu se vedessi una persona denudata, che invece di coprire
la sua nudità badasse ad adornarsi di gioielli, tralasciando di coprire la sua
nudità?”
Ed io: “Mi farebbe orrore a
vederla e certo l’avrei biasimata”.
E lui: “Ebbene, tali sono le
anime, denudate del tutto non hanno più virtù che le coprono; onde è necessario
che le percuota, le flagelli, le assoggetti a privazioni, per farle rientrare
in loro stesse e farle badare alla nudità delle loro anime, alle quali il vestimento
delle virtù e della grazia è a loro immensamente più necessario che non sia al
corpo il coprirsi coi vestimenti. E se io non usassi i castighi con queste
anime, vuol dire che baderei ai gingilli, quali sono le cose che si riferiscono
al corpo, come la persona da te biasimata, e non baderei alla cosa più essenziale
qual è l’anima, che l’han ridotta sì mostruosa da non più riconoscersi”.
Dopo ciò mi pareva che tenesse in
mano una cordicella, che menandola da dietro il collo mi legava, e poi legava
il suo a quella stessa corda; e così ha fatto al cuore, alle mani, e con ciò
pareva che mi legasse tutta al suo Volere. Fatto ciò è scomparso.
Avendo fatta la santa comunione,
non vedevo secondo il solito il benedetto Gesù; onde, dopo aver molto aspettato
mi son sentita uscire fuori di me stessa e l’ho trovato. Appena visto mi ha
detto:
“Figlia, stavo ad aspettarti per
potermi in te un po’ riposare, ché più non posso; deh, dammi un sollievo!”
Subito l’ho preso fra le mie
braccia per contentarlo, e l’ho visto che teneva una piaga profonda alla
spalla, che faceva compassione e ribrezzo a guardarla; onde per pochi minuti si
è riposato, e dopo quel breve riposo ho fatto per guardare e la piaga era
risanata. Quindi tra la meraviglia e lo stupore e vedendolo più sollevato, ho
preso coraggio e gli ho detto:
“Signore benedetto, il mio povero
cuore è straziato da un timore che non mi vuoi più bene, temo che sia in corso
la tua indignazione; perciò non più venite come prima e non versate in me le
vostre amarezze e non date più a me il mio bene, qual è il patire, e negandomi
questo, venite a negarmi voi stesso. Deh! date la pace al mio povero cuore:
dimmi, assicurami, giurami, mi vuoi bene? Continui a volermi bene?”
E lui: “Sì, sì, sì, ti voglio
bene”.
Ed io: “Come posso essere sicura
di ciò, mentre quando ad una persona si vuole vero bene, tutto ciò che vuole si
dà? Io vi dico: ‘Non castigate le genti’, e voi castigate, ‘versate le
amarezze’, e voi non versate, anzi pare che questa volta vi inoltrate troppo.
Onde dove posso io appoggiarmi che mi volete bene?”
E lui: “Figlia mia, tu tieni
conto dei castighi che mando, e di quelli che risparmio non ne fai conto.
Quanti altri castighi avrei mandato, quante altre stragi e sangue avrei fatto
versare se non avessi riguardo a quei pochi che mi amano ed io amo di un amore
speciale?”
Onde dopo ciò, pareva che Gesù
prendesse la via per andare dove succedevano strazi di carne umana, ed io volendo
seguirlo non mi è stato dato di farlo, e con mio sommo rammarico mi son trovata
in me stessa.
Trovandomi nel solito mio stato,
quando appena ho visto il mio adorabile Gesù tutto afflitto dentro il mio
cuore, ed insieme ho visto molta gente che commetteva tanti peccati; questi
peccati prendevano la volta verso di me per venire a ferire il mio diletto Signore
fin dentro il mio cuore. Ma Gesù respingendoli da sé, venivano a cadere sopra
le stesse genti, e cadendo sopra di loro formavano la loro stessa rovina,
cambiandosi in tante specie di flagelli sopra i popoli, da fare raccapricciare
i cuori più duri. Allora Gesù tutto affliggendosi mi ha detto:
“Figlia mia, dove giunge la
cecità degli uomini, che mentre cercano di ferire me feriscono sé stessi con le
loro proprie mani!”
Questa mattina, dopo essere stata
tutta la notte e gran parte della mattina ad aspettare il mio adorabile Gesù,
non si benignava di venire. Onde stanca di aspettarlo mi sforzavo di uscire dal
mio solito stato, pensando che non fosse più Volontà di Dio. Mentre mi sforzavo
di uscire quasi impaziente, il mio benigno Gesù si è mosso da dentro il mio
cuore facendosi vedere appena e guardandomi in silenzio. Impaziente com’ero gli
ho detto: “Mio buon Gesù, come tanto crudele? Si può dare crudeltà più grande
di questa: l’abbandonare un’anima in preda allo spietato tiranno dell’amore che
la fa vivere in continua agonia? Oh, come ti sei cambiato da amante in tiranno!”
Mentre ciò dicevo, innanzi a me
vedevo tante membra di genti mutilate; perciò ho soggiunto: “Ah, Signore,
quanta carne umana mutilata! Quante amarezze e pene! Ahi, non era minor
crudeltà se ti fossi soddisfatto in questo mio corpo e farlo in tanti pezzi per
quante divisioni avete fatto fare in queste membra? Non era minor male veder
soffrire una sola che tanti poveri popoli?”
Mentre ciò dicevo, Gesù
continuava a guardarmi fisso, come se restasse colpito, non so dire se
dispiaciuto. Pure mi ha detto: “Eppure è il principio del giuoco, ancora è
niente a confronto di ciò che verrà”.
Detto ciò si è involato alla mia
vista senza poterlo più vedere, lasciandomi in un mare di amarezze.
Dopo aver passato un giorno
assorbita e tanto assonnata che non capivo me stessa, avendo fatta la santa
comunione mi son sentita uscire fuori di me stessa, e non ho trovato il mio
sommo ed unico Bene; ho incominciato a girare e rigirare dando in delirio.
Mentre ciò facevo, mi son sentita
una persona in braccio, tutta velata, che non potevo vedere chi fosse. Onde non
potendo più resistere ho squarciato quel velo ed ho visto il sospirato mio
tutto. Nel vederlo mi son sentita che volevo rompere in querele e spropositi,
ma Gesù per spezzare la mia impazienza ed il mio delirio ha baciato questa misera
creatura. Il bacio di quelle divine labbra mi ha infuso la vita, la calma; ha
spezzata la mia impazienza, tanto che non ho saputo dire più niente. Allora
dimenticando tutte le mie miserie, che ne ho tante, mi son ricordata delle
povere genti ed ho detto a Gesù:
“Placatevi, risparmiate tanti
popoli da stragi così crudeli, andiamo insieme, a quelle parti dove tali cose
succedono, acciocché rincoriamo, consoliamo quei poveri cristiani che si
trovano in sì triste stato”.
E lui: “Figlia mia, non voglio portarti,
che il tuo cuore non reggerebbe a vedere carneficina sì straziante”.
Ed io: “Ah, Signore, come è stato
che ciò avete permesso?”
E lui: “[È] necessario
assolutamente per la purgazione in tutte le regioni, perché nel campo seminato
da me sono cresciute tanto le cattive erbe, le spine, che si son fatti alberi,
e questi alberi spinosi non fanno altro che attirare nel mio campo acque
velenose e pestifere; e se qualche spiga si mantiene intatta, non riceve altro
che punture e fetore, tanto che non possono germogliare altre spighe, primo
perché manca loro il terreno occupato da tante piante nocive, secondo per le
continue punture che ricevono che non danno loro pace. Ecco la necessità della
strage per svellere tante piante cattive, e lo spargimento del sangue per purgare
il mio campo dalle acque velenose e pestifere. Perciò non volerti rattristare
al principio, perché [non] solo là dove ho mandato già i flagelli, ma a tutte
le altre parti ci vuole la purgazione”.
Chi può dire la costernazione del
mio cuore nel sentire questo parlare di Gesù? Onde di nuovo ho insistito che
volevo andare a vedere, ma Gesù non dandomi retta mi è scomparso; ed io rimasta
sola, ho preso la via per andare a trovarlo, ma or trovavo il mio angelo che mi
rimandava indietro ed ora anime purganti, tanto che sono stata costretta a
ritornare in me stessa.
Questa mattina il mio adorabile
Gesù è venuto e mi ha fatto vedere una macchina, dove pareva che si stritolassero
tante membra umane, e come due segni nell’aria di castighi che mettevano
terrore. Chi può dire la costernazione del mio cuore nel vedere tutto ciò? Ma
il benedetto Gesù vedendomi così amareggiata mi ha detto: “Figlia mia,
allontaniamo per poco ciò che tanto ci affligge e solleviamoci col giocare un
poco insieme”.
Chi può dire ciò che è passato
tra me e Gesù in questo giuoco, le finezze d’amore, gli stratagemmi, i dolci
baci, le carezze che a vicenda ci facevamo? Sebbene mi passava[64]
il mio diletto Gesù, perché io essendo debole venivo meno, tanto vero che non
potendo contenere in me ciò che lui mi dava, ho detto: “Diletto mio, basta,
basta, più non posso, io vengo meno, il mio povero cuore non è tanto largo
d’essere capace di ricevere tanto, perciò basta per ora”.
Allora volendomi rimproverare il
parlare dell’altro giorno, dolcemente mi ha detto: “Fammi sentire le tue
querele, dì, dì, sono io crudele? Il mio amore per te si è cambiato in
crudeltà?”
Ed io, tutta arrossendo ho detto:
“No, Signore, non siete crudele quando venite, ma quando non ci venite allora
dico che siete crudele”.
Sorridendo lui al mio dire, ha
soggiunto: “Pure continua a dire che quando non vengo sono crudele. No, no, non
ci può essere in me crudeltà alcuna, ma tutto è amore; e sappi che se è come tu
dici, lo stesso essere crudele è amore più grande”.
Trovandomi tutta preoccupata sul
misero mio stato, specialmente che non fosse più Volontà di Dio, e ritenevo
come indizio vero di ciò lo scarso patire e le continue sue privazioni. Ora
mentre io stavo logorando il piccolo mio cervello su ciò e sforzandomi ad
uscirne[65],
il mio sempre amabile buon Gesù come lampo si è fatto vedere, dicendomi:
“Figlia mia, che vuoi tu che faccia? Dimmi. Farò ciò che vuoi tu”.
Ed io, ad una proposta così
inaspettata, non ho saputo che dire; provavo tale una confusione che il
benedetto Gesù dovesse fare ciò che io volevo, mentre io devo fare ciò che lui
vuole, che sono restata muta. Onde non vedendo dire niente, come lampo è
sfuggito; ed io correndo dietro a quella luce mi son trovata fuori di me
stessa, ma non l’ho trovato, e sono andata girando la terra, il cielo, le
stelle; ed or lo chiamavo con la voce, ora col canto, pensando tra me che il
benedetto Gesù a sentire la voce ed il mio canto resterebbe ferito e con sicurezza
l’avrei trovato.
Or mentre giravo ho visto lo
strazio crudele che si continua a fare nella guerra della Cina, le chiese
abbattute, le immagini di Nostro Signore gettate per terra, e questo è niente
ancora. Quello che mi ha fatto più spavento è stato che se or lo fanno i
barbari, poi lo faranno i finti religiosi, che smascherandosi e facendosi conoscere
chi sono, unendosi agli aperti nemici della Chiesa, daranno tale un assalto che
pare incredibile a mente umana. Oh, quanti strazi più crudeli! Pare che hanno
giurato di finirla per la Chiesa[66].
Ma il Signore prenderà vendetta di loro col distruggerli; perciò sangue da una
parte e sangue dall’altra.
Perciò mi son trovata dentro un
giardino che mi pareva che fosse la Chiesa, e là dentro vi era una turba di
gente sotto l’aspetto di dragoni, di vipere e di altre bestie inferocite, che
devastavano quel giardino, e poi uscendo fuori formavano la rovina delle genti.
Or mentre ciò vedevo, mi son
trovata in braccio il mio diletto Signore ed ho detto: “Finalmente vi siete fatto
trovare, siete voi veramente il mio caro Gesù?”
E lui: “Sì, sì, sono il tuo
Gesù”.
Ed io volevo dirgli che
risparmiasse a tanta gente, e lui, non dandomi retta a questo, tutto afflitto
ha soggiunto: “Figlia mia, sono stanco abbastanza, andiamo nel Divin Volere se
vuoi che mi trattenga con te”.
Ed io temendo che se ne andasse
ho fatto silenzio facendogli prendere sonno. Onde poco dopo è rientrato nel mio
interno, lasciandomi rincuorata, ma sommamente afflitta.
Ho passato una notte ed un giorno
inquieta. Più da principio mi sentivo uscire fuori di me stessa, senza che
potessi trovare il mio adorabile Gesù. Non vedevo altro che cose che mi
facevano terrore e spavento. Vedevo che nell’Italia si alzava un fuoco ed un altro
ne stava alzato nella Cina, che a poco a poco, unendosi insieme, si
confondevano in uno solo. In questo fuoco vedevo il re dell’Italia, per inganno repentinamente morto; questo era mezzo
come aizzare ed ingrandire l’incendio. Insomma vedevo una gran sommossa, un
tumulto di gente, un uccidere gente. Con queste cose vedute mi sentivo in me
stessa, e mi sentivo straziarmi l’animo da sentirmi morire, molto più che non
vedevo il mio adorabile Gesù. Onde dopo molto aspettare, si è fatto vedere con
una spada in mano, in atto di menarla sopra la gente. Mi sono spaventata, e fatta
un po’ ardita ho preso in mano la spada, dicendogli: “Signore, che fate? Non
vedete quanti strazi succederanno se menate questa spada? Quello che più mi
addolora [è] che veggo che prendete in mezzo l’Italia! Ah, Signore, placatevi,
abbiate pietà delle vostre immagini! E se dite che mi amate, risparmiate a me
questo acerbo dolore”.
E mentre ciò dicevo, mi tenevo
con quanta più forza potevo la spada. Gesù mandando un sospiro, tutto afflitto
mi ha detto: “Figlia mia, lasciala cadere sopra le genti, ché più non posso”.
Ed io, stringendola più forte:
“Non posso lasciarla, non mi dà l’animo di farlo”.
E lui: “Non te l’ho detto tante
volte che son costretto a non farti vedere niente, altrimenti non son libero di
fare ciò che voglio?”
E mentre ciò diceva, ha abbassato
il braccio con la spada e si è messo in atto di calmarsi del suo furore. Dopo
poco è scomparso, ed io son rimasta con timore: chi sa, senza ancor farmi
vedere niente, mi tirasse la spada e la menasse sopra le genti. O Dio, che
crepacuore il solo ricordarmi!
Continua il mio adorabile Gesù a
venire scarsissime volte e per poco tempo. Questa mattina mi sentivo tutta
annientata e quasi non ardivo di andare in cerca del mio sommo Bene; ma lui
sempre benigno, è venuto e volendomi infondere fiducia mi ha detto:
“Figlia mia, innanzi alla mia
maestà e purità, non vi è chi possa stare di fronte, anzi tutti sono costretti
a starsene atterriti e colpiti dal fulgore della mia santità. L’uomo vorrebbe
quasi fuggire da me, perché è tale e tanta la sua miseria che non ha coraggio
di sostenersi innanzi a Dio. Ed ecco che facendo campo[67]
della mia misericordia assunsi l’umanità, che temperando i raggi della Divinità
è mezzo come infondere fiducia e coraggio all’uomo per venire a me; il quale
mettendosi di fronte alla mia umanità, che spande raggi temperati della
Divinità, ha il bene di potersi purificare, santificare ed anche divinizzare
nella mia stessa umanità deificata. Perciò tu statti sempre di fronte alla mia
umanità, tenendola come specchio in cui tergerai tutte le tue macchie; non
solo, ma come specchio in cui rimirandoti acquisterai la bellezza e man mano
andrai ornandoti a somiglianza di me medesimo. Perché è proprietà dello
specchio far comparire dentro di sé l’immagine simile a quella di chi si rimira;
se tale è lo specchio materiale, molto più è il divino, perché la mia umanità
serve all’uomo come specchio per rimirare la mia Divinità. Ecco perciò che
tutti i beni all’uomo dalla mia umanità derivano”.
Mentre ciò diceva, mi sentivo
infondere tale fiducia che mi è venuto il pensiero di volergli parlare dei
castighi; chi sa mi avesse data udienza o potessi avere l’intento di placarlo
del tutto! Ma mentre mi accingevo a ciò, come lampo è scomparso, e l’anima mia
correndo dietro a lui si è trovata fuori di me stessa; ma non l’ho potuto più
ritrovare. E con sommo mio rammarico ho visto tante persone che andavano nelle
carceri, altri settari che uscivano per attentare altre vite di re e di altri
capi; vedevo che si rodevano di rabbia perché manca loro il mezzo ancora come
uscire tra i popoli e farne macello, eppure giungerà il tempo loro. Onde dopo
ciò mi son trovata in me stessa tutta oppressa ed afflitta.
Trovandomi nel solito mio stato,
stavo desiderando e cercando il mio amato Gesù, onde dopo averlo lungamente
aspettato è venuto e mi ha detto: “Figlia mia, perché mi cerchi fuori di te,
mentre potresti più facilmente ritrovarmi dentro di te? Quando tu mi vuoi trovare
entra in te, giungi fin nel tuo nulla, ed ivi senza di te, nel brevissimo giro
del tuo nulla scorgerai le fondamenta che ha gettate in te e le fabbriche che
ha innalzato in te l’Essere Divino. Guarda e vedi”.
Io ho guardato ed ho visto le
solide fondamenta e le mura altissime che giungevano fino al cielo. Ma quello
che mi faceva più stupire era che vedevo che il Signore aveva fatto questo bel
lavoro sopra il mio nulla, e le mura erano tutte murate senza nessuna apertura.
Si vedeva solo alla volta un’apertura che corrispondeva solo al cielo, ed in
questa apertura vi risiedeva Nostro Signore, sopra una colonna stabile che
sporgeva dalle fondamenta formate sul nulla. Ora mentre me ne stavo tutta
stupita a guardare, il benedetto Gesù ha soggiunto:
“Le fondamenta formate nel nulla
significa che la mano di Dio là opera dove c’è il nulla, e mai vi mescola le
sue opere con le opere materiali. Le mura senza aperture all’intorno, è che
l’anima non deve avere nessuna corrispondenza di attacchi con le cose terrene,
tanto che non c’è nessun pericolo che vi potesse entrare neppure un poco di
polvere, perché tutto ben murato. La sola corrispondenza che le danno queste
mura è per il cielo, cioè dal nulla al cielo, ed ecco il significato dell’apertura
fatta nella volta; la stabilità della colonna è che l’anima è tanto stabile nel
bene che non c’è vento contrario che la possa muovere, ed io che vi risiedo
sopra è indizio certo che l’opera fatta è tutta divina”.
Chi può dire quello che
comprendevo su ciò? Ma la mia mente si perde e non sa dire nulla. Sia sempre
benedetto il Signore e sia tutto per sua gloria ed amore.
Questa mattina il mio adorabile
Gesù non ci veniva, onde ho molto aspettato; quando appena si è fatto vedere mi
ha detto: “Come uno strumento musicale risuona gradito all’orecchio di chi lo
ascolta, così i tuoi desideri, le lacrime tue, risuonano al mio udito come una
musica delle più gradite; ma per fare che scenda più dolce e dilettevole ti
voglio insegnare un altro modo, cioè desiderarmi non come desiderio tuo, ma
come desiderio mio, perché io amo grandemente di manifestarmi teco. Insomma,
tutto ciò che tu vuoi e desideri, volerlo e desiderarlo perché lo voglio io;
cioè prenderlo da dentro di me e farlo tuo, così sarà più dilettevole la tua
musica al mio udito, perché è musica uscita da me stesso”.
Poi ha soggiunto: “Tutto ciò che
esce da me entra in me; ecco perciò che gli uomini si lamentano che non
ottengono così facile quello che mi domandano, perché non sono cose che escono
da me, e non essendo cose che escono da me, non sono così facili ad entrare in
me e uscire per poi darsi a loro; perché esce da me ed entra in me tutto ciò
che è santo, puro e celeste. Or qual meraviglia se viene loro chiusa l’udienza
quando ciò che mi domandano non sono [cose] prese dentro di me? Ecco, perciò,
tieni tu bene a mente che tutto ciò che esce da Dio entra in Dio”.
Chi può dire ciò che comprendevo
sopra queste due parole? Ma non ho parole a sapermi spiegare. Ah! Signore,
datemi grazia che possa domandare tutto ciò che è santo e che sia desiderio e
Volontà vostra, così potete comunicarvi con me più abbondantemente.
Questa mattina, dopo presa la
santa comunione, il mio diletto Gesù si è fatto vedere in atto di volermi
ammaestrare. Portava come un esempio e mi ha detto: “Figlia mia, se un giovane
prendesse moglie, e questa presa d’amore verso di lui volesse stare sempre
insieme senza staccarsi un momento, senza badare alle altre cose e faccende di
casa, dovute da una moglie per felicitare questo giovane, or che direbbe
costui? Gradirebbe l’amore di costei, ma al certo non sarebbe contento della condotta
di questa tale, perché questo modo di amare non sarebbe altro che un amore
sterile, infecondo, che porterebbe danno a quel povero giovane anziché frutto,
ed a poco a poco questo strano amore recherebbe noia a costui anziché gusto;
perché tutta la soddisfazione di questo amore sarebbe solamente della giovane.
E siccome l’amore sterile non ha legna come fomentare il fuoco, presto presto
verrebbe ad incenerirsi; perché il solo amore operante è durevole, gli altri
amori come fumo se ne volano al vento. E poi si giunge ad infastidirsi, a non
curare e forse a disprezzare ciò che tanto si amava. Tale è la condotta di
quelle anime che badano solo a sé stesse, cioè alla loro soddisfazione, ai
fervori ed a tutto ciò che loro gradisce, dicendo che questo è amor per me,
mentre è tutta loro soddisfazione, perché si vede coi fatti che non prendono
cura dei miei interessi e delle cose che a me appartengono; e se viene a
mancare ciò che le soddisfa, più non si curano di me e giungono anche ad
offendermi. Ah, figlia, il solo amore operante è quello che distingue i veri
dai falsi amatori, ché tutto il resto è fumo!”
Mentre ciò diceva vedevo persone,
ed io come se volessi badare a quelle, ma Gesù mi ha distratto da ciò col
dirmi: “Non volerti impicciare dei fatti altrui, lasciamoli fare perché ogni
cosa tiene il suo tempo; quando sarà il tempo del giudizio allora sarà il tempo
di discernere tutte le cose, che crivellandosi ben bene si verrà a conoscere il
grano e le paglie ed il seme sterile e nocivo. Oh, quante cose che compariscono
grano si troveranno in quel giorno paglie e semi sterili, degne solo d’essere
gettate nel fuoco!”
Questa mattina il mio adorabile
Gesù non ci veniva, onde dopo molto aspettare, quando il mio povero cuore non
ne poteva più, si è fatto vedere da dentro il mio interno e mi ha detto:
“Figlia mia, non volerti affliggere che non mi vedi, ché sto dentro di te, e da
qui per mezzo tuo sto rimirando il mondo”.
Onde dopo ha continuato a farsi
vedere di tanto in tanto senza dirmi più niente.
Avendo passato un giorno
inquieta, mi sentivo tutta piena di tentazioni e peccati. Oh, Dio, che pena
straziante è l’offendervi! Facevo quanto più potevo a starmene in Dio, a
rassegnarmi al suo Santo Volere, ad offrirgli per amor suo quello stesso stato
inquieto, a non dar retta al nemico, mostrandomi con somma indifferenza
acciocché non l’avessi io stessa aizzato a tentarmi maggiormente, ma con tutto
ciò non potevo fare a meno di sentire il bisbiglio che il nemico mi suscitava
d’intorno.
Onde trovandomi nel solito mio
stato non ardivo desiderare il mio diletto Gesù, tanto mi vedevo brutta e
miserabile. Ma lui, sempre benigno con questa peccatrice, senza che lo
chiedessi è venuto, e come se mi compatisse mi ha detto: “Figlia mia, coraggio,
non temere; sai tu che certe acque fredde ed impetuose sono più potenti a
purgare da ogni minimo neo, che lo stesso fuoco? E poi, tutto si converte in
bene per chi veramente mi ama”.
Detto ciò è scomparso,
lasciandomi rincorata, sì, ma debole come se avessi sofferto una febbre.
Avendo passato parecchi giorni di
privazione e d’amarezze, al più vistolo qualche volta ad ombra ed a lampo,
questa mattina [ero] al sommo dell’amarezza; non solo ma mi sentivo come se
avessi perduto la speranza di più rivederlo. Onde dopo aver fatta la santa comunione
mi pareva che il confessore mettesse l’intenzione della crocifissione. Allora
il benedetto Gesù per farmi obbedire si è mostrato e mi ha partecipato le sue pene.
In questo frattempo ho visto la
Regina Mamma che prendendomi mi offriva a lui, acciò si placasse; e Gesù avendo
riguardo alla Mamma accettava l’offerta e pareva che si placasse un poco. Dopo
ciò la Mamma Regina mi ha detto: “Vuoi tu venire in purgatorio a sollevare il
re dalle pene orribili in cui si trova?”
Ed io: “Mamma mia, come lei vuole”.
In un istante mi ha preso e di
volo mi ha trasportato in un luogo di supplizi atroci, tutti di continue morti.
E là ci stava quel misero che da un supplizio passava all’altro. Pareva che
[per] quante anime si erano perdute per causa sua, altrettante morti lui doveva
subire. Onde dopo essere passata io per parecchi di quei supplizi e restato lui
un po’ sollevato, di nuovo la Santissima Vergine mi ha sottratto da quel luogo
di pene e mi son trovata in me stessa.
Trovandomi al solito mio stato e
non vedendo il mio adorabile Gesù, me ne stavo tutta afflitta, ed un po’
impensierita sul perché non ci veniva. Onde dopo molto aspettare e riaspettare
è venuto, e vedendolo che dalle mani sgorgava sangue, l’ho pregato che dalla
mano sinistra versasse il sangue sopra il mondo a pro dei peccatori che stavano
per morire ed in pericolo di perdersi, e dalla mano destra che versasse il suo
sangue sopra il purgatorio. E lui, benignamente ascoltandomi, si è scosso ed ha
versato sangue sopra una parte e sopra l’altra.
Dopo ciò mi ha detto: “Figlia mia
nelle anime interne[68]
non ci può stare la turbazione, e se vi entra è perché esce fuori di sé stessa,
e facendo così è fare da carnefice a sé stessa; perché uscendo fuori di sé
stessa s’appiglia [a] tante cose che né riguardano e che non sono Dio, e delle
volte neppure cose che riguardano il vero bene dell’anima; onde ritornando in
sé stessa e portando cose che sono estranee, si strazia da sé stessa e con ciò
viene ad infermare sé stessa e la grazia. Perciò statti sempre in te stessa e
starai sempre calma”.
Chi può dire ciò che comprendevo
con chiarezza, e come trovavo la verità in queste parole di Gesù? Ah! Signore,
se vi benignate di ammaestrarmi, datemi grazia di profittare dei vostri santi
ammaestramenti, altrimenti sarà per mia condanna.
Continuando [Gesù] a non venire,
andavo dicendo: “Mio buon Gesù, non farmi tanto aspettare, questa mattina non
ho voglia d’inquietarmi e cercarvi tanto fino a stancarmi, venite una volta
subito, così, alla buona”.
E vedendo che non ci veniva,
continuavo a dire: “Si vede che volete che mi debbo stancare e giungere fino ad
inquietarmi, altrimenti non ci venite”.
Mentre ciò ed altri spropositi
dicevo, è venuto e mi ha detto: “Mi sapresti dire chi mantiene la corrispondenza
tra l’anima e Dio?”
Ed io, ma sempre con una luce che
mi veniva da lui, ho detto: “L’orazione”.
E Gesù, approvando il mio detto,
ha soggiunto: “Ma chi attira Iddio a familiare conversazione con l’anima?”
Ed io non sapendo rispondere,
subito la luce si è mossa nel mio intelletto, ed ho detto: “Se l’orazione
vocale serve a mantenere la corrispondenza, certo che la meditazione interna
deve servire di alimento come mantenere la conversazione tra Dio e l’anima”.
Lui contento di ciò ha replicato:
“Or mi sapresti tu dire chi spezza le dolci catene, chi toglie gli amorosi corrucci
che possono insorgere tra Dio e l’anima?”
Ed io non rispondendo, lui stesso
ha detto: “Figlia mia, la sola ubbidienza tiene questo uffizio; perché lei sola
decide delle cose spettanti tra me[69]
e l’anima, avvenendo delle contese o pure prendendo qualche corruccio per
mortificare [l’anima], sorgendo l’ubbidienza spezza le contese e toglie i
corrucci, e mette pace tra Dio e l’anima”.
Ed io: “Ah, Signore! Molte volte
pare che anche l’ubbidienza non si vuol brigare e se ne sta indifferente, e la
povera anima è costretta a starsi in quello stato di contese e di
corrucciamento”.
E Gesù: “Questo lo fa per un
certo tempo, volendosi anche lei compiacere di assistere a quelle amabili
contese; ma poi prende il suo ufficio e pacifica tutto. Sicché l’ubbidienza dà
la pace all’anima e a Dio”.
Avendo fatta la santa comunione,
il mio adorabile Gesù mi ha trasportata fuori di me stessa, facendosi vedere
sommamente afflitto ed amareggiato. Onde l’ho pregato che versasse in me le sue
amarezze. Ma Gesù non mi dava retta, ma insistendo, dopo tanto tempo si è
compiaciuto di versare. Quindi dopo aver [egli] versato un poco ho domandato:
“Signore, non vi sentite meglio adesso?”
E lui: “Sì, ma non era quello che
versai che mi dava tanta pena, ma un cibo stomachevole ed insipido che non mi
lascia riposare”.
Ed io: “Versate un poco a me,
così vi solleverete un poco”.
E lui: “Se non posso digerirlo e
sopportarlo io, come lo potresti tu?”
Ed io: “Conosco che la mia
debolezza è estrema, ma voi mi darete grazia e forza e così potrò riuscire a
contenerlo in me”.
Comprendevo però che il cibo
stomachevole erano le impurità, [quel]lo insipido le opere buone malamente
fatte, tutte strapazzate, che a Nostro Signore gli sono piuttosto di fastidio e
di peso, e quasi sdegna di riceverle, e non potendo sopportarle le vuol rovesciare
dalla sua bocca. Chissà quante delle mie ci sono insieme! Onde costretto da me
ha versato anche un poco di quel cibo. Come aveva ragione Gesù che era più tollerabile
l’amaro, che quel cibo stomachevole ed insipido! Se non fosse per suo amore, a
qualunque costo non l’avrei accettato.
Dopo ciò il benedetto Gesù mi ha
messo il braccio dietro il collo, e poggiando la sua testa sulla mia spalla si è
messo in atto di voler prendere riposo. Mentre riposava mi son trovata in un
luogo dove stavano tante basole[70]
movibili, e sotto l’abisso. Io temendo di precipitare l’ho risvegliato,
invocando il suo aiuto, e lui mi ha detto:
“Non temere, è la via che tutti
battono; non ci vuol altro che tutta l’attenzione, e siccome la maggior parte
camminano sbadati, ecco la causa perché molti si precipitano dentro l’abisso e
pochi sono quelli che giungono al porto della salvezza”.
Dopo ciò è scomparso ed io mi son
trovata in me stessa.
Nos
cum Prole pia benedicat Virgo Maria.
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