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VOLUMI DI LUISA 1, 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 ,9,10 ,11, 12,


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Quaderno di “Memorie dell’infanzia”
e
Volume 1





Luisa Piccarreta
“La Piccola Figlia della Divina Volontà”



Luglio 15-1926
Mio Gesù, amor mio, mia Mamma celeste e sovrana Regina, venite in mio aiuto, prendete fra le vostre mani il povero mio cuore; non vedete come mi sanguina per il duro combattimento di dover cominciare da capo, per dire la mia povera esistenza, della mia infanzia? A qualunque costo vorrei sfuggire questo dolorosissimo e duro sacrificio, e tanto più duro perché inaspettato; ma una novella ubbidienza esce in campo per martoriare la mia povera ed insignificante esistenza. Gesù, Mamma, venite in mio aiuto, altrimenti mi sento che la mia volontà vorrebbe uscire in campo di nuovo, per avere vita e poter dire un ‘no’ reciso a chi mi comanda. Ah, Gesù, permetterai tu forse che io abbia che ci fare[1] col mio vo­lere, dopo tanto tempo che tu con tanta gelosia lo tieni legato ai tuoi piedi come dono e trionfo della piccola figlia tua? Mi hanno imposto di pregare per sapere da te se debbo o no farla, e tu invece di essere con me, mi hai detto: “Ciò servirà a far conoscere la terra che doveva illuminare il sole della mia Volontà[2], per formare il regno suo”. Ah, Gesù, che importa a me far conoscere la mia piccola terra! E a te deve importare che si conosca il tuo Volere, non è vero o Gesù? Ma Gesù ha fatto silenzio ed è scomparso, ed io pronunzio con tutta l’intensa amarezza dell’anima : “Fiat! Fiat!”, ed incomincio.
Onde dico in principio ciò che mi hanno detto, la stessa mia famiglia.
Nacqui il 1865, 23 aprile, la domenica in albis, di mattina; la sera stessa mi battezzarono. Diceva mia madre che io nacqui a rovescio, ma lei non soffrì nulla nel parto, tanto che io, negli incontri e circostanze della mia povera vita, son solita di dire: “Nacqui al rovescio! È giusto che la mia vita sia al rovescio della vita delle altre creature”. Onde ricordo che nella mia tenera età di tre o quattro anni, fino all’età di circa dieci, ero di temperamento pauroso, ed era tanta la paura che, né sapevo star sola, né dare un passo da sola; ma ciò era causato che fin dall’età di tre anni, nella notte facevo quasi sempre sogni di paura. Sognavo il demonio, che mi metteva spavento tale da farmi tremare; molte volte lo sognavo che mi voleva portare con sé e mi tirava forte, ed io facevo tutti gli sforzi per fuggire; ed io nello stesso sogno sudavo freddo, mi nascondevo, fuggivo in braccio alla mamma mia; quindi il giorno mi restava l’impressione dei sogni, e tale paura come se da tutte le parti il demonio volesse uscire. Ora credo che ciò mi fece bene, perché sin da quella tenera età io recitavo molte Ave Maria e Pater Noster a tutti i santi [di cui] io conoscevo il nome, per avere la grazia di non farmi sognare il demonio; e se mi veniva nominato un altro santo che io non conoscevo, subito aggiungevo un Pater, se era santo maschio, un’Ave se era donna, perché dicevo che se non li onoravo tutti, mi facevano sognare il demonio. Ricordo che le sette Ave alla Mamma addolorata, fin da quell’età le recitavo sempre, sicché tenevo una lungaggine di Pater ed Ave Maria; e perciò mentre le altre bambine e mie sorelline giocavano, io restavo un po’ discosta da loro, oppure insieme con loro perché avevo paura, ma non prendevo parte ai loro giuochi innocenti, per recitare le mie lunghe Ave e Pater Noster… Ricordo pure che qualche vol­ta sognavo la Vergine, che mi cacciava il demonio, ed una volta mi disse: “Figlia mia, piangi, che è morto mio Figlio”. Io restai scossa e la compativo; ma ciò mi rendeva infelice. Quando giunsi all’età più capace in cui potevo fare la meditazione, leggere, non potevo appartarmi per la paura, e quindi non potevo fare ciò che volevo.
Ora, avendomi fatta all’età di undici anni figlia di Maria, un giorno, mentre volevo pregare e meditare, la paura mi sorprese e stavo per fuggire in mezzo alla famiglia, mi intesi una forza nel mio interno che mi tratteneva, e sentii nel fondo dell’anima mia una voce che mi diceva: “Perché temi? C’è l’angelo tuo vicino al tuo fianco, c’è Gesù nel tuo cuore, c’è la Mamma celeste che ti tiene sotto il suo manto; perché dunque prendi paura? Chi è più forte: l’angelo tuo custode, il tuo Gesù, la tua Mamma celeste, o il nemico infernale? Perciò non fuggire, ma restati e prega, e non aver paura”.
Questo sentire nel mio interno mi recò tanta forza, coraggio e fermezza, che si allontanò la paura, ed ogni qual volta mi sentivo sorprendere dalla paura, mi sentivo ripetere la stessa voce nel mio interno, ed io mi sentivo portare come con mano dal mio angelo, dalla sovrana Regina e dal dolce Gesù; mi sentivo trionfante in mezzo a loro, in modo che acquistai tale coraggio che mi allontanò tutta la paura; molto più che i sogni paurosi cessarono del tutto. Così potetti restare sola, camminare sola, andare sola in giardino quando si stava alla masseria, mentre prima, se ci andavo, solo che vedevo muoversi un ramo d’albero, fuggivo, perché pensavo che lì sopra c’era il demonio.
Ricordo che un giorno, ricordando la paura della mia piccola età, i tanti sogni del nemico, che mi rendevano infelice la mia fanciullezza, dicevo a Gesù: “A che pro, amor mio, aver passata la mia infantile età con tanta paura, con tanti sogni cattivi, che mi facevano tremare, sudare ed amareggiare un’età così tenera? Io non ne capivo nulla, né credo che il nemico avesse nessuno scopo, stante un’età così piccola”; e Gesù mi disse: “Figlia mia, il nemico intravedeva qualche cosa su di te: che mi potresti[3] servire a qualche cosa della mia grande gloria, e che lui doveva ricevere una grande sconfitta, non mai ricevuta; molto più che vedeva che, per quanto si sforzava, non poteva far penetrare in te nessuno affetto o pensiero meno puro, perché io gli tenevo chiuse le porte, e lui non sapeva da dove entrare; vedendo ciò si arrabbiava e cercava di atterrirti, non potendo altro, con sogni paurosi e di spavento. Molto più che non sapendone la cagione dei miei grandi disegni su di te, che dovevano servire alla distruzione del suo regno, si metteva sul­l’attenti per indagare la causa, con la speranza di poterti nuocere in tutti i modi”.
Nostro Signore è stato tanto buono con me, dandomi genitori buoni, e [in] più stavano attenti a non farci sentire neppure una parola di bestemmia o meno onesta. Mi amavano, ma con amore dignitoso e serio. Ricordo che mai mio padre, essendo bambina, mi pigliò in braccio, né di avergli dato, né ricevuti baci; neppure a mia madre ricordo d’averla baciata, e quando fui grande e mi misi a letto, la mamma, dovendo andare alla masseria e mancare lunghi mesi, nel licenziarsi da me faceva atto di volermi baciare, ed io, vedendo ciò, prima che lo facesse le baciavo la mano, ed essa si asteneva di fare quello sfogo tutto materno.
Il babbo e la mamma erano angeli di purità e di modestia. Sono stati larghi coi loro dipendenti: la frode, l’inganno, non tenevano luogo in casa nostra. Era tanta la custodia che mai ci affidarono a persone estranee, ma sempre con loro. Io mi auguro che il benedetto Gesù abbia premiato tanta virtù, dando loro per soggiorno la patria celeste. Ricordo pure che io ero di temperamento vergognoso, e se venivano parenti o altri a farci visita, io me ne fuggivo sopra, per non farmi trovare, oppure mi nascondevo dietro d’un letto e pregavo, ed allora uscivo, quando mi chiamavano e mi dicevano che se ne erano andati; e quando la mamma mia andava a far visita ai parenti e voleva portarmi insieme, piangevo, perché non volevo andare; ed io ed un’altra mia sorellina, quasi dello stesso temperamento, ci contentavamo di restarci sole chiuse a chiave, anziché d’uscire. Questa vergogna non mi faceva prendere parte a nulla, né a feste, né a divertimenti, anche innocenti, che si usano nel­le famiglie; ero la sacrificata della vergogna, e se i miei mi costringevano, stavo in croce, perché la vergogna, tutte le cose me le rendeva estranee.
Onde ricordando tutto ciò, che in qualche modo ren­deva infelice la mia fanciullezza, il dolce Gesù mi disse: “Figlia mia, anche la vergogna con cui ti circondai nella tua tenera età fu una delle più grandi gelosie d’amore per te; non volevo che in te entrasse nessuno, né il mondo, né le persone; volevo renderti estranea a tutti. A nessuna cosa volevo che tu prendessi parte e che ti facesse piacere, perché avendo stabilito fin d’allora che dovevo formare in te il regno del Fiat supremo, e dovendo tu prendere parte alle sue feste ed alle gioie che in Esso ci sono, era giusto che nessun’altra festa tu godessi, e che dei piaceri e divertimenti che ci sono sulla terra ne dovresti[4] restare digiuna. Non ne sei contenta?”. Ma ad on­ta che ero vergognosa e paurosa, ero di temperamento vivace, allegra; saltavo, correvo e facevo anche delle impertinenze.
Ora, dopo, all’età di dodici anni circa, incominciò un altro periodo della mia vita: incominciai a sentire la voce interna di Gesù, specie nella comunione. La prima la feci a nove anni, e nel medesimo giorno ricevetti il sacramento della santa cresima. Quindi non di rado [la voce di Gesù] si faceva sentire nel mio interno quando facevo la santa comunione. Delle volte rimanevo le ore intere inginocchiata, quasi senza moto, dopo la comunione, e sentivo la voce interna che diceva: - e ora mi rimproverava se non ero stata buona – “attenta”; e se nel corso del giorno ero stata qualche volta distrattella, oh, come mi riprendeva, e finiva col dirmi: “Eppure mi dici che mi vuoi bene; e dove è questo tuo bene?”.
Io mi sentivo morire nel sentirmi dir ciò, e promettevo di essere più attenta, e Gesù soggiungeva: “Vedrò, vedrò se sarà vero…; le parole non mi bastano, ma voglio i fatti”.
La comunione diventò la mia passione predominante. In essa accentrai tutti i miei affetti. Ero certa di sentir parlare nostro Signore; e quanto mi costava l’es­serne priva, perché ero costretta dalla famiglia ad andare insieme con loro alla masseria, e dovevo stare lunghi mesi senza messa e senza comunione. Quante volte rompevo in pianto nel vedere alberi, fiori, la creazione tutta…!
Dicevo tra me: “Le opere di Gesù sono intorno a me; solo Gesù non è con me… Deh, parlami tu fiore, tu sole, tu cielo, tu acqua cristallina che scorri nel nostro laghetto, parlatemi di Gesù; siete opere delle sue mani, datemi notizie di lui…! E mi sembrava che tutte di lui mi parlassero. Ogni cosa creata mi parlava di ciascuna qualità di Gesù, ed io piangendo, che non potevo ricevere Colui che tutte le cose amavano, e che sapevano così bene narrare della bellezza, dell’amore, della bontà di Gesù, piangevo e giungevo fino ad ammalarmi. Anche nella meditazione sentivo la voce di Gesù, ma qualche volta mi mancava; invece nella comunione, mai. E quante volte meditando restavo le due o le tre ore senza potermi distaccare; come leggevo il punto e mi fermavo, così la voce di Gesù sentivo nel mio interno, che atteggiandosi a maestro mi spiegava la meditazione. Fin d’allora mi faceva nel mio interno, l’amabile Gesù, lezioni sulla croce, sulla mansuetudine, sull’ubbidienza, sulla sua vita nascosta… A tal proposito, della sua vita nascosta, ricordo che mi diceva: “Figlia mia, la tua vita deve essere in mezzo a noi nella casa di Nazareth. Se lavori, se preghi, se prendi cibo, se cammini, devi avere una mano a me, l’altra alla Mamma nostra, e lo sguardo a san Giuseppe, per vedere se i tuoi atti corrispondono ai nostri, in modo da poter dire: ‘Faccio prima il mio modello sopra a ciò che fa Gesù, la Mamma celeste e San Giuseppe, e poi lo seguo’. A seconda il modello che hai fatto, io voglio essere ripetuto da te nella mia vita nascosta; voglio trovare in te le opere della Mamma mia, quelle del mio caro san Giuseppe, e le mie stesse opere”. Io restavo confusa e gli dicevo: “Mio amato Gesù, io non so fare”.
E lui: “Figlia mia, coraggio, non ti abbattere; se non sai fare domandami che io ti insegni, ed io subito t’in­segnerò; ti dirò il modo come facevamo, le mie intenzio­ni, l’amore continuo di tutti e tre, che[5] io come mare e loro come fiumicelli eravamo sempre gonfi, in modo che uno straripava nell’altro, tanto che poco tempo tene­vamo di parlarci, tanto eravamo assorbiti nell’amore. Vedi quanto stai dietro? Molto hai da fare per raggiungerci; ti conviene molto silenzio ed attenzione, ed io non ti voglio dietro, ma in mezzo a noi”.
Onde, quando non sapevo fare, domandavo a Gesù, e lui m’insegnava nel mio interno. Cercavo quasi sempre, quanto più potevo, di appartarmi dalla famiglia per starmi sola, per mantenere il silenzio; prendevo il mio lavoro e chiedevo alla mamma che mi permettesse di andarmene sopra, e lei me lo concedeva.
Sicché la mia mente stava nella casa di Nazareth, ed ora guardavo l’uno, ora l’altro, e mi confondevo nel vederli così attenti nei loro umili lavori, così assorbiti nelle fiamme d’amore, che s’innalzavano tanto in alto che i loro lavori restavano incendiati e trasformati in amore; ed io, meravigliata, pensavo tra me: “Loro amano tanto, ed il mio amore qual è? Posso dire che i miei lavori, le mie preci, il cibo che prendo, i passi che faccio, sono fiamme che s’innalzano al trono di Dio, e formando fiume straripa nel mare di Gesù?”. E vedendo che non lo era, restavo afflitta; e Gesù nel mio interno mi diceva: “Che hai? Non ti affliggere; a poco a poco giungerai. Io ti starò sopra, e tu seguimi e non temere”.
Se io volessi dire tutto ciò che passai nel mio interno nella mia fanciullezza, andrei troppo per le lunghe; molto più che nel primo volume da me scritto, senza precisare l’epoca, prima o dopo, quando fui più piccola o quando fui più grande, sta dato un accenno del lavorio della grazia nel fondo dell’anima mia, perché così mi fu detto: che non faceva nulla che non mettessi l’ordine dell’età, né quello che era stato prima, né quello che era stato dopo, ma purché dicessi quello che in me era passato; molto più che dopo tanti anni mi riusciva difficile tenere l’ordine di ciò che era passato nel mio interno. Ed ora, per non fare ripetizione, passo avanti.
Ricordo che, ragazza, avevo quasi una smania di volermi far suora, e siccome andavo dalle suore a scuola, io sentivo un affetto un po’ spinto per loro, ma però le[6] volevo bene perché volevo essere come una di loro; ma nel mio interno mi sentivo rimproverarmi di questo affetto, e mentre promettevo di non amare altro che Gesù, ricadevo di nuovo, e Gesù ritornava a darmi amari rimproveri. Unico affetto che ricordo, che ho sentito in vita mia in modo speciale, che poi non mi son sentita più amore con nessuno. Che tirannia è un affetto naturale e forse anche innocente, al povero cuore umano! Lo ricordo con terrore; i rimproveri interni mi mettevano in croce; mi sembrava che il mio affetto teneva in croce Gesù, e Gesù per ricambio metteva in croce me, e perciò non godevo la vera pace, perché è la natura dell’amore umano, guerreggiare un povero cuore. Aver pace ed amare persone con modo speciale, non esiste nel mondo, e se esiste significa non aver coscienza, ed ancorché fosse con fine santo o indifferente. Ma il benedetto Gesù la fece subito finire, ed ecco come.
Una mattina pregai la mamma che mi mandasse a far visita alla superiora, e l’ottenni con stento e sacrificio. Mentre andai, domandai che mi facessero uscire la superiora, e dopo mi fu risposto che stava occupata e non poteva uscire; io restai come ferita nel sentir ciò. Andai in chiesa e sfogai la mia pena con Gesù, e lui prese occasione da ciò per farmela finire. Mi parlò del suo amore e dell’incostanza dell’amore delle creature, e come voleva che assolutamente la finissi, dicendomi che: “Quando un cuore non è vuoto, io lo rifiuto, né posso incominciare il lavorio che ho disegnato di fare nel fondo dell’anima”. Ma chi può dire tutto ciò che mi disse nel mio interno? Ricordo che là finì, ed il mio cuore restò impavido, senza sapere amare più nessuno.
Onde pregavo sempre Gesù che mi facesse giungere a farmi suora, e spesso lo domandavo quando me lo[7] sentivo nel mio interno, se doveva giungere a compimento la mia vocazione religiosa, e Gesù mi assicurava dicendomi: “Sì, ti contenterò; vedrai che sarai suora”. Io restavo tutta contenta nel sentirmi assicurare da Gesù, e cercavo di disporre la famiglia per ottenere il consenso, la quale era contraria, specie la mamma; giungeva fino a piangere, e mi diceva che mi avrebbe contentato se avessi voluto farmi suora di clausura, ma delle suore attive, non me l’avrebbe fatta mai vincere. Io però, a dire il vero, volevo farmi suora attiva, perché quelle che conoscevo erano state le mie maestre, ma sopravvenne la mia lunga malattia, e mise termine alla mia vocazione; e molte volte mi lamentavo con Gesù e gli dicevo: “Ep­pure mi dicevate la bugia, mi davi la burla, promettendomi che dovevo giungere a farmi suora”.
E Gesù molte volte mi ha assicurato che mi diceva la verità, dicendomi: “Io non so né ingannare né burlare; la chiamata che io facevo a te era più speciale: chi mai col farsi suora, anche nelle religioni più strette, non può camminare, non prendere aria, non godere nulla? E quante volte nelle religioni fanno entrare il piccolo mon­do e si divertono magnificamente? Ed io resto come da parte. Ah, figlia mia, quando io chiamo ad uno stato, io so come realizzare la mia chiamata; il luogo è per me indifferente, l’abito religioso per me dice nulla, quando nella sostanza dell’anima è quello che dovrebbe essere se fosse entrata in religione; e perciò ti dico che sei e sarai la vera monacella del cuore mio”.



Oh, grande sacrifizio che mi s’impone dalla santa obbedienza alla mia capacità, di dover mettere su carta quanto tra me ed il mio diletto Gesù è avvenuto nel corso di sedici e più anni. Mi sento come schiacciata sotto di sì ingente peso; ciò nonpertanto mi accingo, a mia grande confusione, a compierlo, ma fidente in Gesù, mio sposo diletto, affinché voglia rendermelo meno gravoso; così potrò compierlo per la maggior gloria di Dio e per l’amore che nutro verso la nobilissima virtù del­l’obbedienza.
In te, o Gesù, con te e per te, do principio; di me diffido, in te confido; senza di te io nulla posso; ma sempre nel principio, nella durata del tempo che mi occorre, e nel termine, sia fatto tutto per la maggiore gloria tua, per accrescimento del mio amore verso di te, e per la mia grande confusione.
In una Novena del santo Natale del mio sempre amabile Gesù, ancora in età di diciassette anni, volli prepararmi a questa festività con la pratica giornaliera di diversi atti di virtù e mortificazioni, a scopo speciale di onorare i nove mesi che Gesù si compiacque stare nel verginale seno di Maria Santissima; mi proposi, quindi, di fare nove meditazioni al giorno, concernenti sempre il sacrosanto mistero dell’Incarnazione.
In una meditazione mi proponevo di portarmi col pensiero lassù, in paradiso, e m’immaginavo la Santissima Trinità in decisivo consiglio di voler riscattare l’u­man genere, decaduto nella più squallida miseria, da cui, senza dell’operato divino, giammai poteva sorgere a novella vita di assoluta libertà; quindi mi ravvisavo il Padre in atto di voler mandare il suo Unigenito sulla terra, il Figliuolo in atto di assentimento alla nobile idea del Padre, e lo Spirito Santo in atto compiacentissimo di voler essere, nel suo pieno consenso, tutto a maggior bene e salvezza dell’umanità. La mia mente si confondeva, e si meravigliava tutto l’essere mio nell’intuire un sì grande mistero di sì reciproco amore, così forte e sì uguale, tra le Divine Persone, che tutto si rendeva diffusivo per il copioso vantaggio degli uomini, e quindi consideravo l’ingratitudine degli uomini, nel mettere in non cale il copioso frutto di sì grande amore. In questa considerazione mi sarei stata non solo una bella ora, ma ancora tutta l’intera giornata, se non mi avesse fatto sentire[8] una voce nel mio interno che mi diceva: “Basta così per ora; vieni meco e vedi altri eccessi più grandi del mio amore verso di te”.
La mia mente, quindi, veniva trasportata a considerare il mio sempre amabile Gesù, risiedente nel purissimo seno di Maria Santissima, Vergine e Madre, ed io rimanevo stupita nel considerare un Dio sì grande che non può essere contenuto dai cieli, pur tuttavia, per amor dell’uomo, così annichilito, impicciolito e ristretto, da non potersi muovere, e quasi neppure respirare nel materno seno. A tale considerazione, che mi faceva struggere di amore pel nascituro Gesù, dal mio interno mi si faceva sentire una voce che mi diceva: “Vedi quanto ti ho amato? Deh! Procurami un po’ di largo nel tuo cuore; togli tutto ciò che non è mio, acciocché mi dia più agio a potermi muovere e respirare nel tuo cuore”. Il mio cuore allora si sentiva tutto distruggere di amore per lui, ed io gli chiedevo perdono dei falli miei, promettendogli di voler essere tutta sua; mi sfogavo in amarissimo pianto e, sebbene di giorno in giorno ripetevo la stessa promessa, nondimeno, ad onor del vero ed a mia confusione, mi trovavo di aver commessi i soliti miei difetti, a vista dei quali nel grande mio dolore esclamavo: “O mio buon Gesù, quanto sei stato e tuttora sei benevolo verso questa misera creatura, abbi sempre di me pietà!”.
Così passava la seconda ora di meditazione, e poi via via la terza sino alla nona, che tralascio per non rendermi troppo seccante delle mie insipide e per me increscevoli narrazioni. E poiché la voce interna richiedeva da me che le stesse meditazioni si ripetessero in ciascun giorno della suddetta Novena, altrimenti non mi dava né tregua né riposo, m’ingegnavo come meglio potevo a far ciò: quando inginocchiata, quando prostrata a terra, e quando ne ero impedita dalla famiglia procuravo di seguirlo ancora lavorando, per contentare sempre il mio buon Gesù.
Così passai tutti i giorni della santa novena, tanto che giunse la vigilia in cui il mio diletto Gesù volle dar­mi la non insolita ed inaspettata ricompensa. Nella vigilia del santo Natale, io me ne stavo sola e solerte nel dar termine alle suddette meditazioni, e mentre mi sentivo più che mai accesa d’insolito fervore, mi si fa innanzi il graziosissimo bambinello Gesù, tutto grazioso e bello, sì, ma tremante più che mai dal freddo per il poco amore che gli si dava dalla ingrata creatura. Lo vidi in atto di volermi abbracciare, ed io, fuori di me per una insolita gioia, subito mi alzai e corsi per abbracciarlo, ma egli, nell’atto di stringerlo fra le mie braccia, tosto mi scomparve, il che di nuovo si ripetette per ben tre volte, senza farsi da me abbracciare, per cui mi fece restare tanto commossa ed accesa di amore, da farmi cadere in dolce ed amoroso deliquio, che mi è difficile poter dire a parola, né tampoco mettere su carta, giacché mi mancano i vocaboli per ben esprimermi; però non posso negare d’essermi sentita tutta trasformata di amore per lui, e ciò per parecchi giorni, e che poi a rilento venne a scemarsi quell’insolito fervore provato, sino a tanto che, dopo lungo tempo, non ne feci più conto alcuno, e nemmeno feci di ciò motto ad anima vivente. La voce interna, però, d’allora in poi non mi lasciò mai più e, perché vi cadevo ancora, dopo delle mie solite mancanze mi riprendeva in ogni cosa non fatta bene; mi correggeva, insegnandomi il modo di far tutto sempre bene; mi animava se ci cadevo di nuovo, facendomi promettere più diligenza in avvenire. In una parola, il Signore, d’allora e sempre, ha agito ed agisce con me come un buon padre verso un figlio tendente a sviare sempre dal diritto sentiero della virtù, usando tutte le paterne diligenze e cure per ritenerlo nel dovere, in modo da formarsene poi il suo onore, la sua gloria e la sua più ricercata e fulgida corona di virtù. Ma purtroppo, per mia vergogna e confusione, mi conviene tuttora esclamare: “Oh quanto, o Gesù, ti sono stata ingrata!”.
Il mio divin maestro Gesù, in questo modo diede principio e vi pose mano a spogliare il mio cuore da tutte le affezioni che ci attaccano alle creature, per cui sempre e con voce interna mi è venuto dicendomi: “Io sono il tuo tutto, che merita di essere amato da te con uniformità al mio amore che ti porto. Vedi, se tu non al­lontani da te questo piccolo mondo che da ogni intorno ti circonda, cioè, pensieri, affetti ed immaginazioni verso le creature, io non posso entrare del tutto nel tuo cuore e prendere stabile possesso.
Questo mormorio continuo nella tua mente è d’im­pedimento a farti sentire più chiara la mia voce, a farmi versare in te le mie grazie, a farti innamorare totalmente di me, che sono sposo tutt’affatto geloso. Promettimi di voler essere tutta mia, ed io metterò mano all’opera per fare di te tutto quello che voglio. Tu hai ragione di dirmi che tu nulla puoi fare da te sola, ma non temere, farò io il tutto per te; dammi la tua volontà e ciò mi basta”.
E tutto ciò me lo ripeteva più spesso nella santa comunione, in cui mi effondevo in lacrime di pentimento, e gli promettevo più che mai di essere tutta sua, gli chiedevo perdono se fino a quel punto non ero stata secondo il suo Volere, e mi protestavo di veramente volerlo amare di tutto cuore, pregandolo ancora che non mi lasciasse sola, ché senza di lui sentivo che avrei potuto far di peggio. E Gesù, facendo sentire la sua voce da dentro il mio cuore, continuava a dirmi: “No, no; verrò assieme con te, dovunque tu vada, affine di osservare tutte le tue azioni, per dirigere ed equilibrare tutti i movimenti e desideri del tuo cuore”.
E così me la passavo tutto il giorno, non solamente pensando continuamente a lui, ma intenta ancora alla sua voce, che internamente mi riprendeva ogniqualvolta mi lasciavo trasportare un po’ a lungo nel discorrere con la famiglia di cose indifferenti o meno che necessarie; subito mi diceva: “Questi tuoi discorsi non mi sono graditi, ché ti riempiono la mente di cose che a me non appartengono, e ti circondano il cuore di una polvere nociva, in modo da farti perdere l’efficacia della mia grazia elargitati, rendendola così debole e non più viva; deh, imita me, quando io stavo nella casa di Nazareth, che avevo la mia mente non ad altro occupata che a quanto concerneva la gloria del Padre mio e la salvezza delle anime; la mia bocca non si apriva se non a fare discorsi santi, cercando con le mie parole di indurre altri a far riparare le offese che si facevano al Padre mio, e quindi saettavo i cuori che, spezzati dal dolore e rammolliti dalla grazia, li tiravo al mio amore. Che dirti poi delle spirituali conferenze che tenevo con la Madre mia e col mio padre putativo? In una parola, tutto ciò che si diceva, richiamava Dio, e tutto ciò che si operava era indirizzato e riferito a lui; perché non potresti fare tu altrettanto?”.
Se non che io, al suo dire, internamente restavo mu­ta e tutta confusa, e quindi cercavo quanto più potevo di starmene sola, ed era allora che gli confessavo la mia debolezza, gli chiedevo aiuto e grazia efficace per poter eseguire puntualmente quanto egli da me richiedeva, protestandomi che da me sola non avrei potuto fare altro che male. Guai, poi, se la mia mente o il mio cuore sfuggiva talvolta ad interessarsi di persone a cui volevo ancor io bene; la sua voce subito mi riprendeva aspramente, dicendomi in tono vibrante: “Questo è dunque il bene che mi vuoi? Chi mai ti ha amato al par di me? Vedi, che se tu non la fai finita, io mi allontano da te, lasciandoti sola ed in balìa di te stessa”. Ed io allora, a tali e tanti altri rimproveri amari, mi sentivo spezzare il cuore, e non facevo che piangere dirottamente, chiedendogli perdono. Se non che una mattina, finalmente, dopo aver fatta la comunione, mi diede un lume tanto chiaro sull’amore sì grande che mi portava e sulla volubilità ed incostanza dell’amore delle creature, che il mio cuore ne restò tanto preso, che d’allora in poi non è stato più capace di amare altra creatura fuori di lui. M’insegnò anche il modo come amare le creature senza di staccarmi giammai da lui, col guardare cioè le creature come immagini di Dio, in modo che, se mi veniva fatto del bene, dovevo riconoscerlo come venuto da lui, primo movente ed autore di quel bene che mi si faceva, ma che si serviva di loro per elargirmelo; se invece mi veniva fatto di ricevere qualche male, dovevo pensare che Iddio permetteva farmelo fare dalle creature a scopo solo del mio maggior bene, sia spirituale che corporale. Il mio cuore, quindi, più a Dio si sentiva tirato e legato, per cui avveniva che, mirando tutte le creature in Dio e l’immagine di Dio in ciascuna di loro, non più perdevo la stima [verso di] loro, e se mi motteggiavano, mi sentivo anzi più obbligata ad amarle in Dio, pensando che mi facevano fare nuovi acquisti di meriti per l’anima mia; se all’opposto mi si appressavano con lodi ed applausi, ricevevo il tutto con disprezzo, dicendo fra me: oggi questo, domani possono odiarmi, in vista dell’incostanza della creatura. Il mio cuore, insomma, acquistò d’allora tale libertà da non saperlo esprimere.
Dopo che il mio divin maestro mi sottrasse dal mon­do esterno, facendomi allontanare da qualsiasi creatura, e mi liberò dai pensieri ed affetti verso la creatura, vi pose mano a purificare tutto l’interno del mio cuore, da cui faceva risuonare spesso spesso, la sua dolce voce al mio udito, dicendomi: “Adesso che siamo rimasti soli, e non v’è più chi possa disturbarci, non sei più contenta ora, più di prima, che eri intenta a contentare coloro che ti erano sempre da vicino? Vedi quanto è più facile contentare uno solo che tanti? Ora contentiamoci a vicenda, facendo conto che tu ed io siamo soli in questo mondo; promettimi di essermi fedele, ed io verserò in te tali e tante grazie da restarne tu stessa meravigliata. Sopra di te ho fatto grandi disegni; sempre però che tu voglia corrispondere e conformarti al mio Volere, mi delizierò nel fare di te una perfetta mia immagine, cominciando tu ad imitar me dal mio nascere sino al morire. Non aver dubbio che tu non possa riuscirvi, perché io stesso t’insegnerò un po’ alla volta il modo da tenervisi”. Di giorno in giorno, infatti, mi ha parlato, specie dopo la santa comunione, di che dovevo occuparmi ed affaticarmi per rendere copioso il frutto della grazia che mi elargiva, a scopo di sua imitazione.
La prima cosa di cui tanto mi ha parlato, è stato sul­la necessità di purificare l’interno del mio cuore, e l’an­nichilamento di me stessa con l’acquisto della santa umiltà, per cui mi veniva spesso dicendomi: “Vedi, per fare che io versi nel tuo cuore le mie grazie, è necessario che ti convinca che da te sola niente e sempre niente puoi; sappi che io mi guardo assai bene dal comunicare grazie e doni a quelle anime che sono sempre intente ad attribuire a sé i buoni effetti che risultano dalle loro opere fatte nella mia grazia; queste mi fanno tanti furti dei doni e grazie, dall’amor mio loro donati, che se li ritengono come acquistati da loro stesse, per cui sempre devi dire: ‘I frutti che si producono nel mio giardino non sono da attribuirsi a me, tapina, ma effetti dei doni del divino mio amore, elargiti a profusione al mio cuore’. Abbi sempre in mente che io sono largo nel versare anche a torrenti le mie grazie a quelle anime che conoscono se stesse, purché niente usurpino per loro, ma ogni cosa ri­tengano fatta mercé la mia grazia, e facendo quella stima che si conviene, non solo mi siano grate, ma vivano ancora in continuo timore che ogni grazia, dono e favore, possono perdere se non mi corrispondono. Nei cuori che puzzano di superbia, io non posso entrarvi, perché, gonfie queste anime di loro stesse, non hanno nel loro cuore un posticino dove collocarmi, e perché non fanno alcun conto delle mie grazie, e queste, di cadute in cadute, vanno in rovina. Perciò voglio che tu faccia spesso spesso, anzi continuamente, atti di umiltà, e che te ne stia come un bambino in fasce che, non potendo da sé muovere un passo, né una mano per operare, tutto si aspetta dalla madre; così voglio che te ne stia vicino a me, come un bambino cioè, a pregarmi sempre che ti aiuti e ti assista, confessandomi ancora il tuo nulla ed aspettando tutto da me”.
Oh quanto, a questo parlare di Gesù, m’impicciolivo e mi annichilivo, in modo che, alle volte sentivo tutto l’essere mio come disfatto ed annientato, tanto che, sen­tendomi incapace di operare il bene, né abile a dare un passo, né un respiro senza essere sorretta ed aiutata da Gesù, tuttavia cercavo di fare il possibile per contentarlo in tutto, rendendomi umile ed obbediente.
Considerando, di mano in mano, lo stato di vita a cui Gesù mi chiamava, messo a confronto di quello già da me decorso, mi sentivo circondata da tali e tante miserie, che avevo vergogna di presentarmi a qualsiasi per­sona, riconoscendomi come la più cattiva che sia stata nel mondo, per cui mi ritiravo per quanto più potevo dalle creature, dicendo fra me stessa: “Oh, se sapessero quanto sono stata cattiva e le tante grazie che il Signore mi sta facendo, certo che non potrebbero non avermi in orrore! Spero che Gesù non voglia permettere che sappiano l’una e l’altra cosa, altrimenti mi getterebbe nel fi­nale mio annientamento”. Malgrado ciò, mentre il giorno seguente andavo a ricevere Gesù sacramentato nel mio cuore, pareva che facesse festa, nel vedermi così annientata, e [per] altre cose concernenti lo stato del mio perfetto annientamento in cui mi chiamava e [che] venivami suggerendo; sempre però in modi diversi dall’an­tecedente. Potrei asserire, senza errare, che le quante volte Gesù mi ha parlato, ha usato meco modi sempre nuovi nello spiegarmi le cause e gli effetti della virtù che inculcavami, e che altri modi diversi terrebbe, se migliaia di volte volesse parlarmi sulla stessa virtù. O mio divin maestro, quanto sei sapiente! Ed io, che non ti ho corrisposto, quanto sono stata ingrata! Confesso, però, che la mia mente ha cercato sempre di afferrare la verità, come la volontà di seguirla, nell’atto che Gesù mi ha parlato, ma che poi ho molto perduto, sia l’una che l’altra, ed io non ho potuto effettuare sino al termine quanto Gesù chiedevami; per questo sempre più mi umi­liavo, confessando la mia dappocaggine, e promettendo in seguito più attenzione e buon volere; ma con tutto ciò, se non ero aiutata da Gesù non riuscivo a fare quel bene con quella perfezione da lui voluta.
Ed appunto per questo, egli spesse volte mi ha detto: “Se tu fossi stata più umile e sempre più vicina a me, non l’avresti fatta sì male quell’opera, ma perché talvolta hai creduto dar principio, proseguirla e terminarla senza di me, ti è riuscita, sebbene con tutto il tuo rincrescimento, non a seconda del mio Volere. Invocami, perciò, nel principio di ogni tua azione che intraprendi, abbimi sempre presente per farla meco, e così sarà compiuta a perfezione; sappi che facendo sempre così acquisterai la più profonda umiltà; all’opposto rientrerà in te la superbia, e questa soffocherà il germe, gettato in te, della bella virtù dell’umiltà”.
Così dicendo, mi diede tanta luce di grazia, da farmi comprendere quanto brutto è il peccato della superbia, che è il più grande affronto che gli si possa fare e la più orrenda ingratitudine, poiché questa accieca talmente l’anima da farla cadere nella più enorme empietà, cagionando così la totale rovina dell’anima.
Questa luce di grazia fuori dell’ordinario, accordatami spesso dal mio Gesù, mi lasciava una profonda tristezza del passato ed un vivo timore dell’avvenire, e perciò, non sapendo che fare per riparare il malfatto, facevo qualche mortificazione di mia volontà, ed altre ne chiedevo al confessore, che non sempre mi venivano concesse; ma tutto ciò che facevo sembrava ombra di penitenza, per cui non potendo e non sapendo fare altro, mi struggevo in lacrime, pensando ai peccati commessi, ed usavo ogni mezzo per unirmi al sempre mio amabile Gesù, giacché il timore che standogli discosta potessi far di peggio, si era talmente impossessato di me, che io stessa non so dire ciò che avveniva in me. E chi può dire le quante volte ricorrevo al mio Gesù, per confidargli la pena dei falli miei, che vivamente sentivo nell’intimo del mio cuore, per chiedergli le mille volte perdono, per ringraziarlo delle tante grazie concessemi, e per invocarlo ad essermi sempre più vicino?
“Vedi - gli dicevo spesso - o mio buon Gesù, quanto tempo ho perduto, quanta grazia ho sperperata, mentre che, sia nell’uno che nell’altra, avrei potuto tesoreggiare nell’accrescimento del mio amore verso di te, sommo ed unico mio bene e mio tutto?”.
E continuavo così a ripetere continuamente a Gesù il male commesso, e in un modo quasi noioso, ma Gesù severamente mi ha ripresa, dicendomi: “Non voglio più che ci pensi al passato. Sappi che quando un’anima si è umiliata, perché convinta di aver fatto il male, e quindi l’anima contrita ed umiliata è stata lavata nel mio sacramento di penitenza, ed è più disposta a morire anziché ritornare ad offendermi, è un affronto che fa alla mia misericordia, e nello stesso tempo impedimento al­l’amor mio, in quanto che ella, con la sua mente, s’in­volge sempre nel fango del passato, per cui non posso farle prendere nel mio amore il volo verso il cielo, sino a tanto che voglia continuare a stare immersa nelle sozze idee, pensando al passato. Vedi, io del male da te commesso non mi ricordo più, avendo tutto perfet­tamente dimenticato. Vedi tu forse qualche rancore in me? Oppure qualche ombra di malumore verso di te?”.
Ed io a lui: “No, no, Signore, che anzi sei tanto buono che mi sento spezzare il cuore nel pensare alla tua bontà e tenerezza di amore verso di me, quantunque ti sia stata tanto ingrata”.
Ed egli: “Ebbene, figlia mia, perché vuoi portarti ancora al passato? Quanto sarebbe meglio che pensassimo ad amarci vicendevolmente!
Cerca perciò, d’ora innanzi, di contentarmi, e sarai sempre in pace”.
D’allora in poi, infatti, non ci ho pensato più, proponendomi di contentare il mio adorabile Gesù, sebbene tornassi spesso spesso a pregarlo che avesse avuto la bontà d’insegnarmi il modo come riparare il tempo malamente passato. Ed egli: “Vedi che sono pronto a fare quello che tu vuoi, ma devi ricordare quel che da tempo ti dissi, che la cosa più vantaggiosa è l’imitazione della mia vita; dimmi, che cosa ti manca ora?”.
Ed io: “Signore, mi manca tutto; non ho altro che il proprio nulla”.
E Gesù: “Ebbene, non temere, che a poco a poco faremo tutto. Conosco quanto sei debole, ma è da me che attingerai la forza, la costanza e la buona volontà di seguire puntualmente tutto ciò che ti sarà detto. Voglio che tu sia retta nell’operare: un occhio deve guardare me, e l’altro a ciò che fai. Voglio che le creature ti scompariscano affatto, così che quando verrai da esse comandata, tutto eseguirai come se ti venisse comandato direttamente da me, affinché con l’occhio fisso in me non giudichi nessuno, non guardi se la cosa sia penosa e disgustosa, facile o difficile; chiuderai gli occhi a tutto ciò che ti sarà comandato, e li aprirai in me solo, pensando che sto sopra di te a mirare il tuo operato, e spesso mi dirai: ‘Signore, dammi la grazia di far bene ciò che per te solo voglio intraprendere, continuare e terminare; non voglio rendermi più schiava delle creature’. Ondeché, se cammini, se parli, se operi, e qualsiasi altra cosa, lo farai ad unico fine del mio maggior piacere e compiacenza. Voglio che nelle mortificazioni, ingiurie e contraddizioni che ti venissero fatte, abbia lo sguardo fisso in me, pensando che non sono le creature, ma io, che di mia propria bocca ti stia dicendo: ‘Figlia, voglio farti un po’ soffrire; voglio renderti bella per mezzo di queste sofferenze; voglio arricchire l’anima tua di nuovi meriti; voglio lavorare sull’anima tua in modo da renderti simile a me’. E tu, soffrendo tutto per amor mio, mi farai un’offerta in rendimento di grazie, per averti fatto operare con merito; ed ancora ricompenserai di qualche benefizio coloro che ti avranno dato occasione di farti soffrire a torto. Così facendo camminerai direttamente innanzi; le cose tutte non ti daranno più inquietudini, e godrai perfetta pace”.
Dopo qualche tempo che Gesù mi fece esercitare nelle cose suddette, mi parlò dello spirito di mortificazione, facendomi ben comprendere che se il tutto non viene informato dall’amor suo, ancorché fossero virtù e grandi sacrifizi, se non hanno per principio, centro e ter­mine, l’amor suo, si rendono insipidi e senza alcun merito; e perciò mi diceva:
“La carità è virtù che dà splendore a tutte le altre, in modo che senza di questa tutte le opere riescono morte. L’occhio mio non riceve alcun’attrattiva dalle opere fat­te senza lo spirito di carità, giacché dette opere non han­no accessibilità al mio cuore. Statti perciò attenta a fare le tue opere, anche minime, con lo spirito informato a carità, cioè fatte in me, con me e per me, con lo spirito di sacrifizio; altrimenti non saranno riconosciute da me come mie, se non portano l’impronta della tua e mia mortificazione. Come la moneta, se non portasse impressa l’immagine del proprio re, non sarebbe ritenuta dai popoli come buona, ma falsa e quindi di nessun valore, così delle tue opere, se non sono innestate alla mia croce. Ora non si tratta più di demolire l’affetto alle creature, ma a te stessa; voglio farti morire in te, per farti vivere solamente in me; voglio, in una parola, imprimere in te la mia stessa vita. È vero che ciò ti costerà più di quanto hai fatto finora, ma fatti coraggio e punto temere; non tu sola ciò farai, ma io insieme con te, e tu con me faremo tutto”.
Mi dava quindi altri novelli lumi circa l’annichila­mento di me stessa, dicendomi: “Tu non sei e non devi stimarti altro che un’ombra che rapidamente passa, la quale, mentre vai per prenderla, ti sfugge. Se vuoi, perciò, divenire in me qualche cosa di grande, stimati sempre nulla; compiacendomi del tuo vero abbassamento, verserò in te il mio tutto”.
E nel dir ciò, il mio buon Gesù imprimeva nella mia mente e nel mio cuore tale annientamento di me stessa, che sentivo di volermi nascondere nei più cupi abissi, e vedendomi impossibilitata a farlo, provavo tale rossore da vergognarmi di me stessa; e mentre mi trovavo in questo disfacimento di stima propria, mi diceva: “Fatti sempre più vicina a me, anzi appoggiati al mio braccio, che ti sosterrò e ti darò forza da operare sempre e tutto per me”.
Essendo Iddio sommamente perfetto in se stesso, non può assolutamente, uscendo fuori di sé, non aspirare che l’opera sua non tenda sempre alla massima perfezione. Ora, se tutto ciò che è stato creato da Dio mira a questo, e non può naturalmente cessare dal tendere al miglioramento di sé, tanto più la creatura fornita d’intel­ligenza e volontà, non deve mai mettere in non cale la sua perfezione, se brama che Iddio abbia a trovare in lei la Sua compiacenza. Questa creatura, formata da Dio a sua immagine e somiglianza, può veramente raggiungere la massima perfezione richiesta da Dio, se sarà in tut­to uniformata alla Volontà di Dio e corrispondente alle grazie da lui elargite. Ora, se il Signore mi sta da vicino, se vuole che mi appoggi al suo braccio, se con ogni sua attrattiva mi pressa a gettarmi nelle sue paterne braccia e vuole che da lui debba attingere tutta la forza per ben operare, non sarei io stolta ed insensata se rifiutassi questa grazia e non corrispondessi al suo Santo Volere? Perciò io, più che ogni altra creatura, mi sento in dovere di seguire sempre il mio amabile Gesù, che mi dice:
“Da te stessa, tu sei veramente cieca, ma non temere; la luce mia, più che mai, ti sarà di guida, anzi, io stesso sarò in te e con te ad operare cose meravigliose; seguimi dunque in tutto e vedrai. Per ora mi metto innanzi a te come specchio, e tu non farai che guardarmi per imitarmi, ma non perdere di vista la mia persona. La prima cosa che devi mortificare in te è la tua volontà; devi distruggere in te quell’io, che tutto brama, fuorché il bene. Questa tua volontà sia sacrificata come vittima innanzi a me, ed in modo tale da rendere una sola la tua e la mia Volontà. Non sei tu di ciò contenta? Preparati, quindi, alle contraddizioni che ti saranno date da me stesso e dalle creature”.
Quindi, come il vento fa spogliare delle fogliuzze il calice del fiore e presenta il piccolo frutto che in se si sviluppa, così, alle parole del mio Gesù per far spogliare la mia volontà da ogni atto volitivo, seguivano le contraddizioni, da cui dovevo io prendere esempio pratico nella sua imitazione: se al mattino, infatti, mi svegliavo e subito non mi levavo da letto, la sua voce interna mi diceva: “Tu comodamente riposi, ed io non ebbi altro letto che la croce; presto, presto, sollevati, non prenderti tanta soddisfazione”. Se camminavo, e la mia vista si spingeva un po’ lontano, mi riprendeva subito, dicendomi: “Non voglio che la tua vista si porti lontano da te non più della lunghezza di un passo, e solo per non inciampare”. Se mi trovavo in campagna circondata da fiori di ogni specie, da piante ed alberi, ecc., mi diceva: “Tutto ho creato io per amor tuo, e tu per amor mio privati di questo diletto”.
Se in chiesa mi vedeva girare lo sguardo per fissarlo sugli arredi sacri, i paramenti ed altre cose innocenti e sante, subito mi riprendeva, dicendomi ‘che altro diletto dovevo prendere se non in lui solo?’. Se stavo comodamente seduta mentre lavoravo, dicevami: “te ne stai troppo comoda; non pensi che la mia vita fu un continuo penare?”. Ed io subito, per contentarlo, mi sedevo sulla metà della sedia… Lavorando con lentezza e svogliatezza: “Presto - mi diceva - aiutati, guadagna il tempo per stare meco in orazione”.
Talvolta mi assegnava anche il lavoro che dovevo fare in una data ora, ed io mi affaticavo per contentarlo, e se non ci riuscivo lo pregavo che venisse ad aiutarmi; ed egli tante volte accondiscendeva, facendo meco quel lavoro per avermi seco libera, non per trastullarci, ma quasi sempre per più pregare. Succedeva, quindi, che Gesù in poco tempo, o da sola o insieme con lui, mi faceva terminare quel lavoro a cui dovevo occuparmi tutto il giorno, e mi tirava all’orazione in cui mi teneva tutta assorta nella contemplazione di tanti lumi e grazie che si partono da Dio alle creature; ed io mi sentivo più invogliata di prima a farlo, ed avrei voluto, chissà per quanto tempo, continuare a stare in orazione, giacché né provavo stanchezza, né mai tedio, e tanta sazietà sentivo in me, che ero contenta di non prendere altro cibo se non quello che veniva dall’orazione; ma Gesù mi contraddiceva, e subito, all’ora del pranzo, dicevami: “Presto, presto, non farti attendere; voglio che mangi per amor mio, e mentre prendi il cibo che si unisce al corpo, mi pregherai di unire il mio amore al tuo, cosicché il mio spirito venga ad unirsi all’anima tua e ogni cosa tua resterà santificata dall’amor mio”. Se talvolta, mangiando, sentivo gusto di qualche cosa e continuavo a mangiare, tosto Gesù mi riprendeva, dicendomi: “Ti sei forse dimenticata che io non ebbi altro gusto se non che di mortificarmi sempre per tuo amore? Lascia dunque di mangiare questo, e prendi invece quell’altra cosa a cui non senti gusto”.
In una parola, Gesù ha cercato di far morire la mia volontà anche nelle cose più minute, per farla vivere solo e sempre in lui. Ecco perché il Signore permetteva che anche in questo amore tutto santo e totalmente per lui mi venissero le più grandi contraddizioni; tanto è vero che, quanto più vivo si faceva in me il desiderio di avvicinarmi alla mensa eucaristica, tanto che il giorno precedente e tutta la notte non facevo altro che prepararmi, per meglio dispormi a riceverlo, non chiudendo gli occhi al sonno per i continui atti di amore a Gesù, dicevogli spesso spesso: “Signore, fa presto, che non posso starmi senza riceverti; accelera le ore, sorga subito il sole, che mi viene meno il cuore per il grande desiderio della santa comunione”.
E Gesù mi diceva: “Vedi, io sto solo e soffro senza di te; tu però non darti pena che non puoi dormire, si tratta di un sacrificio, facendo da lontano compagnia al tuo Dio, al tuo sposo, al tuo tutto, che è in veglia per amor tuo; vieni a sentire tutte le offese che continuamente gli si fanno dalle creature… Deh, non negarmi questo sollievo con la tua amorosa compagnia, affinché i palpiti del tuo amore, unendosi ai miei, vengano a sce­mare, in parte, l’amarezza che mi procurano le tante offese che ricevo di giorno e di notte, ed io non ti lascerò sola nelle tue sofferenze ed afflizioni, ma ti ricambierò della mia compagnia”.
Ebbene, la mattina seguente, non appena si faceva giorno, con questo grande desiderio di ricevere Gesù in sacramento, andavo in chiesa, e recandomi dal confessore, questi, senza che gli facessi parola, più di una vol­ta mi diceva: “Questa mattina voglio che ti privi della santa comunione”; il che mi riusciva tanto amaro che al­le volte, mentre mi struggevo in lacrime, non ardivo di palesare nemmeno al confessore l’amarezza che provava l’anima mia, giacché lo stesso Gesù voleva che mi comportassi in tal modo, altrimenti mi rimproverava, e voleva però che avessi piena confidenza in lui, mio sommo bene, per cui gli aprivo spesso il mio cuore e gli dicevo: “Ahi, mio dolce amore, è questo il frutto della veglia che abbiamo fatta entrambi questa notte? Chi avrebbe potuto mai immaginare che dopo tanto aspettare e tanto desiderarti avrei dovuto restare priva di te? Conosco bene che in tutto e sempre devo ubbidire, ma dimmi, o mio buon Gesù, posso io stare senza di te? Chi mi darà la forza a starmene priva? E potrò avere io mai il coraggio di partirmene di chiesa, senza che ti porti meco in casa, mio sommo bene? Io non so che altro fare, ma tu, o mio Gesù, se vuoi, puoi a tutto rimediare”. Ma mentre così parlavo mi sentivo un fuoco insolito vicino a me, poscia una fiamma d’amore mi si accendeva in me, ed una voce interna che così mi parlava: “Cheta­ti, chetati… Ecco che sono già nel tuo cuore; di che temi adesso? Non più affliggerti; voglio io stesso asciugarti le lacrime… Poverina, tu hai ragione, che non potevi stare senza di me, non è vero?”.
A questo operato di Gesù ed a questo suo parlare, io ne restavo sorpresa, e tanto annientata in me stessa, che rivolta al mio Gesù gli dicevo: “Se io fossi stata buona, e non così cattiva, non avresti data l’ispirazione al confessore di contraddirmi così”. E lo pregavo, quindi, a non permettere più simili contraddizioni, perché senza di lui non avrei potuto affatto resistere, e avrei fatto chissà quanti spropositi.
Un giorno, finalmente, dopo la comunione, me lo sentii dentro di me tutto amore e mostrandomi tanto affetto che io ne fui meravigliata, per cui gli dissi: “Don­de, Gesù mio, tanta bontà verso di me, così cattiva ed incorrispondente al tuo amore? Fossi almeno buona… Ti corrispondessi almeno… Io temo che per la mia incorrispondenza tu mi abbia da lasciare; ed invece ti veggo, ora, tutto bontà, e più d’ogni altro tempo stringerti meco più intimamente”. E Gesù sempre più affabile: “Diletta mia, le cose passate non hanno fatto altro in te che un piccolo preparativo; adesso voglio venire al­l’opera. Voglio disporre così il tuo cuore, che tu venga ad internarti nel mare immenso dell’acerbissima mia passione, affinché tu, quando avrai ben compreso l’acer­bità delle mie pene, l’amore che mi divorava nel desiderio di soffrirle tutte per te, e poi, chi sono io, che per te le ho sofferte, e chi sei tu, vilissima creatura, allora non ti opporrai ai colpi e ai dolori della tua passione che soffrirai per amor mio, e con animo acceso di amore accetterai la croce che io, per te, da un pezzo tengo preparata. Anzi, al solo considerare che io, tuo maestro, tanto ho sofferto per te, ombre ti parranno le tue pene, dolce ti sarà il patire, e giungerai a non poter stare senza patimenti”.
A questo parlare di Gesù mi sentivo più che mai ansiosa di patire, ma nondimeno la natura fremeva allora, al solo pensare ai patimenti a cui dovevo sottopormi, e quindi pregavo Gesù che mi avesse dato dinanzi al patire tanta forza e coraggio da farmi sentire amore allo stesso patire a cui egli mi chiamava, affinché non mi servissi dello stesso, avuto come dono, per offendere lui come donatore.
E Gesù, tutto bontà e dolcezza: “Ciò, mia cara, va da sé, perché se non si sentisse, in qualsiasi cosa che s’intraprende, un certo che di trasporto e di amore, non la si potrebbe certo ben eseguire; e chi la intraprende di malavoglia, anche a portarla a termine, non riceverà da me il guiderdone. Sappi che tu, per innamorarti della mia passione, prima di ogni altra cosa, dovrai considerare con pacatezza e riflessione tutto quanto che ho patito per te, affinché tu possa farti il giudizio conforme al mio, del vero amore, che nulla eccettua pel bene della persona amata”.
Così incoraggiata da Gesù, mi diedi a meditare la sua passione, che fece tanto bene all’anima mia, che posso ben asserire, senza tema di errare, che tutto il bene mi è venuto da questa fonte di grazia e di amore. D’allora in poi, la passione di Gesù si fece strada non solo nel mio cuore e nel mio spirito, che sentiva al vivo la compassione, ma ancora, mercé questa considerazione, tutto il mio corpo veniva preso da tale orgasmo da provare i dolorosi effetti della stessa passione… Mi vedevo immersa in essa come in un mare immenso di luce, che coi suoi infocati raggi tutta mi compenetrava nel­l’amore di Gesù, che tanto aveva patito per me; sentivo poscia che quegli infiniti raggi mi facevano comprendere chiaramente la pazienza, l’umiltà, l’obbedienza e la carità di Gesù, in ciò che ebbe a sopportare per amor mio, che io ne restavo del tutto annichilita, conoscendomi tanto dissimile da lui. Quei raggi che m’inonda­vano erano, per me, tanti rimproveri, che tacitamente mi dicevano: “Un Dio tanto paziente; e tu…? Un Dio sì umile e sottomesso anche agli stessi suoi nemici; e tu? Un Dio tutto carità, per te soffre tanto; e le tue sofferenze per amor suo, dove sono?”.
Altre volte, poi, Gesù stesso mi faceva la narrazione delle acerbe sue pene e dolori, da lui sofferti per amor mio, ed io ne restavo tanto commossa da piangere amaramente… Ed un giorno, più che mai, mentre lavorando consideravo le acerbissime pene di Gesù, sentii il mio cuore talmente oppresso da sentirmi mancare il respiro, e temendo che stesse per accadermi qualche male volli distrarmi con l’uscire fuori al balcone. Ma cosa veggo io mai? In mezzo alla strada, una folla immensa di gente che passava di sotto al balcone, conducente il mio mansuetissimo Gesù, con la croce sulle spalle, che veniva tirato or da una parte ed or dall’altra. Lo scorgevo affannoso, col volto grondante sangue, ed in un atteggiamen­to sì pietoso da intenerire le stesse pietre, allorché alzò gli occhi verso di me, in atto di chiedermi soccorso. Chi può dire, ora, il dolore che provai in me? Chi, l’impres­sione prodottami da scena sì straziante…? Entrai subito nella mia stanza, non sapendo io stessa ove mi trovassi; il cuore me lo sentivo spezzare dal dolore e, piangendo dirottamente, fra me dicevo: “Quanto soffri, o mio buon Gesù! Potessi almeno aiutarti e liberarti da quei lupi così arrabbiati, o almeno soffrire io quelle tue pene, quei tuoi dolori e strapazzi in vece tua, per dare a te il più grande sollievo…! Deh, mio bene, dammi il patire, perché non è giusto che tu debba soffrire tanto per amor mio, ed io, peccatrice, starmi senza soffrire nulla per te”.
E Gesù, d’allora, mi accese tanto di amore per il dolce patire, che mi riusciva più doloroso il non patire; e questa brama si fece sì viva in me, che non si è smorzata mai più in me, tanto che nella comunione non chiedo altro, ardentemente, che mi renda simile a lui per mezzo del dolce patire. Ed egli pare che talvolta mi abbia soddisfatta, togliendosi ora una spina della sua corona e conficcandola nel mio cuore, ora conficcando qualche altra alla mia testa, e talvolta i suoi chiodi alle mani ed ai piedi, facendomi soffrire acerbissimi dolori, ma mai pari a quelli sofferti da lui…
Altre volte mi è parso che Gesù avesse preso il mio cuore fra le sue mani, e che lo stringesse tanto forte che, per il dolore, mi sentivo perdere i sensi; e per tema che le persone che mi circondavano potessero accorgersi di ciò che avveniva in me, lo pregavo dicendogli: “Mio Gesù, di grazia, fa in modo che io soffra, ma che tutto sia nascosto”. Mi contentò sino ad un certo tempo, ma poi, a causa dei miei peccati, qualche cosa avvertirono esse.
Talvolta, dopo la comunione, Gesù mi diceva: “Non potrai veramente somigliarti a me, mercé i patimenti che soffri in mia presenza, giacché io mi muovo ad aiutarti; ora voglio lasciarti un po’ sola, però sii più attenta di prima, giacché non ti darò più la mano per sorreggerti, e non sarò a correggerti in tutto. Se per il passato non hai fatto altro che seguirmi nell’imitazione, ora farai e soffrirai tutto di buon animo, pensando solo che ti starò cogli occhi fissi sopra di te, però senza farmi da te né vedere né sentire; e quando tornerò a farmiti vedere, verrò per premiarti se sarai stata fedele nel seguirmi, oppure per castigarti se mi sarai stata infedele”.
A tale intimazione restai tanto spaventata ed atterrita, che gli dissi: “Signore, tu che sei il mio tutto e la mia vita, dimmi, come potrò vivere senza di te, mio bene? Chi mi darà la forza per ben comportarmi? Tu solo sei stato, tu solo sei e tu solo sarai la mia forza ed il mio sostegno. Può essere mai che tu, dopo che mi hai fatto lasciare il mondo esterno e tutto ciò che mi circondava, in modo che mi sento come se nessuno più esistesse per me, vuoi ora lasciarmi in balìa di me stessa e priva della tua presenza? Hai forse dimenticato che io sono sì cattiva, e che senza di te nulla posso fare di bene?”.
E Gesù, con aspetto dolce e sereno: “È appunto per questo che ciò faccio, per farti ben capire chi sei tu senza di me. Non ti rattristare, che lo faccio per il tuo maggior bene, volendo così preparare il tuo cuore a ricevere nuove grazie che mi riserbo versare su di te. Sinora ti ho assistita visibilmente; adesso invisibilmente, per farti toccare con mano il tuo nulla; ti sprofonderò nella più profonda umiltà e ti fonderò nella mia grazia, la più elet­ta, per edificare sopra di te le altissime mura di ciò che intendo fare di te. Perciò, invece di affliggerti, dovresti prendere motivo di rallegrarti meco e ringraziarmi, ché quanto più presto ti farò oltrepassare questo mare tempestoso, tanto più presto giungerai al porto di salvezza; e quanto più dure saranno le prove a cui ti assoggetterò, tante più grazie ti largirò. Coraggio, dunque, che verrò presto a consolarti nelle pene”.
Sì dicendo, si sottrasse dalla mia vista, benedicendomi. Chi può dire la pena che sentii, il vuoto che mi lasciò nel cuore, le amarezze che m’inondarono l’anima, e le lacrime che versarono i miei occhi, nel vedere che Gesù, benedicendomi, si allontanava da me? Mi rassegnai però alla sua Santissima Volontà e, dopo aver baciato da lontano le mille volte quella mano che mi aveva benedetta, dando freno alle lacrime, presi a dire: “Ad­dio, sposo santo, addio… Ricordati della promessa fattami, di farti cioè presto vedere; assistimi sempre ed ognora difendimi e fammi tutta tua”.
Sì dicendo, mi vidi allora tutta sola, come se per me tutto fosse finito, giacché lui solo tenevo, e mancandomi lui non mi restava altra consolazione; e perciò, tutto ciò che mi circondava si convertì in pene amarissime, poiché le stesse creature mi stuzzicavano in modo tale che mi pareva ascoltarle nel loro muto linguaggio, come se mi dicessero: “Vedi, noi siamo opera del tuo amante e amato bene; ed egli ora, dov’è?”.
Se guardavo l’acqua, il fuoco, i fiori, le stesse pietre della mia stanza, e che so io, pareva che tutti mi dicessero: “Ah, vedi, tutte queste cose sono opera del tuo sposo, e sebbene hai il bene di vedere queste sue opere, non hai il bene di vedere il loro Creatore”. Ed io: “Deh, opere del mio Signore, ditemi voi, che n’è di lui? ditemi dov’egli trovasi. A me disse che sarebbe presto tornato, ma chi di voi saprebbe dirmi quando dovrà tornare, quando lo rivedrò?”. In tale stato, eterni sembravami i giorni, sempiterne le notti in veglia, le ore e i minuti co­me secoli ed anni che nient’altro arrecavano che amare desolazione, da farmi sentire venir meno il palpito del cuore ed il respiro, ed alle volte mi si gelava tutta la persona ed ero presa da un certo fremito di morte che tutta m’invadeva, per cui le persone di famiglia vennero ad avvertirsi del mio male.
Ma tutto ciò che allora soffrivo venne attribuito a male fisico, e quindi la famiglia insisteva che mi dovessi curare; e tanto mi si disse e si fece, che dovetti sottopormi alla visita medica, che non mi fece alcun pro. Io intanto continuavo a rammentarmi di quanto aveva detto ed operato in me il buon Gesù; mi ricordavo per filo e per segno tutte le sue grazie, tutte le sue dolci ed affabili parole, una per una tutte le paterne sue esortazioni e correzioni, e i singoli suoi rimproveri per richiamarmi al dovere del suo amore.
Sarei una falsaria se non asserissi che tutto ciò che si è operato fin qui non sia stato operato se non nella piena grazia, elargitami in gran copia dal Signore, che del mio non v’è che il puro niente e l’inclinazione al male; sicché dico francamente d’aver toccato con mano che, senza le tante grazie e lumi, non avrei potuto far altro che male. Ed in vero, chi mi sottrasse dalle frivolezze del mondo se non il mio amabile Gesù? Chi mi fece sentire quel forte incitamento a fare la novena di Natale, con nove meditazioni quotidiane sul mistero dell’in­carnazione di Gesù, per cui ebbi tanti lumi superni e grazie celesti? Di chi quella voce che internamente cominciò a parlarmi nell’intimo del cuore, lungo la detta novena, e che poi ha continuato sino ad oggi, non dandomi tregua né pace se non avessi fatto prontamente ciò che mi chiedeva? E quel modo usato nel farmi innamorare di lui, facendosi da me vedere in forma di graziosissimo bambino? E quel farmi da maestro, con l’inse­gnarmi, correggermi, rimproverarmi, per indurmi a spogliare il cuore da quelle affezioncelle, infondendomi il vero spirito di mortificazione, di carità e di orazione, per cui mi feci strada nell’internarmi nel mare immenso della passione di Gesù, e da cui attinsi quella dolcezza nel patire, e quella vera amarezza nel non soffrire; non è stata tutta grazia sua, suo dono, anzi, opera vera di Gesù? Ed ora che vuole scherzare meco, col sottrarsi dalla mia vista, tocco con mano che senza di lui non sento più quell’amore sì sensibile che sentivo prima per Gesù, non più quei lumi così chiari nelle meditazioni, da farmi stare due o tre ore assorta nella dolce considerazione… Ora, sebbene faccio quanto più posso per continuare a fare quello che facevo con lui, giacché mi sento ancora ripetere quelle sue parole: ‘Se mi sarai fedele verrò a premiarti; se ingrata, verrò per castigarti’, pur nonpertanto non ci riesco, come quando mi stava visibilmente o sensibilmente da vicino. In questo stato di privazione del mio Gesù passavo la santa giornata quasi sempre in amarezza, in silenzio ed in aspettazione di lui, che ancor non veniva come mi aveva promesso: “Verrò presto da te”.
L’unico conforto, intanto, era il riceverlo in sacramento, giacché qui certo lo trovavo e non potevo dubitare, tanto più che, alle reiterate mie suppliche, mi contentava quasi sempre col farsi sentire palpitante nel mio cuore, sebbene non così amoroso ed affabile come prima di mettermi alla prova, ma piuttosto severo e senza farmi parola. Passato, finalmente, quel periodo di tempo, facendo ogni cosa voluta da Gesù alla men peggio, me lo sentii tornare nel cuore e mi parlò in questi termini: “Dimmi, figlia del mio Volere, tutto ciò che vuoi; manifestami tutto ciò che è passato in te di dubbi, di timori, e tutte le tue difficoltà, a fine d’insegnarti il modo di comportarti in avvenire, in cui sarò assente”.
Ed io, allora, gli feci fedele narrazione, dicendogli: “Signore, vedi, senza di te niente ho potuto fare di bene: la meditazione mi è riuscita molto disgustosa, da non aver il coraggio di offrirtela; nella comunione non sentivo di trattenermi a lungo, mancandomi le attrattive del tuo amore; mi son sentita sempre vuota e sempre penosa della tua assenza, che mi ha fatto provare agonie di mor­te; la natura, di tutto voleva sbrigarsi subito per sfuggire quella pena di vedersi sola, e tanto più che il trattenermi a lungo mi sembrava perdita di tempo; ma il timore, però, che al tuo ritorno venissi da te castigata se mi fossi resa infedele, mi ha fatto continuare. Aumentava poi l’interna mia pena il considerare che tu, mio bene, di continuo vieni offeso, ed io, di quegli atti di riparazione, di quelle visite a te sacramentato, che mi facevi fare, niente ho potuto far bene senza di te, perché non trovavo Colui col quale potermela intendere… Ora che sei meco, dimmi un po’, come dovevo io fare?”.
Ed egli, benignamente ammaestrandomi, mi diceva: “Hai fatto male a startene così turbata; non sai tu che io sono spirito di pace, e che la prima cosa che ti ho raccomandato è stata di non funestarla mai nel tuo cuore? In quanto all’orazione, poi, quando non ti senti raccolta, non devi pensare ad altro, se non a startene tranquillamente in essa, ma non al motivo perché non ti sia riuscita; facendo come tu dici, vieni tu stessa a procurarti la stessa distrazione. Umiliati invece, confessandoti meritevole di quelle [sofferenze], e statti tranquilla; e come agnellino nelle mani del carnefice, che mentre viene ucciso gliele lambisce, così tu, mentre ti vedrai percossa, abbattuta e sola, dovrai rassegnarti alle mie disposizioni, ringraziarmi di tutto cuore, riconoscendoti anzi degna di quelle pene, e mi offrirai tutte le tue amarezze, tedi ed angustie, come sacrifizio di lode, di soddisfazione, ed in riparazione delle offese che mi vengono fatte. Facendo così, la tua orazione [salirà] come incenso odorosissimo sino al mio trono, ferirà il mio cuore ed attirerai su di te novelle grazie e nuovi carismi. Il demonio, poi, vedendoti così umile, rassegnata e tutta inabissata nel tuo nulla, non avrà più forza di avvicinarsi a te e si morderà le labbra per sdegno. Ecco come condurti in tale stato, per acquistare meriti ove credevi di demeritare.
In quanto alla comunione poi, non voglio che ti affligga quando non ti senti di trattenerti a lungo, priva delle attrattive del mio amore. Fa quanto puoi per ben ricevermi; ringraziami dopo di avermi ricevuto; chiedimi quelle grazie ed aiuti di cui hai bisogno, e del resto non ti dar alcun pensiero, giacché quello che ti fo soffrire nella comunione non è altro che un’ombra delle pene che soffrii nel Getsemani. Se ora ti affliggi tanto, che sarà di te quando ti farò partecipe dei flagelli, delle spine e dei chiodi? Ti dico questo, perché il pensiero che metto ora in te delle pene maggiori, ha valore di farti soffrire con più coraggio queste minori… Quando nella comunione ti troverai dunque sola ed agonizzante, pensa un po’ all’agonia di morte che soffrii per te nell’orto del Getsemani, e mettiti vicino a me, per fare allora un confronto tra le tue e le mie acerbe pene. È vero che ti sentirai ancor là, sola e priva di me, ma vedrai ancor me solo ed abbandonato dai più fidi amici, che per aver omessa l’orazione li scorgerai addormentati; mi vedrai, coi lumi che ti darò, in mezzo alle più acerbe pene, circondato da aspidi e da vipere velenose, da cani idrofobi, quali sono i peccati di tutti gli uomini che furono, sono e saranno da venire al mondo, compresi anche i tuoi, che nell’as­sieme mi pesavano tanto allora, da farmi agonizzare, e mi sentivo come se stessi per essere divorato vivo; e fu per questo che, sentendo il mio cuore e tutta la mia persona come messa sotto la pressione d’un torchio, sudai vivo e copioso sangue da bagnare anche il terreno; e a tutto questo, aggiungi ancora l’abbandono del Padre mio…
Ora, dimmi tu: quando il tuo penare si è esteso a tanto? Se ti trovi dunque priva di me, vuota di ogni consolazione, ripiena di amarezze, colma di affanni e pene, portati con la mente presso di me, procura asciugarmi quel sangue, ed in sollievo della mia acerbissima agonia offrimi quelle tue ben lievi pene, e troverai così modo ed esca con cui trattenerti meco dopo la comunione. Non voglio con ciò dirti che [tu] non debba soffrire, giacché la mia privazione per se stessa è la pena più dura ed amara ch’io possa infliggere alle anime care; ma tu, intanto, pensa che col tuo penare e con la conformità alla mia Volontà mi darai gran sollievo e consolazione. Finalmente, in quanto alle visite che mi farai ed agli atti di riparazione, ho da dirti che io, nel sacramento del mio amore che ho istituito per te, continuo a fare ed a soffrire tutto ciò che feci e soffrii nel corso di trentatré anni di vita mortale. Amo nascere nel cuore di tutti i mortali, e perciò ubbidisco a chi dal cielo mi chiama ad immolarmi sull’altare; mi umilio nell’aspettare, nel chiamare, nell’ammaestrare, nell’illuminare, e chi vuole [può] ristorarsi di me sacramentato; a questi do consolazione, a quegli fortezza, e prego perciò il Padre che lo perdoni; vi sto per arricchire gli uni, per sposarmi agli altri, veglio per tutti; difendo chi vuol essere da me difeso; divinizzo chi vuol essere divinizzato; accompagno chi vuol essere accompagnato; piango per gli incauti e per gli scapestrati; mi rendo adorante in perpetuo per reintegrare l’armonia universale e per compiere il supremo disegno divino, qual è la glorificazione assoluta del Padre, nel perfetto omaggio da lui richiesto, ma che non gli viene dato da tutte le creature per cui mi sono sacramentato. Perciò voglio che tu, in ricambio di questo mio infinito amore verso il genere umano, mi faccia quotidianamente trentatré visite, onorando con esse gli anni della mia umanità, passati tra voi e per voi tutti, figli miei, rigenerati nel mio preziosissimo sangue, e che, insieme, tu unisca te a me in questo sacramento, avendo mira di far sempre le mie intenzioni di espiazione, di riparazione, d’immolazione e di adorazione perpetua.
Queste trentatré visite le farai sempre, in tutti i tempi, ogni giorno, ed in qualsiasi luogo potessi trovarti, giacché io le accetterò come se venissero fatte alla mia presenza sacramentale. Il tuo primo pensiero, al mattino, devi farlo volare a me, prigioniero d’amore, per darmi il tuo primo saluto d’amore per me, e quindi la prima confidenziale visita in cui, tu a me ed io a te, ci domanderemo scambievolmente come abbiamo passata la notte e c’incoraggeremo a vicenda; e così, l’ultimo tuo pensiero e l’ultimo tuo affetto della sera sarà che tu venga ancor da me, affinché ti dia la benedizione e affinché ti faccia riposare in me, con me e per me; e tu intanto mi scoccherai l’ultimo bacio d’amore, con la promessa d’unione con me sacramentato. Le altre visite me le farai come meglio ti si presenterà l’occasione più propizia a concentrarti tutta nel mio amore”.
Mentre Gesù così parlava, io sentivo scendere nel mio cuore un non so che di grazia, la quale lavorava in me in modo tale da farmi sentire il cuore quasi liquefatto d’amore, e la mente circonfusa da tante idee che si sperdeva in un’immensa luce di amore, per cui mi feci ardita a supplicarlo così: “Mio buon maestro, di grazia, te ne supplico, deh, statti meco e sempre più vicino, affinché sotto la tua direzione io prenda l’attitudine e l’abitudine a farle bene, giacché conosco, a prova, che tutto posso con te, ma senza di te sono incapace di fare alcunché di bene, ma solo capace di fare tutto il male”.
E Gesù, sempre benigno, mi soggiunse: “Sì, sì che ti contenterò in questo, come ti ho appagata in tante altre cose. Io voglio soltanto la tua buona volontà, ed io, qualsiasi aiuto tu voglia da me, te lo darò ben volentieri ed a profusione”.
Ah, quanto è stato buono con me il dolce Gesù, poiché mai la sua promessa è venuta meno! Anzi, ho da dire il vero, che egli ha dato ed ha fatto per me più di quanto mi aveva promesso, perciò ci son riuscita a contentarlo; e dal suo operato, lungi da me discaccio qualsiasi dubbio o perplessità di cuore, se mi dicessero non essere ciò che si opera in me se non che frutto di fantasia, giacché in quei giorni passati nella privazione del mio Gesù non potevo concepire nemmeno un buon pensiero, né dire una parola informata allo spirito di carità, né sentivo per alcuno nessuna attrattiva di bene.
Nel corso del tempo in cui Gesù sempre più si è appressato a me, mi ha parlato e mi si è fatto vedere, ho ben compreso ancora che Gesù, quando se ne viene con modi insoliti, non ha altro di mira che di disporre l’ani­ma mia a nuove e pesanti croci; ed infatti, prima l’attira a sé con gli stratagemmi della sua grazia, per cui l’ani­ma si sente vincolata di amore, e poscia le presenta l’ob­biettivo delle sue attrattive, affinché non ardisca menomamente opporvisi. Ed in vero, un giorno, dopo la comunione, mi sentii più intimamente unire a lui coi dorati lacci dell’amore, e mi fece una tempesta di amorose domande, e fra le altre: “Mi vuoi tu veramente bene? Sei tu disposta e pronta a fare ciò che io voglio da te? Se volessi da te, ancora, il sacrifizio della vita, saresti disposta, per amor mio, ad accettarlo di buon animo? Sappi che, se sei pronta a fare tutto ciò che io voglio, farò io a te e per te ciò che tu vuoi da me”.
Ed io: “Sì che ti voglio bene, mio amore e mio tutto; può darsi, forse, oggetto più bello, più santo, più amabile di te, mio bene? E poi, perché domandarmi se sia o no pronta a fare ciò che tu vuoi, mentre è da gran tempo che ti ho consegnata la mia volontà, ti ho pregato a non risparmiarmi punto, anche se tu volessi farmi a pezzi, e son disposta, purché potessi darti sempre gusto? Io mi sono abbandonata in te, sposo santo; opera quindi in me e su di me liberamente come meglio ti aggradi, fa di me quello che tu vuoi, ma dammi sempre novella grazia, che da me sola nulla posso”.
Ed egli: “Ma veramente sei tu pronta a tutto ciò che io voglio da te?”.
A questa iterata sua domanda, io mi sentivo schiacciare, mi vedevo confusa ed annientata; ma fidente in lui, con coraggio gli dissi: “Mio sempre amabile Gesù, nella mia nullità io sono quasi vacillante e tremebonda, ma diffidando di me confido animosamente in te, da cui mi sento venire quella prontezza di animo che mi farà affrontare e sormontare qualsiasi ostacolo e cimento”.
E Gesù a me: “Ebbene, voglio purificare l’anima tua da ogni minimo neo che potesse impedire l’amor mio in te; voglio provare la tua fedeltà verso di me, affinché possa averti come tutta mia; voglio constatare che tutto ciò che mi hai detto sia vero… Perciò voglio metterti alla prova di un’asprissima battaglia; ma tu in questo nulla hai da temere, ché io sarò tuo braccio e tua forza, e nulla di sinistro soffrirai, giacché io combatterò assieme con te e per te. La battaglia dunque è pronta; i nemici sono in tenebroso nascondiglio, ad escogitare il più aspro agguerrimento, ed io darò loro libertà di assalirti, di tormentarti e tentarti in ogni modo, affinché quando tu ti sarai liberata, mercé le armi delle tue virtù, che vibrerai contro i vizi opposti da loro, essi resteranno scornati per sempre, e tu ti troverai in possesso di maggiori virtù, e l’anima tua ritornerà come un re, il quale, dopo aver vinta la battaglia, glorioso fa ritorno al suo regno, fregiato di corone, medaglie e meriti, menando seco immense ricchezze. Così l’anima tua, abbellita ed arricchita di nuovi meriti, avrà da me non solo nuovi doni, ma io stesso a lei mi donerò. Coraggio dunque, che io, dopo la riportata vittoria della pugna sostenuta contro i demoni, immediatamente dopo formerò in te la mia stabile e perenne dimora, e così saremo sempre uniti. È vero che io ti metto in una prova molto dolorosa ed in un’accanita e sanguinosa lotta, giacché i demoni non ti daranno riposo né tregua, né di giorno, né di notte; ma tu intanto abbi sempre di mira quanto io ti propongo. Nel mio nome darai principio alla pugna; durante l’agone questo nome sarà da te continuamente invocato, ché ti servirà da baluardo di sicurezza; e questo[9] metterai come suggello al compimento della tua più dolorosa prova, incominciata, sostenuta e terminata vittoriosamente nel mio Volere, che vuol renderti onninamente simile a me; per cui non c’è altra via, né altro mezzo per giungervi, se non per mezzo d’indicibili ed immense tribolazioni, le quali poi ti verranno ben ricompensate”.
Chi può dire, ora, come restai costernata e impaurita nel sentire dal buon Gesù presagirmi l’accanita guerra che dovevo sostenere contro i demoni? Mi sentii gelare il sangue nelle vene, rizzare uno per uno tutti i capelli; la mia immaginazione si riempì tutta di neri spettri, che mi figuravo in atto di volermi divorare viva; già sembravami che d’ogni intorno fossi circondata di spiriti infernali. In questo stato sì doloroso ed angosciante, mi rivolsi al mio Gesù, dicendogli: “Signor mio, abbi tu pietà di me! Deh, non lasciarmi sola e così abbattuta di animo; non vedi che i demoni mi si appressano con tanta rabbia, che di me certo non lasceranno neppure la polvere? Come potrò loro resistere, se tu ti allontani da me? A te è ben nota la mia freddezza ed incostanza nel bene; sono tanto cattiva da non saper fare altro che male senza di te, mio bene; dammi almeno novella grazia, e sì copiosa, da non poterti più offendere. Non sai tu qual è la pena che più strazia l’anima mia? Ah, è il solo pensiero che tu possa lasciarmi sola nel diabolico cimento, per cui mi sento sbigottire e venir meno per la paura… Chi mi darà, in tal caso, animo per avventurarmi nel presagito combattimento? A chi rivolgerò la mia supplica, mercé la quale possa ottenere l’insegnamento pratico, per debellare il nemico? Fin da ora però benedico il tuo Santo Volere, e con le parole della tua e mia Santissima Madre, rivolte da lei all’arcangelo Gabriele, ti dico con tutto lo slancio del mio cuore: ‘Ecco la tua serva, si faccia di me secondo la tua parola, che è di vita eterna’ ”. A tali mie parole, Gesù riprese a dirmi:
“Non affliggerti tanto; sappi che giammai permetterò loro[10] che ti tentino sopra le tue forze; e sappi ancora che giammai io metto le anime in battaglia con loro, per fare che periscano; infatti, io prima misuro le loro[11] forze, dono la mia grazia efficace, e poi le introduco nel­l’aspra pugna, e se qualche anima talvolta precipita, non avviene mai per mancanza della mia grazia, ma perché non ha voluto tenersi unita con me, mercé la continua preghiera; omessa questa, è andata costei mendicando dalla creatura quella sensibilità smarrita del mio amore, senza considerare che soltanto io posso riempire e saziare il cuore umano; oppure, fondandosi costei nel proprio giudizio, si è di molto discostata dalla via sicura dell’ob­bedienza, credendo superbamente che il suo fosse più esatto e più equilibrato del giudizio di chi è guida di anime in vece mia… Quale meraviglia, che anime di sì dura tempra vi precipitino?
Ti raccomando, dunque, prima di ogni altra cosa, la costante preghiera, ancorché avessi a soffrire pene di morte, non tralasciando quelle preghiere che sei solita di fare; anzi, quanto più prossima ti vedrai al precipizio, tanto più nella preghiera fidente m’invocherai, nella pie­na certezza di essere da me aiutata. Di più voglio che da ora innanzi apra il tuo cuore al confessore, palesandogli tutto ciò che si svolgerà in te, nelle mani del quale ciecamente metterai la soluzione problematica del tuo avvenire, senza disanimo; e di quanto ti sarà detto, nulla tralascerai di mettere in esecuzione, rammentandoti allora ciò che ti dico ora: che sarai circondata da fitte tenebre, e tu ti troverai come chi non ha occhi, per cui ha bisogno d’una mano amica che lo guidi. Per te, l’occhio sarà la voce del confessore, che come luce e vento dissiperà le tenebre; la mano sarà l’obbedienza, che ti farà da guida e da sostegno per farti giungere a porto sicuro. Per ultimo ti raccomando il coraggio; voglio che entri con intrepidezza in battaglia, poiché la cosa che più fa temere un esercito nemico è notare il coraggio e la forza con cui gli avversari si avventurano alla pugna, affrontando essi, senza punto temerli, i più sinistri attacchi. Così i demoni, nulla più temono che un’anima agguerrita del suo coraggio, che si basi su di me, ed a me poggiata entri in mezzo a loro, rendendosi invitta sterminatrice di chi si para dinanzi, in modo che, atterriti e spaventati, vorrebbero darsi a precipitosa fuga, ma non possono, perché legati dalla mia Volontà, sono costretti a subire il più grande tormento e la loro maggior disdegnosa resa. Coraggio dunque, coraggio, che se mi sarai fedele, ti somministrerò sempre più copiosa la mia grazia e novella forza, affin di riuscire vittoriosa su di loro”.
Chi può dire, ora, il cambiamento che successe allora nel mio interno? Quale orrore, ahimè, s’impossessò di me! Quell’amore verso il mio amabile Gesù, che poco anzi sentivo vivamente in me, si convertì in odio atroce, il quale mi cagionava una pena indicibile, che l’anima si sentiva straziare al pensare che quel Signore, che era stato meco tanto benevolo, ora veniva da me come aborrito e bestemmiato, come se fosse divenuto il più crudele nemico; e poi, quel non poterlo più guardare nelle sue immagini perché sentivo impeto d’odio, il non poter avere in mano corone del santo rosario, né baciarle, perché ero portata a ridurle in frantumi, richiedeva tale resistenza che la natura tremava da capo a piè. Oh Dio, che pena amarissima! Io credo che se nell’inferno non ci fossero più pene, la sola pena di non potere più amare Dio sarebbe quella che formerebbe l’inferno, come fu, è e sarà orribile. Il demonio, talvolta, mi metteva innanzi tutte le grazie che il Signore mi aveva elargito, come se fosse stato un dilettevole lavorio della mia fantasia, e mi spingeva quindi a darmi alla vita libera e più comoda; altre volte, poi, me le manifestava come vere, e mi rimproverava col dirmi: “Vedi il gran bene che Gesù ti voleva? Ed ora mira la ricompensa che ti ha data in cambio della tua corrispondenza alle sue grazie, lasciandoti, co­me vedi, nelle nostre mani: sei nostra, ora, sei tutta nostra; per te tutto è finito, essendo divenuta come un trastullo infantile; non c’è più da sperare ch’egli possa riamarti...”.
A queste infernali parole di satana, io mi sentivo come sopraffare da un inesprimibile sdegno contro del Signore e da una estrema disperazione di salvezza, tanto che, avendo talvolta fra le mani immagini, fui spinta dalla forza dello sdegno e della disperazione a romperle a pezzi; se non che, nell’atto stesso che ciò facevo, pian­gevo a calde lacrime, e nel contempo baciavo e ribaciavo i pezzi di detta immagine. Se mi si domandasse come ciò avveniva, non saprei rispondere altro, che mi sentivo costretta a fare l’una e l’altra cosa; mi convinco però, ora, che l’atto di romperla mi veniva dal demonio con impeto irrefrenabile, mentre l’atto di baciarla me lo sentivo come effetto della grazia che operava in me. Ripensando perciò, subito dopo, a ciò che avveniva in me, sentivo l’anima straziata dal dolore; ed i demoni scorgendo ciò che facevo, credendosi corrisposti, facevano festa, se la ridevano e, facendo un chiasso indiavolato di assordanti grida e rumori, mi dicevano: “Vedi come ti sei resa nostra? Non ci resta a fare altro che portarti al­l’inferno anima e corpo, e quanto prima vedrai che ciò faremo!”.
I poverini però non [vedevano] il mio interno, che era sempre unito al mio Gesù, al quale volevo un mar di bene, e perciò baciavo e ribaciavo quei pezzi d’imma­gine, piangendo. Essi, che sono affatto alieni dalla preghiera, ogniqualvolta mi vedevano prostrata per terra, per pregare, si arrabbiavano tanto, che ora mi tiravano la veste ed ora la sedia a cui ero appoggiata, e m’incute­vano tale timore da farmi smettere talvolta la preghiera, credendo potermi così liberare da loro. E tutto ciò succedeva specie di notte, e quindi me ne andavo a letto; e per conciliare il sonno, mentalmente pregavo, e questi, accorgendosene forse, mi molestavano col tirarmi di dosso coperte e lenzuola e cuscino, e non potendo i miei occhi chiudersi al sonno, restavo allora in veglia, come colui che sa di avere presso di sé un crudele nemico che abbia giurato di togliergli a qualunque costo la vita, e che attende l’ora propizia per vibrargli il colpo fatale di morte. Mi sentivo quindi costretta a tenere gli occhi sempre spalancati, affine di potermi accorgere quando sarebbero venuti per portarmi all’inferno, e quindi avrei opposto al loro infernale disegno la più fiera resistenza… In questo stato di animo, i miei capelli si sollevavano, come spine, sulla mia testa; tutta la mia persona era presa da un sudor freddo che, agghiacciando il sangue nelle vene, me lo sentivo penetrare sin nelle midolla delle ossa, ed i nervi attratti mi facevano prendere certi moti convulsivi, per la paura.
Altre volte, poi, mi sentivo incitata a tali tentazioni di suicidio che, trovandomi presso qualche pozzo, mi sentivo spinta a gettarmi giù; oppure, vedendo un coltello od altra cosa micidiale, sentivo di volermi con esso ammazzare, per dare fine a tale stato di vita; se non che, conscia, io, dell’arte diabolica, fuggivo, schivando così il pericolo in cui mi vedevo, ma mi toccava però sentire queste diaboliche voci: “È inutile il tuo vivere, dopo aver commessi tanti peccati! Il tuo Dio ti ha abbandonata, giacché gli sei stata infedele!”; e mentre ciò dicevano, mi facevano credere come se realmente avessi commesso tante scelleratezze, che mai anima al mondo [ne] avesse fatte tante, e che perciò non ci sarebbe da sperare più misericordia… Anche nel fondo dell’anima sentivo ripetermi: “Come puoi tu vivere, sì nemica di Dio? Conosci tu quel Dio che hai tanto oltraggiato, bestemmiato ed odiato? Hai ardito offendere quel Dio immenso che dappertutto ti circonda? E non pensi che hai ardito offenderlo sotto gli stessi suoi occhi? Ed ora che hai perduto quel Dio dell’anima tua, chi ti darà più pace, chi da noi, tuoi e suoi nemici, ti libererà…?”.
Nell’udir ciò provavo in me tanta pena che mi sentivo morire e, sciogliendomi tutta in lacrime, mi sforzavo a pregare come meglio potevo, ma i demoni, per accrescere il mio terrore, mi molestavano con inusitate vessazioni, percuotendomi in ogni parte del corpo, pungendomi le membra con non so quali armi pungenti, e mi soffocavano ancora la gola in modo tale da farmi credere già prossima la morte… Una delle volte, mentre mi prostrai a pregare il buon Gesù che mi usasse misericordia e che mi sostenesse con novella forza, per resistere a sì diabolico cimento, mi sentii tirare da sottoterra i piedi, e poi vidi questa aprirmisi dinanzi, e da questa uscire rosseggianti fiamme, che tutta m’investirono, ma nel ritirarsi da me fecero violenza per sprofondarmi in essa; ma all’invocazione di Gesù mi lasciarono incolume e libera.
Dopo aver subìto quanto ho narrato, ed altro ancor di più, tanto che mi credevo quasi morta, venne il mio sempre pietosissimo Gesù a farmi riavere e a darmi novello vigor di vita, e poscia mi rincorò, facendomi ben capire che in tutto quel [che era] successo non v’era stata alcuna offesa, giacché la mia volontà aveva avuto tanta ripugnanza al male, da farmi provare pena amarissima al solo pensiero dell’ombra del peccato; mi esortò quindi a non dare mai retta al demonio, essendo spirito malvagio e perciò bugiardo, e dopo avermi detto: “Abbi pazienza ancora a soffrire altre molestie, che poi ti sarà data completa pace”, mi scomparve, lasciandomi sola, ma tutta ricreata di novello spirito.
Questo avvicinamento di Gesù, con le sue consolanti ed incoraggianti parole, succedeva di tanto in tanto, e specie quando mi vedeva pressoché in fin di vita, oppure quando mi doveva esporre a più aspri e novelli tormenti diabolici, allora più che mai si faceva vedere tutto festante e raggiante sprazzi di luce superna, che è impossibile a chi viene investito da quella non avere tutta la capacità di apprendere la verità.
Dopo di che mi trovai di nuovo esposta al cimento di novella lotta, e piena di dubbi, per cui cadevo in uno stato, il più triste ed angoscioso. Che dire, poi, del demonio, avverso alla comunione? Basta dire che usava ogni arte per non farmela fare, ora provando a convincermi che dopo tanti peccati di odio verso Dio era in me una sfacciata baldanza appressarmi a ricevere il Dio sacramentato, e che, se avessi ardito comunicarmi, non Gesù sarebbe venuto in me, ma il più nefando demonio, che dopo fieri tormenti mi avrebbe cagionato la morte eterna. È vero però, ancora, che dopo la comunione soffrivo pene indicibili e mortali, sicché a stento potevo riavermi, giacché mi riducevo in uno stato d’immobilità, ma subito mi riavevo, tosto che invocavo il nome di Gesù, oppure richiamandomi all’ubbidienza avuta di non giacere in tale stato; quindi trionfava in me sia l’ubbi­dienza che l’invocazione di Gesù, facendomi provare sollievo e gran refrigerio in mezzo a sì acerbe pene. Ciò nonostante, pure pregavo il confessore che mi facesse astenermi dalla comunione, per non provare quelle angosce di morte, ma questi s’imponeva e mi comandava, in precetto di santa obbedienza, che assolutamente dovevo farla; ma per parecchie volte me ne astenni, prevedendo la guerra che mi avrebbero fatta i demoni, e talvolta la facevo senza apparecchio[12] e quasi senza ringraziamento per non soffrire tanto. La sera, poi, mentre facevo per pregare o meditare, questi[13], dapprima mi smorzavano la lampada, e poi emettevano tali strazianti ruggiti, oppure voci così flebili, come se venissero da moribondi, da farmi spaventare ed omettere la preghiera. È impossibile dire ciò che facevano questi cani infernali contro di me, non solo per incutermi terrore, ma di più, per farmi tralasciare qualsiasi bene spirituale, nel corso di tre anni all’incirca, in cui soffrii questo duro cimento, tranne qualche settimana di tregua, tregua per altro che[14] non cessava del tutto, ma solo si mitigava in parte.
Chi non è stato sottoposto dal Signore a tali diabolici combattimenti stenterà, certo, a credere le dette prove, da me purtroppo sopportate; a chi poi mi presta fede e volesse sapere come venissero esse a cessare, dirò come il Signore, mio Gesù, in una comunione fatta, m’insegnò il modo da adoperare per allontanare questi spiriti infernali, ed ecco come: ridurli all’estremo loro avvilimento, non solo col disprezzarli e non curarli affatto, come se fossero da meno delle stesse formiche, ma quanto col concentrarmi totalmente in Dio mercé l’orazione e la contemplazione, con l’introdurmi specialmente nelle sacratissime piaghe di Gesù, uniformando il mio spirito a quello di Gesù, penante nella [sua] umanità per reintegrare l’uomo, non solo della grazia perduta, ma ancora per sollevarlo a quella [vita] sovrannaturale ed a quello spirito di Gesù trionfante, che nella [sua] umanità vinse il mondo, la carne ed il demonio, col rendersi vittima di amore, di espiazione, di riparazione, di soddisfazione e di propiziazione presso l’eterno suo Padre, a cui offre il suo cuore, nel quale palpitano di amore tutti i suoi figli, redenti dal suo preziosissimo sangue e ritornati a novella vita di grazia. Ed in vero, non appena cominciai a fare quanto Gesù mi aveva insegnato, sentii infondermi tanta forza e coraggio da scemare in pochi giorni ogni timore. Quando, dunque, i demoni facevano strepiti e rumori, dicevo loro con disprezzo: “Si vede bene che voi, poverini, non avete altro mestiere che questo, e per passare il tempo vi esercitate in tali sciocchezze e balordaggini; proseguite pure, che quando vi sarete ben stancati prenderete riposo. Io, meschinelli miei, ho ben altro da fare, poiché per mezzo della preghiera voglio farmi strada per introdurmi nelle piaghe sacratissime di Gesù, affin di ottenere più amore al patire”.
Ed essi, più arrabbiati, facevano più forti rumori, si avvicinavano e, affettando ostentazione di futile violenza, fingevano di avvicinarsi per portarmi via, mentre dalle loro bocche d’inferno vomitavano una puzza orribile ed un’afa sì soffocante, che investendo tutta la mia persona mi cagionava internamente un certo brivido che cercavo di reprimere col farmi coraggio, e con forza dicevo loro: “Bugiardi che siete! Fingete avere del potere su di me per portarmi via, ma se ciò fosse vero l’avreste fatto fin dal primo giorno; ma siccome tutto ciò e falso, poiché quello che vi viene dato dall’Altissimo Dio è tut­to per il mio maggior bene, perciò cantate sempre lo stesso ritornello, sino a tanto che non crepiate di rabbia e di sdegno… Io intanto mi avvalgo di tutti i vostri tormenti per ottenere il maggior numero di conversioni di peccatori, giacché ho accettato dal buon Gesù a tal uopo il patire, solo a condizione di poter applicare le mie sofferenze a pro di quelle anime, mercé la mia volontà uniformata a quella di Dio”.
A tali parole si mettevano essi ad urlare ed a ringhiare come cani legati alla catena, che vorrebbero spez­zare per avventarsi tosto al ladro che loro si avvicina. Ed io, con più calma di prima, dicevo loro: “E che, non avete altro da fare? Avete sbagliato i vostri conti, certo, giacché non vi trovate più ai vostri calcoli, essendovi stata tolta qualche anima che, ravvedendosi, è ritornata nelle braccia di Gesù, mio bene; perciò avete ragione di lamentarvi”.
Se poi mandavano sibilanti lamenti, come se li com­patissi, burlandoli dicevo loro: “I poveri meschinelli non si sentono bene… ; voglio perciò procurarvi un vero sol­lievo a tanto vostro male”, e subito mi prostravo a pregare con fervore per la conversione dei più ostinati peccatori, facendo per loro tanti atti di amore verso il mio misericordioso Gesù, chiedendogli in ricambio le anime più perverse; ma questi, accorgendosi, cercavano tutti i mezzi per distogliermi dall’orazione; ma io, applicando questo patire in riparazione di tanti oltraggi che continuamente si fanno al buon Dio, dicevo loro con sogghigno: “Razza dei più vili che siete, non vi vergognate di scendere a tali bassezze per incutere timore a me e distrarmi, che niente altro sono che il puro nulla? Non vi fate perciò tenere e prendere da vili esseri da burla e da buffonate?”. Ed essi, mordendosi le labbra, bestemmiavano e scagliavano le loro invettive contro di me, cercando d’indurmi a bestemmiare ed odiare il buon Dio. Ed io, che sentivo pene indicibili sentendo strapazzare da loro il nome santo di Dio, mi mettevo a considerare la bontà del Signore, che merita tutto l’amore degli esseri dotati di ragione, e quindi, quella pena amarissima che mi avevano procurata, la trasformavo in lodi, offrendole a Dio in riparazione delle bestemmie che gli si fanno, da chi si ricorda di lui soltanto per bestemmiarlo, e dicevo fervorosamente:
“Accettate questi miei atti di amore e riconoscenza, in soddisfazione del disamore e sconoscenza, che come affronto vi viene fatto dai peccatori”. Ma essi non si arrestavano ancora, tanto che usavano ogni possibile arte per muovermi a disperazione; ed io dicevo loro: “Non mi curo né di paradiso, né d’inferno; mi preme solo di amare e fare amare ancor da altri il mio buon Dio. Il tempo presente mi è concesso non per pensare al tempo futuro, ma solo per corrispondere a chi mi ha prevenuta nella bontà ed amore, per rendermelo sempre più propizio. Il paradiso e l’inferno lo rimetto nelle sue mani, ed egli, che è tanto buono, mi darà quello che più mi conviene, per poterlo sempre più glorificare…”.
E poi dicevo loro: “Sappiate che questa è dottrina insegnata dal mio buon maestro Gesù Cristo, il quale mi ha fatto conoscere che il mezzo più efficace per acquistare il paradiso è il protestare continuamente di non vo­ler mai avere la volontà di offendere Iddio, anche a costo della propria vita, quanto sprezzando[15] la vana apprensione di aver agito male, quando però in questo manca la volontà, il che è farina del vostro sacco, o meschinelli, che volete smerciare ai gonzi, per gettare nel loro animo dubbi e timori, e ciò non è perché amino di più Iddio, ma per indurli alla totale disperazione… Ma io, sappiate che non intendo perdere del tempo a considerare se abbia o no fatto del male, ma mi basta l’inten­zione non ritrattata di volerlo[16] sempre più amare; dinanzi a qualunque offesa a Dio mi è sufficiente la protesta fatta in contrario, il che mi dà la vera calma e pace e mi libera da ogni timore, e l’anima mia si sente più libera di spaziare i cieli in cerca dell’unico e sommo mio bene”. Ora, chi può dire la rabbia da cui furono presi i demoni, vedendo che tutte le loro arti ed astuzie riuscivano a loro danno e confusione, e dove credevano di guadagnare vi perdevano? L’anima mia, invece, dalle stesse tentazioni ed artifizi diabolici sentiva, anziché perdere, acquistare più veemente amore verso Dio ed il prossimo, giacché seguendo l’insegnamento ricevuto da Gesù Cristo, quando questi mi percuotevano, umiliandomi, cioè, ringraziando il mio Dio ed accettando tutto ciò che soffrivo in penitenza dei miei peccati, ancora lo offrivo a lui come atti di amore, di espiazione e di riparazione per le tante offese che di continuo si fanno nel mondo; e spesso, quando i demoni mi tentavano di suicidio, dicevo loro: “Né a voi, né a me, è dato distruggere la propria vita; a voi solo è dato di tormentarmi, per farmi più guadagnare, ma non vi è data facoltà a poter togliere la mia esistenza, che io, poi, a vostro marcio dispetto, voglio in Dio sempre vivere per poter più amare il mio Dio, per essere sempre utile nel sovvenire spiritualmente il mio prossimo, al quale applico quanto da voi mi viene dato di soffrire”.
Finalmente capirono che non c’era più per loro speranza di ottenere nulla, anzi s’avvidero che facevano grandi perdite di anime, e perciò cominciarono a fare lunghe soste, a fine di riprendere l’aspro combattimento quando io meno me l’aspettassi.
Intanto, per me cominciò una nuova vita di sofferenze, che proverò alla meglio di narrare.
La famiglia, vedendomi molto sciupata, volle menarmi in campagna per farmi rimettere in salute; ma Iddio qui mi chiamava per assoggettarmi a nuovo stato di vita. Stando dunque in campagna, i demoni, un giorno, vollero fare l’ultimo tentativo, che riuscì per me tanto penoso da farmi perdere le forze e venir meno, tanto che verso sera perdetti totalmente i sensi, ed ero ridotta quasi in uno stato di morte, quando mi venne fatto di vedere Gesù circondato da innumerevoli nemici, tra i quali vi erano quelli che aspramente lo battevano, altri che lo schiaffeggiavano, e di altri, chi gli conficcava le spine nella testa, chi gli spezzava le gambe e chi le braccia, e lo conciarono in modo tale che lo ridussero quasi a pezzi; e dopo, tutto pesto, lo deposero nelle braccia della Madonna Santissima. E perché ciò avvenne poco discosto da me, la Vergine Madre, dopo che lo prese fra le braccia, tutta dolente e sciolta in dirotto pianto, m’invitò ad appressarmi dicendomi: “Vedi, figlia mia, come mi han ridotto mio Figlio…? Considera un poco, come gli uomini trattano il loro Signore, Creatore e sommo loro benefattore: non gli danno tregua né riposo, ed ora me lo danno tutto pesto. Considera le enormi offese che essi commettono trattandolo in tal modo, e i terribili castighi che saranno da Dio, suo Padre, versati su di loro”.
In intanto[17] cercai di ravvisarlo in quel penoso suo stato, e lo mirai tutto sangue, tutto piaghe, ed il suo corpo quasi trinciato e ridotto allo stato di morte, per cui provai in me tale pena che, se mi fosse stato dato, avrei voluto mille volte morire, soffrendo in me la stessa passione acerbissima di Gesù, pur di non vedere più soffrire tanto, tanto, il diletto mio amante Gesù; ed a tal vista ebbi vergogna delle mie lievissime sofferenze procuratemi dai demoni, in paragone di quelle del mio Gesù, inflittegli dagli uomini. La Santissima Vergine, intanto, vedendomi tanto commossa, mi soggiunse, piangendo ancora: “Avvicinati a baciare le piaghe del mio dolcissimo e sommo bene; ed intanto, dimmi, vorresti renderti vittima per amor suo? Vorresti soffrire in vece sua, che tanto soffre per te, le offese che gli vengono fatte dagli uomini perversi e scellerati? Con l’offrirti tu vittima, gli darai sollievo e ristoro in tanto suo penare; non sei tu disposta a questo sacrifizio per amor suo, che tanto ti ama?”.
A tal vista provai in me tale annientamento da non potersi credere. Mi vedevo, infatti, tanto cattiva ed indegna, che non ardivo pronunziare parola di assentimento; e poi mi sentii tremare in tutta la persona, e [sentii] tale estrema debolezza, che appena mi sentivo un fil di vita, tanto più che da lontano scorgevo i demoni in concilio fra loro, che si agguerrivano e strepitavano, decisi a che, se io accettavo di rendermi vittima per il sollievo di Gesù, dovevano fare su di me quegli acerbi strazi che gli uomini avevano già fatto al mio Signore. Tale annunzio mi causò sì indicibili dolori e contorcimento di nervi, che credetti di finirla[18]; ma riavutami alquanto, mi avvicinai a baciare tutte le piaghe del mio Gesù, le quali, dietro i miei baci, si cicatrizzavano e risanavano; ed il mio Signore, che poco anzi mi sembrava quasi morto, riprese novella vita; e nello stesso tempo ricevetti tali lumi circa le offese che si fanno a Gesù, e tale attrattiva di amore verso il mio sommo bene, che in cuor mio mi decidevo a rendermi vittima, ancorché dovessi subire mille atroci morti, ché un tanto buon Signore tutto da me meritava in ricambio di tanto suo amore. Tutto ciò avvenne mentre silenziosamente baciavo le sue piaghe, giacché correndo i miei sguardi agli sguardi moribondi di Gesù, vedevo che a vista d’occhio acquistavano essi vivacità e gettavano in me tali saette e dardi infocati di amore che, penetrando nel fondo del mio cuore, non po­tevano non attendere da me la corrispondenza ai tanti inviti che internamente facevami provare il mio Gesù. Si aggiunga, ancora a questo, che la Santissima Vergine mi dava tali incitamenti di benevolenza verso Gesù, che non mi è dato esprimere... Facevami comprendere come se dovessi divenire una sola cosa con Gesù; ma come ciò si svolgesse nell’animo mio, non lo saprei dire affatto. È certo, però, che uno sguardo più penetrante di Gesù, con uno sprazzo di vivida luce, ricreò talmente il mio spirito che mi sentii di acquistare nuova vita; e poi Gesù prese a dirmi: “Hai tu notate le enormi offese che mi si fanno dalla maggior parte degli uomini? Tutti quanti, chi più, chi meno, camminano per le vie dell’ini­quità, per cui senz’accorgersi, moltissimi di loro, propendendo sempre al male, d’abisso in abisso precipiteranno nel caos infernale.
Vieni meco ad offrirti, ancor tu, dinanzi alla divina giustizia oltraggiata, come vittima di riparazione per le tante offese che ognora si fanno, affinché il mio celeste Padre voglia rendersi propizio nell’accordarci la conversione dei peccatori, che ad occhi chiusi bevono alla fonte avvelenata del peccato. Sappi però che un duplice campo ti si para dinanzi, l’uno di sofferenze più o meno atroci, e l’altro di singolarissime grazie. Se rifiuti il primo, non potrai certo partecipare a quelle grazie che si promettono a chi avrà valorosamente combattuto; ma se accetti, sappi che io non più ti lascerò sola, ma verrò in te a soffrire tutto ciò che di oltraggio mi si fa dagli uomini, il che è certamente una grazia singolarissima, che a pochi è stata accordata, giacché [gli uomini] non sono disposti ad entrare nel centro del campo delle sofferenze. In secondo luogo è grazia ancora singolarissima, che ti prometto di sublimarti a tanta gloria per quante sofferenze ti saranno da me comunicate. In terzo luogo ti darò per aiuto, e come guida e conforto, la mia Santissima Madre, a cui è dato concederti qualsiasi grazia, a misura della tua corrispondenza. Ti pare poco, forse, questo im­menso mio bene? Ebbene, fanne la prova, e ti troverai elevata al di sopra di tutti i mortali”.
Sì dicendo, mi parve che mi affidasse alla sua Madre Santissima, la quale, di buon animo e con volto giulivo, mi accettava, ed io pure, con gratitudine, mi offrii a Gesù e alla Santissima Vergine, pronta ad assoggettarmi a tutto ciò che da me si voleva. Riavutami poi da questo primo deferente atto di conformità della mia volontà a quella di Gesù, mi trovai per la prima volta immersa in tali pene di annientamento di me stessa, come giammai avevo provato fino a quel momento. Mi vedevo meno che un misero vermiciattolo, che non sa fare altro che strisciare stentatamente la terra, e perciò mi rivolsi al Signore, dicendogli: “Aiutami tu, o mio buon Gesù, che la tua onnipotenza, in me e fuori di me, mi fa tanto peso che mi atterra... Veggo bene che se tu non mi sollevi, il mio nulla finirà col disfarsi. Dammi dunque il patire, che lo accetto, ma ti prego di darmi maggior forza, giacché in questo stato più che mai mi sento morire”.
Da quel giorno ebbi maggior grazia ed aiuti superni; le visite del Signore si alternavano con quelle della Vergine Santissima, con un quasi continuo moto di via vai, a seconda che mi attaccavano battaglia i demoni, i quali, quanto più mi vedevano disposta al patire, tanto più si manifestavano arrabbiati… È inutile dire che, se le sofferenze subite sin qui da parte dei demoni sono state indicibili, quasi ombra sembrano ora, messe a confronto delle più lievi pene accettate dalle mani di Gesù, con animo disposto di espiare e riparare le moltissime e gravissime offese che si fanno dall’uomo a Dio; ma io che confido in Dio, che atterra e suscita, che affanna e consola, sono disposta a soffrirle per la sua maggior gloria e per il bene del mio prossimo, come lo vuole il Signore.
Non erano passati che pochi giorni dacché mi ero assoggettata allo stato di vittima, dopo i tanti iterati inviti del mio Gesù e della Vergine Madre, allorché mi sentii per una seconda volta perdere i sensi, mentre il Signore mi si fece vedere con la corona di spine in testa, e tutto grondante sangue, ed avvicinandosi a me, benignamente mi disse:
“Figlia mia, vedi un po’ che mi fanno soffrire gli uomini, tutt’affatto disamorati di me. È tanta la loro superbia in questi tristi tempi, che ancor l’aria che respirano me l’hanno infettata; anzi, è tanta la puzza di questa, che non solo si è sparsa per ogni dove, ma è giunta fin anche al trono del Padre mio, lassù nei cieli… Come puoi considerare, lo stato di questi miseri, tende a far serrare per essi le porte del cielo; essi non hanno più occhi per conoscere la verità, perché dal peccato della superbia ne è venuto l’offuscamento totale della loro men­te e la depravazione del cuore, per cui si son lasciati andare ad ogni stravizio e turpitudine; ed io, in vista della loro perdita, ne soffro acerbe pene ed indicibili spasimi e dolori. Deh, dammi tu un sollievo ed una riparazione ai tanti torti che mi si fanno continuamente… Non vorresti tu mitigare almeno i miei dolori, che mi procura questa corona di pungentissime spine?”.
A tal vista ed a tali parole provai in me tale annientamento e vergogna di me stessa, che subito gli risposi: “Mio dolcissimo Gesù, al vederti così grondante sangue ed al sentirti sì dolorosamente parlare, mi sono tanto confusa ed ho provato tale raccapriccio, da non farmi punto pensare a domandarti codesta corona per poterti sollevare in tante pene; ma ora che soavemente da te mi viene offerta, te ne ringrazio, ed insieme ti prego di darmi novella grazia per poter ben patire”.
Allora Gesù si tolse la corona, e dopo averla conficcata nella mia testa, incoraggiandomi a ben soffrire, mi disparve. Ora, chi può dire gli acerbi spasimi che provai nel ritornare in me stessa? Ad ogni movimento di testa, i dolori si facevano sempre più acuti, e le punture le sentivo penetrare negli occhi, nelle orecchie, dietro la nuca e persino nella bocca, che si strinse in modo tale da impedirmi di poter prendere qualsiasi cibo.
In questo stato di sofferenze la duravo da due a tre giorni, e quindi senza cibo per non sentire più acerbi spasimi; e quando questi si erano alquanto mitigati e prendevo qualche cosa per ristorarmi, subito dopo il mio Gesù sensibilmente mi premeva con la sua mano la testa, e le pene venivano rinnovate con più intensità di spasimi e dolori, in modo che talvolta giungevo a perdere totalmente i sensi.
Da principio, questo stato di vittima fu per me duplicatamente[19] angoscioso, sia per ciò che soffrivo a pia­cimento del mio buon Gesù, sia ancora per le continue inquietudini che mi venivano da parte della famiglia, giacché questa, vedendomi tanto soffrire, e non potendo arrivare ad indurmi a prendere alcunché di cibo, si ostinarono a credere che io mi avessi[20] procurato questo male per non voler più restare in campagna e, naturalmente, attribuivano ogni rifiuto di cibo a mero mio capriccio e per fare che ci ritirassimo subito in città. Per questo duplice motivo di sofferenze la mia natura voleva risentirsi, giacché non era vero quanto mi si attribuiva dalla stessa [famiglia]; ed il Signore, poi, giustamente mi riprendeva, giacché non voleva in me questo risentimento, altrimenti mi minacciava che avrebbe ritirata la sua grazia.
Una sera, più d’ogni altro tempo, mentre si stava a tavola, ed io in tale stato di sofferenze da non poter aprire la bocca per prendere qualsiasi cibo, la famiglia, prima con le buone e poscia con sdegno, mi spingevano ad obbedire, ma io, perché non potevo contentarla, mi misi a piangere, e per non essere vista mi recai in altra stanza ed ivi seguitai a piangere ed a supplicare il mio Gesù e la Vergine Santissima che mi concedessero aiuto e forza per sopportare tale cimento; ma mentre ciò facevo perdetti i sensi, esclamando di cuore:
“Oh mio buon Dio, che dura pena è il dover sopportare la famiglia, irritata con me per sì ingiusta causa! Deh, non permettere che mi abbiano più a vedere in questo stato di sofferenze, poiché sento tale vergogna di essere vista in tale stato, da preferire piuttosto la morte che far conoscere ciò che passa tra me e te, mio Dio. E ciò lo sento tanto vivamente in me, senza saper dire il perché, che non posso far a meno di andare a nascondermi in quei luoghi ove non possa essere veduta da anima vivente. Quando poi sono sorpresa all’improv­viso, e tanto da non aver il tempo di celare le mie pene e le mie dolci ed amare lacrime, mi sento come annientare e disfare il mio essere qual neve al fuoco, ed in questo stato tutta la mia persona sente in sé un non so che di calore non naturale, che dapprima mi fa versare copiosi sudori e poi mi fa agghiacciare e tremare dal freddo. Deh, mio buon Gesù, tu solo puoi rimediare a questo mio stato, facendomi restare sempre nascosta agli sguar­di altrui, e facendo credere alla famiglia che io mi apparto da loro solo per pregare e non per altro motivo; e che questo bramo, che sia solo noto a te, mio Dio”.
Mentre così mi sfogavo in lacrime, ed in preghiere e voti, Gesù si fece vedere in mezzo ad innumerevoli nemici, che gli facevano ogni sorta di insulti, e vi erano di quelli che lo calpestavano sotto i loro piedi, chi lo tirava per i capelli, ed altri che lo bestemmiavano con vituperevoli e diabolici sarcasmi. A me pareva che il mio amabile Gesù volesse sottrarsi da sotto quei fetidissimi piedi, guardando a sé d’intorno, come se andasse in cerca di qualche persona che con mano amica lo liberasse, ma mi accorgevo che non trovava nessuno che si fosse prestato all’uopo.
Considerando io, poi, il grande affronto che si faceva a Gesù, piangevo amaramente, ed avrei voluto andare in mezzo a quei lupi rapaci per liberare il mio Gesù, ma non ardivo, conoscendomi inetta, e perciò da lontano facevo fervorose istanze presso Gesù perché mi avesse fatta degna di soffrire in vece sua quelle pene, o che al meno me ne avesse fatto parte, esclamando: “Deh, o Gesù, potessi io prendere su di me queste pene per sollevarti e liberarti da questi nemici!”.
Ma mentre ciò dicevo, quei furibondi nemici, quasi che avessero intesa la mia preghiera, con impeto si avventarono contro di me, come cani arrabbiati, percuotendomi, strappandomi i capelli e calpestandomi sotto i loro piedi; ed io intanto, pur soffrendo, sentivo dentro di me un contento nel vedere che così potevo procurare a Gesù un po’ di tregua; ma quei nemici, vedendomi forse così contenta, mi scomparvero, mentre Gesù mi si fece dappresso per compatire me, ed io per compatire lui, sebbene non ardivo profferire parola.
Gesù intanto, rompendo per primo il nostro silenzio, mi disse: “Figlia mia, tutto ciò che hai visto fare di me è un nulla, è un puro nulla in paragone di tutte le offese che continuamente mi si fanno dalla maggior parte del genere umano, giacché la loro cecità li tiene ingolfati nelle cose terrene, ed in modo tale da farli giungere ad essere spietati e crudeli non solo verso di me, ma ancora verso loro stessi; hanno ripudiato ogni verità soprannaturale, col darsi a tutto potere in cerca di oro, ma questo li ha gettati nel fango di ogni laidezza, e son caduti nel totale disprezzo del loro eterno destino. Chi, o figlia, metterà argine all’inondazione di sì mostruosa ingratitudine, che si allarga sempre più nel mondo dei falsi gaudenti? Chi avrà compassione di tanta gente che mi costa sangue e vive come sepolta nel lezzo delle cose terrene? Deh, tu vieni meco a pregare, a piangere ed a riparare le offese che si fanno al Padre mio da tanti ciechi, che sono tutt’occhi per tutto ciò che sa di terra, mentre poi non hanno mente e cuore che per disprezzare e calpestare le tante mie grazie, mettendo tutto ciò che fu operato da me per loro vantaggio, sotto i loro immondi piedi, quasi fosse vile fango. Deh, sollevati almeno tu sopra tutto ciò che sa di terra; aborrisci e disprezza tutto ciò che non appartiene a me; innamorati sempre più delle cose che sanno di cielo, quindi non ti facciano più impressione gli insulti che ti vengono dalla famiglia, ora che hai visto soffrire me, insulti di gran lunga più abominevoli; ti stia solo a cuore l’onor mio ed il ripararmi dalle tante offese che mi si fanno continuamente, e poi considera la perdita di tante anime. Deh, non lasciarmi solo in mezzo a tante pene che mi straziano il cuore…! Ma sappi, però, che tutto ciò che adesso soffri è un nulla in paragone di tutte quelle pene che soffrirai in appresso; non te l’ho forse detto e ripetuto più volte, che voglio da te l’imi­tazione della mia vita? Vedi un po’ quanto sei ancora dissimile da me. Perciò fatti coraggio e nulla temere, che così potrai giungere in certo qual modo ad aiutarmi”.
Dopo questo parlare di Gesù, ritornando in me stessa, mi accorsi che ero circondata da persone di famiglia che piangevano e si turbavano tutti, temendo che mi tro­vassi in fin di vita; perciò si affrettarono a menarmi in città, affin di farmi osservare dai medici. Non so dire, ora, quale pena sentissi in me, nel pensare che la famiglia era conscia del male fisico che si era impossessato di me e per cui dovevo assoggettarmi alla visita medica. Mi sciolsi, quindi, in lacrime, e lamentandomi col mio Gesù gli dissi: “Quante volte, o mio buon Gesù, non ti ho detto che voglio teco patire, ma sempre però nel nascondimento? Questo è il solo mio contento, e tu adesso, perché anche di questo mi privi? Deh, dimmi tu ora, come farò a far tornare in pace la mia famiglia? Tu solo, o mio buon Gesù, puoi suggerirmi il modo da tenervi. Deh, sollevami un poco, affinché essi per causa mia non abbiano ad affliggersi tanto; non vedi quanto sono rattristati? Non senti ciò che dicono ed intendono di fare? Vi è chi la pensa in un modo, chi in un altro; chi vuole che mi faccia usare[21] un rimedio, e chi un altro. Sono tut­t’occhi e sempre intenti sulla mia persona, in modo da non lasciarmi più sola, impedendomi così di riacquistare la perduta pace. Deh, aiutami in tante pene, una più acerba dell’altra, in guisa tale da farmi sentire mancare la vita!”.
A questo mio dire, il mio buon Gesù, con tutta dolcezza, mi disse: “Figlia mia, non volerti tanto affliggere per questo, ma cerca piuttosto di abbandonarti come morta fra le mie braccia; sino a tanto che tu terrai gli occhi aperti per notare ciò che fanno e dicono le creature sul conto tuo, sappi che io non posso agire liberamente su di te. Vuoi tu, dunque, non fidarti di me? Non hai tu forse sperimentato quanto bene ti voglio? Ebbene, sappi che tutto ciò che permetto che avvenga su di te, sia per mezzo dei demoni o da parte delle creature, è diretto da me per il tuo maggior bene, che ad altro non tende che a condurre l’anima tua a quello stato ultimo a cui ti ho eletta. Voglio perciò che te ne stia tranquillamente fra le mie braccia e ad occhi chiusi, senza guardare né investigare quanto avviene intorno a te, ché all’opposto ci perderai il tempo e mai potrai arrivare a quello stato di vita a cui sei chiamata. Poi, in quanto alle persone che ti circondano, non darti alcun pensiero; usa loro profondo silenzio, sii benigna e sottomessa in tutto; fa in modo che la tua vita, il tuo pensiero, il tuo palpito, i tuoi respiri ed affetti, siano continui atti di riparazione, placanti la divina giustizia, offrendo insieme le molestie che ti procureranno le creature”.
Dopo di avermi Gesù così ammaestrata, disparve. Allora mi concentrai in me stessa, e feci quanto più potetti per rassegnarmi alla Divina Volontà, quantunque alle volte piangessi amaramente, giacché fui messa dalla famiglia in tali strettezze, fino ad essere obbligata ad assoggettarmi alla visita medica, che giudicò non essere altro la mia infermità che un fatto tutto nervoso, e quindi mi vennero ordinate medicine, passeggiate, bagni freddi e continue distrazioni, e nel contempo [il medico] raccomandò a tutti che si guardassero bene di menomamente muovermi durante il periodo di assopimento, che in caso contrario mi avrebbero piuttosto spezzata anziché sollevarmi, se avessero voluto mettermi in tutt’altra posizione da quella in cui mi trovavo.
Quindi mi si suscitò dalla famiglia, in questo tempo, una tacita e finta guerra, giacché vi era chi mi ostacolava l’andata in chiesa, chi mi toglieva la libertà con la sua continua compagnia anche in casa, chi mi pressava a farmi prendere le medicine e tutti gli altri espedienti ordinati dal medico, e chi, finalmente, voleva farmi la guardia fin nella notte. Dopo di che fu facile per loro accorgersi di tutto ciò che spesso spesso mi accadeva. Dopo un lungo periodo di tempo, però, non potendone più, mi feci coraggio a lamentarmi così col mio Signore: “Oh, quanto mi è penoso, mio diletto Gesù, il modo con cui si porta meco la mia famiglia, perché è giunta a privarmi anche delle cose a me più care; difatti sono priva di tutto, ed anche dei tuoi stessi sacramenti! Chi l’avreb­be mai pensato, che io dovessi giungere a questo stato di vita, senza potermi più avvicinare a te in sacramento, sia per visitarti che per riceverti sacramentalmente? Chissà dove questo stato di vita andrà a finire! Deh, dammi tu, o Gesù, novello aiuto e forza, altrimenti la natura mi verrà meno!”.
E Gesù, facendosi vedere, subito mi diceva: “Co­raggio, figlia mia, sono io in tuo aiuto: che temi? Pensa che ancor io ho sofferto da parte di ogni ceto di persone, e di queste vi fu chi la pensava in un modo e chi in un altro, e tanto che le cose più sante che io facevo erano da esse giudicate sinistramente come difettose ed anche cattive, e perfino giunsero a dirmi che io ero indemonia­to, tanto che mi facevano guardare dagli altri con occhi torvi e mi tenevano fra loro di malavoglia, macchinando il modo ed il mezzo come togliermi al più presto la vita, perché la mia presenza si era resa per molti intollerabile, perché ero di riprensione per i malvagi, mentre ero di tanta consolazione per i buoni.
Non vuoi tu, dunque, renderti simile a me, che ti voglio a parte delle sofferenze che soffrii da parte delle creature?”.
Ed io a lui: “Tutto abbraccio, per amor tuo”.
Parecchi anni passai così, soffrendo sempre, ora da parte dei demoni , ora da parte delle creature, ed ora da parte di Gesù, che mi metteva a parte delle sue pene; ed in questo stato giunsi alle volte a soffrire in modo tale da vergognarmi di me stessa, e soprattutto provavo in me gran rossore di farmi vedere da qualsiasi persona. Veramente per me è stato sempre gran sacrifizio il comparire in una conversazione anche famigliare, anche quando mi trovavo in stato di perfetta salute; ma ora più che mai, essendo in stato di sofferenze, provo tale rossore e tale turbamento di spirito da farmi stupidire. La famiglia intanto, vedendo che a nulla approdavano le cure ordinatemi dal primo medico, procurò farmi visitare da altri ancora, che non riuscirono a farmi migliorare in salute; ed io, versando sempre lacrime amarissime, dicevo al mio amabile Gesù: “Signore, non vedi come le mie sofferenze si rendono sempre più manifeste a tutti? Non solo la famiglia, ma ancora gli estranei sanno le cose mie, ed io, che mi veggo per questo tutta confusione…
A me pare che tutti quelli che mi vedono mi segnano a dito, come se avessi commessa qualche scelleratezza, oppure come se le mie sofferenze fossero le più contagiose, il che mi fa provare pene indicibili; e non so dirti veramente cosa è successo in me, che spesso spesso tornano ad agitarmi queste cattive apprensioni, che in fine, se si va in fondo, sono false. Deh, tu solo, o Gesù, puoi liberarmi da tale pubblicità e da tale mia apprensione; a te sta il farmi patire di nascosto; te ne prego, te ne scongiuro, per tua bontà, esaudiscimi!”.
Finse dapprima nostro Signore di non ascoltarmi, per cui si aumentarono in me le pene, ma poscia, compatendomi, con tutta bontà mi disse: “Figlia mia, vieni a me, che ti voglio consolare; hai ragione di lamentarti così, perché ne soffri, ma fa d’uopo ricordarti quanto di più ho sofferto io per amor tuo. Anche le mie sofferenze furono sino ad un certo punto del tutto nascoste; ma quando, poi, la Volontà del Padre mio volle farmi patire pubblicamente, allora prontamente andai incontro ad ogni disprezzo, obbrobrio e confusione, sino ad essere spogliato delle vesti, e nudo comparii in mezzo ad un numerosissimo popolo.
Potresti tu, ora, immaginare maggior confusione di questa? Eppure la mia natura sentiva in sé viva questa specie di confusione, ma l’occhio mio era fisso alla Vo­lontà del Padre mio, e quella pena e sofferenza era da me offerta in riparazione delle tante offese che vengono fatte dagli uomini, col commettere le più nefande azioni al cospetto del cielo e della terra, senza alcun rossore; anzi vengono esse commesse ad occhi aperti e menandone vanto ed ostentazione, quasi avessero compiuta qualche opera grandiosa. Ed io, ad onta di tutto questo, dicevo al Padre mio: ‘Padre santo, accettate la mia confusione ed i miei obbrobri in riparazione delle tante colpe che si commettono da tanti, che sfacciatamente e senza ritegno ti offendono pubblicamente, con grave scandalo dei piccoli fanciulli; perdonate, dunque, loro, e date superni lumi, acciò vedano la bruttezza del peccato e, convertendosi, ritornino sul sentiero della virtù’.
Ora, se tu vuoi imitarmi, non devi partecipare a questa specie di sofferenze tollerate ancor da me per il maggior bene di tutti? Non sai tu che i più bei regali che posso dare alle anime che più mi si son rese care, sono le croci e le pene che tanto mi toccarono da vicino? Tu sei ancor bambinella nella via della croce, e perciò ti senti troppo debole, ma quando ti sarai fatta più grandicella ed avrai ben conosciuto quanto è prezioso il nudo patire, allora più vivo si farà in te il desiderio di patire; appoggiati, dunque, in me e riposati, che così acquisterai fortezza ed amore al patire”.
Dopo aver passati sei o sette mesi all’incirca in questo stato di sofferenze, si accrebbero ancor di più, tanto che fui costretta a starmene a letto, giacché spesso spesso perdevo i sensi e la bocca mi si stringeva tanto, da impedirmi affatto di prendere cibo alcuno, ma appena ci riuscivo ad ingoiare qualche goccia di bevanda, che veniva rimessa subito per i continui conati di vomito, che peraltro sempre si presenta nelle maggiori sofferenze. Non venendo intanto a capo con medicinali nel corso di diciotto e più giorni di cura, si pensò di mandare per[22] il confessore, a scopo unico di confessarmi. Venuto questi e trovatami in quello stato quasi d’impietrimento, mi diede l’obbedienza di sciogliermi da quello stato di assopimento mortale e, segnandomi di croce, [mi] aiutò a sciogliermi dall’attrito nervoso; e quando mi riebbi del tutto, mi si fece a domandare: “Dimmi, che cosa tu hai?”.
Ed io, tacendo il tutto, gli dissi solo: “Padre, questa deve essere cosa del demonio”.
Ed il confessore, senza altra interrogazione e senza alcuna esitazione, mi disse: “Non temere, che non è il demonio, e se lo fosse, il padre, in nome di Dio, lo discaccerebbe da te”.
Indi, riuscì a darmi il solito moto alle braccia, a far­mi aprire liberamente la bocca ed a farmi prendere alcunché di ristoro. Ritiratosi poi il confessore, mi misi a considerare che tutto ciò che si era operato in me era d’attribuirsi alla santità di questo santo sacerdote, e lo tenni quasi per miracolo, tanto che fra me stessa, nel pieno mio contento, dicevo: “Vedi un po’, se l’avessi durata in quello stato poco altro tempo, certo che avrei dato termine alla mia vita, mentre ora mi sento rinata a novella vita”.
Ne ringrazio sempre e ringrazierò Iddio che, mercé la santità di questo suo ministro, mi ha ridonata la sanità. Non posso però celare che in quello stato di morte ero del tutto rassegnata, e che ora, pur vedendomi libera, non provi un certo rincrescimento di non essere già mor­ta; ma il Signore non lo permise, giacché aveva da compiere i suoi disegni su di me, e perciò in giornata diede segno di volermi vittima perenne, col farmi sorprendere di tanto in tanto da quello stato di prima, ma mi riavevo però da me sola. Poscia mi rimisi in salute, e scesi per un altro periodo di tempo alla chiesa, per adempiere ai miei doveri religiosi[23]. In questo frattempo, nel comunicarmi, [ricevendo] Gesù in sacramento, quando dovevo essere messa a parte delle sue pene e sofferenze, Gesù me lo diceva, e tante volte mi determinava l’ora in cui doveva egli venire a comunicarmele; il che, preannunziato e poscia comunicato da Gesù e da me sofferto, non pensavo di dirlo al confessore, giacché credevo che al solo pensiero di volerlo manifestare sarei divenuta l’ani­ma più superba di questo mondo, ancorché avessi scorta della santità nel mio padre spirituale, e ciò per un pezzo di tempo, giacché dallo stato di sofferenze partecipate da Gesù mi riavevo senza alcun aiuto umano, ma tutto lo faceva Gesù. Dopo avvenne che Gesù, nel comunicarmi le sue pene e dolori, non più potetti come prima riavermi da me stessa, tanto che la famiglia dovette di nuovo, un giorno, mandare per il confessore, il quale, dopo avermi fatto riacquistare i sensi, mi disse:
“D’ora innanzi, quando scenderai in chiesa, o prima di comunicarti o dopo che avrai terminato il ringraziamento, vieni al confessionale affinché ti dia la benedizione di grazia, per farti sempre riavere dallo stato di sofferenza, senza che io venga in casa tua”.
Una mattina, fra le altre, il Signore, dopo che mi feci la santa comunione, mi fece capire che in giornata sarei stata sorpresa da quello stato di assopimento totale, giacché m’invitava a tenergli compagnia col partecipare alle sue pene, che soffriva per le offese dei malvagi uomini. Ed io, conoscendo che il confessore non era in città, subito gli dissi: “Mio buon Gesù, se vuoi comunicarmi le tue pene, tu stesso dovrai avere la bontà di farmi riavere, che in caso contrario la famiglia non potrà mandare per il confessore, perché questi trovasi in campagna”. Il Signore, tutto bontà, mi disse: “Figlia mia, la tua fiducia deve essere posta tutta in me; statti tranquilla e tutta fiduciosa e rassegnata, perché l’una e l’altra cosa, riposte in me, rendono l’anima luminosa, facendo stare a posto tutte le altre passioni, di modo che, attirato io da quei raggi di luce, da me stesso comunicati, prendo possesso dell’anima e la informo tutta in me, per farla vivere della mia stessa vita”.
Al suo dire non potetti opporre il mio, e dovetti perciò rassegnarmi alla sua Santa Volontà, ed offrii la comunione già fatta, come l’ultima della mia vita; dando, quindi, l’ultimo addio a Gesù in sacramento me ne uscii di chiesa, e sebbene rassegnata, sentivo pur nonostante un certo sconforto in me, pensando a ciò che stava per succedermi; perciò tutto quel giorno non feci altro che piangere e pregare il Signore che mi avesse comunicata novella forza per farmi riavere, in caso che fosse[24] per alienarmi dai sensi. E di fatto, in quel giorno stesso fui sorpresa da quello stato mortale, che mi riuscì troppo amaro, poiché con una croce nuova e pesantissima mi trovai ridotta in tale stato; [croce] che io stessa giudico e stimo come la più grave e pesante di quante altre ho dovuto subire sino a questo momento.
Mentre rientrai in quello stato di mortali sofferenze, mi rassegnai tutta a fare la Volontà di Dio e a dispormi a ben morire. La famiglia, intanto, vedendomi in quello stato, e tanto soffrire, cercò di mandare per un altro sacerdote, [che] chissà avesse voluto usarmi la carità di farmi riavere; ma chi per un verso e chi per un altro, quasi tutti, domandati a prestarsi, si rifiutarono a venire in casa, e dovetti così passare la bellezza di dieci giorni in quel continuo impietrimento di vita mortale, ma senza morire. Finalmente, all’undicesimo giorno, si prestò il confessore[25] a cui ero andata a confessarmi per la prima comunione, quando ero ancor piccina. Questi venne e mi fece riavere, come l’altra volta mi aveva fatto rinvenire il mio proprio confessore. In questo rinvenimento compresi due cose: l’una, che non era la santità sola del sacerdote che mi faceva riacquistare i sensi, ma soprattutto la potestà data da Dio al sacerdote, come suo ministro; e la seconda cosa che appresi fu nel ravvisare i disegni di Dio su di me, che era[26] per involgermi nella rete soggettiva dei suoi ministri. Da qui mi ebbi una lunga guerra da parte dei sacerdoti; e vi fu, infatti, chi disse essere lo stato mio, tutto finzione, e ciò per farmi tenere da santa; chi diceva di essere io meritevole di bastonate, per cui non avrei dovuto più cadere in quello stato di vero infingimento; chi mi credeva indemoniata, e chi mol­te altre cose ancora, di cui il tacere è sempre bello; e perciò io non sapevo come fare, giacché se la famiglia si faceva un dovere per non farmi stare tanto a penare in quello stato, e ne andava in cerca di qualche sacerdote per farlo venire, lo sa Iddio a quali strani rifiuti fu essa sottoposta, tanto che non ne poteva più, e specie la mia povera mamma, che per me ha versato un fiume di amarissime lacrime. In quanto a me, taccio; dico solo che il Signore voglia perdonare tutti coloro che mi hanno dato motivo di più soffrire, e voglia ricompensare centuplica­tamente quelli che hanno meco sofferto, specie la mam­ma mia.
S’immagini, dunque, quanto amara mi è riuscita quella soggezione, che per riavermi debba avere assolu­to bisogno del sacerdote. Lo sa Iddio, quante volte non lo abbia io pregato, versando amarissime lacrime, perché mi avesse liberata da sì dolorosa soggezione al suo ministro! E quante volte non gli ho resistito quando era per chiedermi lo stato di vittima, volendo che avesse accettato su di me le sue acerbissime pene? Facevo allora, più che mai, violenza a me stessa per resistere, dicendo al mio buon Gesù: “Signore, allora accetterò lo stato di vittima, a cui tu mi chiami, quando mi avrai promesso che tu stesso mi farai riavere senza la venuta del sacerdote, altrimenti non voglio sottopormi ad un sì pesante giogo”.
E resistetti così, per quanto potetti, sino al terzo giorno; ma chi può resistere a Dio, se incondizionatamente egli lo vuole? Nei tre giorni di resistenza usata verso il mio Dio, uscivo spesso in queste espressioni contro le sue promesse, dicendogli con calde ed amare lacrime: “Signore, tu non stai più alla tua parola datami. Come, dicevi che il tutto si sarebbe svolto tra te e me sola, ed ora vuoi far sottentrare un terzo per farmi riavere, per cui sarò costretta a far conoscere ciò che passa tra te e me? E dire, poi, che questo non è condiscenden­te a venire quando tu mi metti in condizione di non potermi riavere. Non hai tu notato i tanti strani rifiuti ed umiliazioni che la famiglia ha dovuto subire, a torto, dai sacerdoti, che nulla ci credono? Si può, certamente, farne a meno, e così staremo contenti; contenta cioè io, nell’accettare le tue sofferenze su di me, quante volte tu lo voglia, e nel tempo stesso più contento ancora sarai tu stesso, che mi farai riavere quando lo vorrai, ed in questo modo non potrai essere scontento di me, perché sarai contento della mia condiscendenza a fare il tuo Volere”. Ma per quanto io dicessi, Gesù taceva e, fingendo ascol­tarmi, sembrava che avesse voluto esaudirmi in tutto, che, secondo me, era giusto e santo; ma invece prese a dirmi: “Figlia mia, non temere; io son quelli[27] che dà le tenebre e quelli che dà la luce; ora è stato il tempo delle tenebre, ma il tempo della luce presto verrà. Sappi, ancora, che è mio solito di manifestare le mie opere a mezzo dei sacerdoti; ad essi ho dato la potestà di ben conoscere, giudicare ed incoraggiare l’anima a proseguire senza perplessità, se il tutto è secondo il criterio della rivelazione, oppure a far sospendere e tralasciare tutto quello che ritenga non essere, a seconda del criterio di esse rivelazioni”.
È inutile dire che al parlare di Gesù dovetti ammutolire e, a torto collo, senz’altro assoggettarmi al suo espresso Volere; ma posso però tacere ora, a chi sono obbligata di manifestare il tutto in precetto di obbedienza, quante stranezze e contraddizioni ho dovuto sopportare nel corso di quattro anni circa? E ciò sia detto da me perché così mi viene comandato, e non [per] fare appunto a quei sacerdoti che in questo periodo di tempo mi assoggettarono a prove durissime: basta dire che si giunse a farmi stare in quello stato di sofferenze, d’ina­bilità, di immobilità e d’impietrimento, sino a diciotto giorni continui, e giù di lì, che fu per me veramente stato di morte senza morire, giacché inabilitata a qualsiasi moto non potevo prendere né una goccia d’acqua, né soddisfare alle naturali necessità; fu insomma darmi, ancor vivente, come morta nelle mani dei sacerdoti, che a loro piacimento ed a marcio mio dispetto mi facevano star vivente in stato di vera morte.
Iddio solo sa quello che passai in quei quattro anni di vero martirio. E quando qualche sacerdote si compiaceva di chiamarmi a vita, non usava nemmeno la carità di dirmi: “Abbi pazienza, fa la Volontà di Dio...”, ma in vece rimbrotti e ramanzine, che si fanno talvolta ai capricciosi ed ai disubbidienti, che con l’agire a loro proprio talento si son poi trovati nella via del male.
Oh, quanto sono stata cattiva e lo sono tuttora, perché risento ancora vivamente quando mi si dà la taccia, sebbene a torto, di anima capricciosa e disobbediente! Se io volessi investigare la ragione per cui, pur non volendo risentirmi, lo sento però sempre vivo in me, dovrei trovarla nella causa efficiente di essere molto dissimile ancora, nel mio pensare ed agire, da quello del mio sempre amabile Gesù. Egli, che in tutta la sua vita è stato veramente il bersaglio in ogni specie di contraddizione, non ha mai serbato in sé il minimo risentimento, ma sempre imperturbato ha dovuto con piena calma sop­portare in pace insulti sopra insulti, affronti sopra affronti, e questi, innumerevoli e per tutto il corso della sua vita; ed io, invece - ho pur vergogna a dirlo - ho versato chissà quante volte amarissime lacrime, e [mi sono] lamentata col mio dolcissimo Gesù, sino a risentirmi con lui ed a fargli, per quanto più potevo, resistenza, per fare che non mi assoggettasse alle sue aspre pene e sofferenze, per non essere colpita al vivo dall’ingiusta taccia di capricciosa e disobbediente. Ma quanto è stato buono il Signore verso di me, miserabile e cattivella, che ad onta della mia resistenza, fingendo dapprima di non più curarmi e nulla dicendomi, si allontanava, ma per poco, ché tosto all’improvviso veniva a sorprendermi nella mia desolazione causata dalla sua lontananza, e mentre con le sue dolci moine e carezze m’indu­ceva a compiere il suo Santo Volere, facevami cadere di nuovo fra le braccia della mortale sofferenza, comunicatami direttamente dal mio amabile Gesù; e quando ve­niva il confessore[28] a farmi rinvenire, questi, con tono severo, mi diceva: “Non voglio che tu vi ricada più in questo stato”.
Ed io, menomamente risentita, gli dicevo: “Padre mio, non sta in mio potere di cadere o non cadere in questo stato di assopimento mortale. È vero che sono capricciosa, disobbediente e buona a nulla, ma dico la verità, che la pena più straziante per me è il non poter obbedire; e con ragione, padre mio, sento questa pena, perché mi vedo priva di quella virtù che è stata la gemma più fulgida e preziosa del mio Gesù, senza della quale non sarò mai a lui gradita. Oh, quanto mi dispiace e che pena io provo nel vedermi tanto dissimile da lui! Che bene può fare, qual bene operare un’anima disobbediente?”.
A tali umilianti parole, che mi uscivano dal fondo del cuore, in cui sentivo palpitante d’amore il mio diletto Gesù, il confessore con qualche parola d’incorag­giamento mi lasciava, quasi più contento delle altre vol­te innanzi venuto. Malgrado, però, l’incoraggiamento avuto poco anzi, malvolentieri opinavo che, se il Signore non mi avesse accertata che mi avrebbe egli stesso liberata dall’anzi detto stato senza dell’intervento del confessore, pur accettando su di me le sue pene e sofferenze in riparazione di tanti peccati che si commettono continuamente dalla maggior parte degli uomini, ero disposta ad opporgli ogni resistenza, affine di ottenere quanto io mi proponevo. Ma se la creatura propone in un modo, Iddio, nella sua imperscrutabile sapienza, fa in modo che si eseguisca, dalla stessa, tutto ciò che ha disposto su di lei.
Fece quindi Iddio, in questo periodo di tempo, che il colera incominciasse di giorno in giorno ad infierire sempre più, tanto da intimorire la nostra buona cittadinanza[29]; ed io un giorno, più che mai, mi misi con fervore a supplicare il Signore che avesse fatto cessare questo flagello della giusta ed inesorabile ira di Dio, sdegnato a causa degli innumerevoli affronti commessi dai malvagi uomini. Mentre, dunque, così pregavo, mi si fece vedere il mio amabile Gesù, che mi disse: “Ebbene, io sono per contentarti, purché tu voglia offrirti vittima di riparazione, soffrendo ben volentieri quanto di grave ed affliggente sarà trasmesso all’anima ed al corpo tuo”.
Io, allora, a lui: “Signore, se il male passasse tra te e me, sarei prontissima ad accettare tutto ciò che tu voglia fare su di me; all’opposto, non posso, ché tu ben sai come la pensano e si conducono i sacerdoti verso di me”.
E Gesù, molto benignamente, mi rispose: “Figlia mia, se avessi voluto opinare su ciò che gli uomini erano per fare sulla mia umanità, certo non avrei operato la redenzione del genere umano, ma invece io non ebbi altro intendimento che la loro eterna salvezza. Fu l’amore grande che mi divorava, che mi fece fare il sacrifizio di tutto e di tutti; e quelle stesse pene e sofferenze, quegli stessi dolori e dispiaceri che le creature ingiustamente mi davano col loro pensare ed agire contro di me, io li offrivo all’eterno mio Genitore per la loro eterna salvezza. Ti sei dimenticata che io voglio da te l’imitazione della mia vita? Sappi che per imitarmi in tutto ciò che feci nel corso di 33 anni, non solo devi assoggettarti ai miei travagli, alle contraddizioni, pene, dolori e sofferenze di morte, ma ancora devi subirle in quel modo che furono sopportate da me. A questa condizione si chiede da te l’imitazione della mia vita, se lo vuoi; altrimenti, imitarmi a tuo piacere, non è né sarà mai di mio gradimento tutto ciò che potrai fare. L’atto più bello ed a me più gradito è quello fatto incondizionatamente dall’ani­ma, in quanto che si assoggetta in modo da non aver più la sua volontà nell’agire, ma in tutto e per tutto dipende dalla Volontà mia; procura tu, dunque, di fare quest’atto eroico di morire alla tua volontà e di vivere sempre nella mia, affinché io possa trovare in te le più gradite compiacenze. Per ora voglio che ti renda vittima di amore, di riparazione e di espiazione per quelle stesse persone che non solo ti sono contrarie, ma ancora di gran molestia, considerando che essi sono figli miei, redenti col mio proprio sangue, e se tu veramente sentissi amore, dovresti anche assoggettarti a dare tutto per la loro salvezza”.
A questo giusto parlare di Gesù, potevo io opporgli resistenza? Ed è perciò che accettai quello stato di vittima a cui mi voleva. E difatti, sino a sera fui sorpresa da quello stato di sofferenze, da lui comunicatemi, ed in cui vi rimasi per ben tre giorni, senz’affatto riavermi. Riavutami dopo, non s’intese più parlare del colera, tranne che a pochi folleggianti, che dovettero pagare il loro contributo alla morte. Però la maggior parte dei cittadini furono scossi da questo flagello di Dio, tanto che il confessore, quando venne a farmi riavere, scherzevolmente mi si fe’ a dire: “In questi passati giorni, è stato tra noi un grande missionario, il quale ha fatto molto bene nel suo ministero di predicatore; si son viste, infatti, ai nostri piedi prostrarsi certe facce, che forse in vita loro non si erano mai degnate di passare nemmeno davanti ad una chiesa, essendo state sempre restie ad ogni sentimento religioso, mentre alla chiamata di questo eccellente predicatore si sono arresi alla grazia, di[30] cui hanno prodotto[31] frutti di vita eterna”.
A questo, mi feci a domandare dove questi predicasse; ed egli: “Non solo in tutte le chiese, ma ancora fuori di queste, cioè in piazza, nei circoli, nelle botteghe, in casa; insomma, in tutti i luoghi arrivò la sua potente parola, e con tale unzione di grazia che molti si son ridotti a penitenza”.
Ed io: “Come si chiama costui?”. Egli mi rispose: “Porta un bel nome; da tutti si fa appellare Don Coletto, flagello di Dio”, volendo indicare il colera.
Un’altra mortificazione stavami intanto preparando il Signore, la quale venne a colpirmi dopo il suddetto colera, e fu quella di dovermi assoggettare al rapido cambiamento del confessore, che essendo religioso fu chiamato dai suoi superiori alla vita più ristretta del convento; ed io, che ero contenta di lui, giacché sin qui è stato l’unico che non mi abbia dato da soffrire, giacché tutto quel chiasso che di sopra ho accennato fu fatto dagli altri sacerdoti e mentre questi stava in campagna, specie nel tempo che serpeggiava il colera, a dire il vero ne soffrii molto all’annunzio di questa partenza; non già che ci avessi il più piccolo attacco, ma solo perché mi trovavo nella grande necessità di ricorrere a lui, e come[32] più facile a prestarsi alla carità di farmi riavere. Addoloratissima, dunque, feci ricorso al Signore, manifestandogli la mia acerba pena.
E Gesù, al solito tutto dolcezza, mi disse: “Figlia mia, non volerti affliggere per questo; essendo io il padrone dei cuori, posso volgerli e rivolgerli come a me pare e piace. Se egli, come confessore, ti ha fatto del be­ne, non é stato altro che un mio messo che da me riceveva il tutto, e a te lo dava come io disponevo; e così farò per gli altri: li disporrò cioè a venire da te, e darò loro tutte quelle grazie che serviranno all’uopo. Di che, dunque, tu temi? Figlia mia, quante volte ho da ripeterti che sino a tanto che tu avrai occhi per mirare, ora a destra ed ora a sinistra, posando ora su questa ed ora su quest’al­tra cosa il tuo sguardo, non potrai camminare bene e speditamente nella via del cielo? Se non lo fisserai solo in me, andrai sempre zoppicando; l’influsso della mia grazia non si potrà da te eseguire; perciò voglio che con santa indifferenza te ne stia riguardo alle cose che ti circondano, ma sempre però intenta a compiacere me, eseguendo tutto ciò che voglio da te; altrimenti non potrai avere sugli altri la preferenza nello stato di vittima”.
Riflettendo bene sulle parole ascoltate dalle labbra di Gesù, il mio cuore acquistò tale forza che non feci più caso dell’allontanamento del confessore, pur avendo fat­to tanto bene all’anima mia. Iddio m’ispirò, quindi, di assoggettarmi alla direzione di colui che mi confessava[33] quando io ero ancor fanciulla, e di questa scelta non mi sono mai pentita, anzi, spesso spesso ho esclamato verso Dio: “Sii sempre benedetto, o Signore, che mi hai confusa, giacché ti sei servito di ciò che a me compariva contrario e quasi dannoso all’anima mia, mentre tutto considerando è riuscito un fatto meraviglioso per la tua maggior gloria e per il bene dell’anima mia. Sempre così, mio Dio!”.
Ed invero avvenne che a questo ministro di Dio, da lui proposto e da me chiamato, io cominciai ad aprire il mio cuore, che era stato sempre chiuso a tutti gli altri confessori, i quali, per quanti sforzi ed insistenze mi avessero fatte, e per quanto io stessa mi sforzassi ad aprire il mio interno, pur non so dire quale restringimento di cuore sentivo in me, per cui rimandavo di volta in volta [l’aprirmi], sino a questo punto, poiché al solo pensiero di dover dire ad altri cose che passavano fra me e Gesù, provavo in me tale rossore e ritrosia, che era lo stesso come se dovessi dire i più laidi peccati, che per grazia di Dio non conosco, né ho avuto mai sentore. A questo [confessore], invece, in parecchie volte mi aprii in modo da fargli conoscere tutto minutamente, benché senza ordine. Se mi si domandasse la ragione per cui avevo sentita tanta ripugnanza nell’aprirmi prima, per tutta risposta direi: ‘non so dirlo’; se da parte del confessore, credo di no, perché egli era così buono, fiducioso e tanto paziente nel sentirmi, che avrebbe presa cura esattissima dell’anima mia, qualora fossi stata disposta ad aprirmi con lui delle cose che passavano tra me e Gesù; egli era tutt’occhi su di me, affinché camminassi per la via diritta della virtù. Da parte mia, non lo credo nem­meno, poiché sentivo nell’anima sì grave incubo da sen­tirne tutta la volontà di liberarmene, ed ancora l’ansia di sapere come egli la pensasse al riguardo; ma ciò, lo ripeto, mi fu impossibile di farlo. Ritengo, perciò, che la ragione per cui non abbia potuto aprirmi prima di ora, sia stata per sola permissione e Volontà di Dio, per poi obbligarmi a riferire tutto il corso della mia vita all’at­tuale confessore di cui sto parlando. Questi però aveva un’attitudine tutta speciale a saper penetrare non solo nel mio interno, ma quanto[34] piena volontà e pazienza nel sentirmi, per cui, trovando io in lui questa buona disposizione, a poco a poco mi feci coraggio ad aprirgli tutto il mio interno, facendogli leggere come su di un libro, foglio per foglio, anzi parola per parola, tutte le gra­zie che il Signore mi aveva comunicato, tanto più che il mio buon Gesù molte volte s’imponeva a farmi manifestare tutto ciò che mi diceva e succedeva in me; e quando alle volte sentivo gran ripugnanza a manifestare qual­cosa, tosto mi riprendeva vivamente, sino a minacciarmi che si sarebbe ritirato; e perché il dirmi ciò era lo stesso che farmi sentire la pena più atroce, per il timore che mi abbandonasse, ogni difficoltà fu da me superata, facendo in verità molta violenza a me stessa.
Lo stesso dico da parte del confessore, che era sempre intento a domandarmi, ora una cosa ed ora un’altra. A volte, infatti, mi domandava donde avvenisse quel mio assopimento, quale la causa, quali gli effetti; e talvolta, vedendomi restia, mi comandava in precetto di obbedienza, mettendomi innanzi il timore che potessi vi­vere nella più diabolica illusione, mentre dicendo tutto - soggiungeva - “saremo entrambi più sicuri e tranquilli, giacché il Signore non permette mai che un suo ministro, che voglia agire rettamente nella ricerca della verità, si possa ingannare, quando l’anima è obbediente”. Altre volte, poi, sembravami riguardo a ciò, che Gesù ed il confessore se la intendessero fra loro prima che Gesù mi avesse assoggettata a qualche sofferenza, giacché mi accorgevo che il confessore, nel domandarmi, era già a cognizione della verità, per cui dicevo fra me: “È meglio dirla questa cosa anziché tacerla, tanto più che egli già la conosce, e come onninamente è avvenuta in me; ma se la tacessi, chissà che non sarebbe spinto a cambiare il suo metodo di direzione”.
Tutto questo, invece, non avveniva nel confessore degli anni passati, il quale non solo non mi faceva nessuna domanda, ma nemmeno cercava d’indagare la verità riguardo allo stato d’impietrimento che avveniva in me, né se ciò avvenisse per opera di Dio o del demonio, oppure se fosse un fatto tutto naturale, cagionato da infermità corporale. In una parola, niente egli domandava, e niente io dicevo; ma aveva però sollecita ed instancabile cura d’investigare se fossi o no rassegnata alla Volontà di Dio, nel sopportare le croce che il Signore mi aveva mandata; e ne soffriva tanto, quando non mi trovava del tutto paziente a sopportarla. Mentre il secondo confessore che prese la mia direzione, come seppe da me che il Signore, nel farmisi vedere, mi domandava se volevo assoggettarmi a quello stato di vittima, prima di ogni altra cosa m’ingiunse che io dovevo dire a Gesù, prima di accettare lo stato di sofferenza: “Signore, non posso né devo accettare il patire a cui vuoi assoggettarmi, se prima non ho licenza dal confessore. Se vuoi, va prima da lui, e domandagli il suo consenso, affinché non abbia a risentirsi meco”.
Una mattina, quindi, dopo la comunione, mi disse il mio amabile Gesù: “Figlia mia, le iniquità che si commettono dagli uomini sono tali e tante, che la bilancia della mia giustizia ha eccessivamente trasmodato la sua equilibrazione[35]. La preponderanza del male mi fa uscire fuori con l’equiponderanza[36] dei flagelli che verserò su di loro, specie una fierissima guerra, in cui e per cui farò della carne umana strage inaudita. Ah, sì - proseguiva piangendo - ho dato loro i corpi, acciocché fossero tanti santuari in cui potessi spesso spesso deliziarmi, ed invece li hanno cambiati in cloache di marciume, di cui è tanto il fetore, che mi hanno costretto ad allontanarmi totalmente da loro! Ecco, figlia mia, la ricompensa a tanto mio amore ed a tante pene sofferte per loro! Chi mai al mondo è stato sì largo nel beneficare, ed ora nel­l’indugiare tanto alla giusta vendetta? Ah, nessuno è stato simile a me! Qual è intanto la causa di tanto loro pervertimento? Non altro, figlia mia, che il troppo bene che ho sempre nutrito per loro; ma ora proverò a ridurli al loro dovere coi più spietati castighi”.
A questo doloroso parlare di Gesù, il mio cuore si sentì traboccare di amarezza e spezzare ancora per il dolore, nel considerare che un Dio così buono debba essere tanto vilipeso dagli ingrati e malvagi uomini, per cui lo costringevano, per schivarli, a nascondersi nel mio cuore come luogo di rifugio. Eppure, chi può dire ora tutta la pena ed amarezza che sentivo in me nel pensare che questi erano per essere castigati dal flagello della guerra, per cui mi pareva come se io stessa dovessi soffrire? E di più sentivo una gran brama di sopportare io quei castighi, anziché vedere soffrire altri, pene, dolori e morte di guerra. Cercai, quindi, di placarlo con ogni modo di compatimento, per quanto fu in mio potere, e poscia gli soggiunsi:
“O sposo santo, risparmia loro i flagelli che la tua giustizia tiene preparati, e se la molteplicità delle loro iniquità è così grande, come tu dici, v’è ancora il mare immenso del tuo sangue in cui puoi farli tuffare; così essi usciranno purificati e la tua giustizia resterà soddisfatta. Per ora e per sempre, se non hai luogo dove deliziarti, vieni ognora in me, che ti offro tutto il mio cuore affinché trovi in esso riposo e delizia, sebbene, ho purtroppo da aggiungere che ancora il mio cuore è come una sentina di vizi; ma sono disposta, mercé la tua efficacissima grazia, a purificarlo ed a farlo divenire come tu lo vuoi. Deh, mio bene, placati, che se fosse necessario ed utile anche il sacrifizio della mia vita, oh, quanto volentieri lo farei, purché potessi vedere le tue immagini risparmiate dal tuo fiero flagello!”.
Gesù allora, troncandomi la parola, riprese a dirmi: “Figlia diletta del mio cuore, se volentieri ti offri a soffrire, non già come per il passato, cioè ad intervalli di tempo, ma in continuazione, io certo risparmierò gli uo­mini; ma sai come? Ti metterò in mezzo, tra la mia giustizia e le iniquità degli uomini, e quando metterò mano alla mia giustizia col mandare fulmini di flagelli per punire le iniquità di questi, trovandoti tu in mezzo, sarai colpita tu da quelli, e resteranno gli uomini immuni dai colpi della mia giustizia. Se vuoi condiscendere a tanto, sono pronto a risparmiare gli uomini; diversamente non potrai vedermi placato, né io potrò più a lungo astenermi”.
Restai sbigottita e tutta confusa, tanto che la natura fremeva e tremava, ma vedendo che Gesù attendeva da me una risposta affermativa o negativa, gli dissi, quasi costretta a parlare: “O mio divinissimo sposo, da parte mia sarei disposta a qualsiasi sacrifizio, ma come si rimedierà da parte del confessore, se venendo di tanto in tanto m’ingiunge di non dovermi assoggettare al patire senza un previo suo consenso? Sarà, ora, possibile che venga tutti i giorni, se mi assoggetti senza la sua obbedienza? Se, poi, vuoi che mi sottoponga a compiere questo sacrifizio senza della sua obbedienza, sono pure pronta, purché il riavermi dipenda non da lui, ma da te solo, mio sommo bene”.
Allora Gesù, vero sposo di perfettissima obbedienza e che tutto ha sacrificato per il massimo decoro di questa virtù, mi disse: “Non sia mai, figlia mia, che si agisca contro questa mia sposa di sangue; piuttosto portati dal confessore e domandagli la sua obbedienza. Se egli vorrà sentirti, gli dirai per filo e per segno tutto ciò che ti ho detto, ed in più aggiungerai che tutto ciò non sarà soltanto per il bene delle creature attualmente viventi nel peccato, ma ancora per il bene di quelle che sono per venire al mondo, e soprattutto per il tuo massimo bene che ti assoggetti a queste non interrotte sofferenze, quasi mortali, giacché in questo futuro stato a cui stai per sottoporti, mercé l’ubbidienza, ti purificherò in modo tale, che l’anima tua sarà fatta degna di elevarsi a formare meco il mistico sposalizio, e dopo tutto questo farò l’ul­tima tua trasformazione in me, da divenire ambedue insieme come due ceri liquefatti al medesimo fuoco, che trasfusi uno nell’altro diverranno un solo corpo, e così uniti per l’unico pensiero, per l’unico amore e per la stessa opera di riparazione, ci trasformeremo io in te e tu in me, in modo tale da restare tu crocifissa in me, con me e per me… Non saresti tu contenta se potessi tu dire: ‘Gesù, mio sposo, è crocifisso in me, ed io, sua sposa, crocifissa in lui’? Allora sì che potrai dire che non vi è cosa che ti renda dissimile da Gesù”.
Persuasa, quindi, della ragione espostami da Gesù, quando venne il confessore gli manifestai tutto ciò che avevo udito da Gesù, ed ancor quello di volermi fare soffrire senza limiti di tempo, il che, se fu da un canto tenuto da me per vero, dall’altro mi convinsi che le dette sofferenze avrebbero avuto la durata di una quarantina di giorni e non più. Ma purtroppo, da quel giorno sino al momento che scrivo sono passati dodici anni che continuo in questo stato di sofferenze, e chissà quanto la durerò ancora![37]
Ne sia sempre però benedetto il Signore, e siano sempre adorati i suoi inscrutabili giudizi! A me resta a dire che se avessi compreso che avrei dovuto passarme­la continuamente a letto, non mi sarei, forse, sì facilmente assoggettata allo stato di vittima perpetua, giacché la mia natura si sarebbe talmente spaventata che difficilmente avrei avuto il coraggio di sottopormi ad un tanto sacrificio; ed altrettanto posso dire, senza dubbio, del confessore, il quale, se avesse conosciuto il sacrifizio che gli toccava di fare tutte le mattine per farmi riavere, non avrebbe certo accondisceso a farmi stare sino a quel tempo che avesse voluto Iddio.
Posso ancora asserire che sono stata sempre amante di questo mio dolce patire, e sempre più rassegnata, [sia] quando sono stata in continue pene, dolori e sofferenze, che quando ne ero priva. Eppure, quando incominciai a vivere nello stato di vittima perenne, non conoscevo ancora la preziosità della croce, poiché questa mi fu fatta conoscere dal Signore, lungo il corso di questi dodici anni.
Tornando ora al confessore, a cui avevo manifestato quanto l’amabilissimo Gesù voleva da me, mi disse: “Se tutto ciò che mi hai detto è veramente Volontà di Dio, ti sia concessa la santa obbedienza, ché in realtà si può fare da me il sacrifizio di farti riavere ogni mattina; ché se impedimento vi è, lo trovo nel mio rispetto umano, che con la grazia del Signore sarà vinto da me”.
L’anima mia molto si rallegrò allora, pensando che le creature stavano per essere risparmiate dal terribile flagello della guerra, sebbene la natura cominciasse a fremere, e tanto da farmi passare qualche giorno nella più grande tristezza. La mattina seguente, perciò, nel portarmi in chiesa, avendo ricevuto Gesù nel mio cuore, gli dissi: “Dolcissimo Gesù, vedi un po’ in quale mare tempestoso è immersa l’anima mia; invece di essere in tranquilla pace per ringraziarti dei lumi dati al confessore, per cui ha creduto concedermi l’ubbidienza di eseguire quanto tu vuoi da me, tuttavia sono conturbata e molto confusa, prima, per lo stato di sofferenza a cui stai per sottopormi, e poi, e questo è più allarmante per me, è perché dovrò forse stare in quello stato senza più ricevere te, che sei la mia vita. Chi potrà, mio bene, resistere senza di te? Mi darà, forse, altri la forza a resistere, se non mi sarà data da te, che sei tutta la forza, onde possa trovare un ristoro alle mie pene e sofferenze, se non mi sarà dato di avvicinarmi a te in sacramento?”.
Mentre così mi sfogavo con Gesù nel mio cuore, per la pena delle future sue privazioni, mi sciolsi in dirottissimo pianto; e Gesù allora, compatendomi e compassionandomi, affabilmente mi disse: “Figlia mia, non temere; io già conosco la tua debolezza, ed ho preparato novelle e speciali grazie che sosterranno la tua fragilità. Non sono forse io onnipotente in tutto, in modo da poter supplire in tutt’altro modo alla privazione di ricevermi in sacramento? Rassegnati adunque, e mettendoti come morta nelle mie paterne braccia, offriti vittima volontaria per riparare le tante offese che io ricevo continuamente dal genere umano; così potrai farmi risparmiare gli uomini dai meritati flagelli, ché se tu volontariamente farai il sacrifizio di tutta te stessa, dandoti vittima di amore, di espiazione e di riparazione, nelle mie braccia per l’eterna salvezza di tutti, ti prometto che neppure un solo giorno ti farò stare senza venire a visitarti. Se fin ora sei stata tu che sei venuta a me, d’ora innanzi, ti assicuro, sarò io che immancabilmente ogni dì verrò a te a visitarti; queste visite potranno essere brevi; saranno però sempre salutari e di grande consolazione all’anima tua. Sei contenta? E giacché mi è nota la tua adesione alla mia Volontà, sappi che sin da questo momento sei già vittima perenne in stato di minori o maggiori sofferenze, a seconda che io lo voglia e lo richieda la riparazione dovuta alle colpe che si commettono dalle creature”.
Ora, chi può dire le grazie che il Signore incominciò a farmi? Il voler narrare tutto ciò che il mio amante Gesù ha fatto a me sinora, dacché accettai il perenne stato di vittima, mi è proprio impossibile, specie se si volesse singolarmente e distintamente conoscere [dette grazie]. Dirò solo per ora, succintamente, quelle che più hanno fatto breccia sul mio cuore; e poi successivamente, come mi sarà dato ricordare, contenterò la santa obbedienza, che senza pietà mi ha imposto di narrare le più intime grazie, che per mia grande vergogna stento tanto a rivelare. E prima di ogni altra cosa dirò, circa l’anzidetta promessa fattami da Gesù, che essa è stata sempre inappuntabile, poiché dal principio sino a questo momento [non è venuta meno], e credo che lo sarà, senza dubbio, sino alla fine.
Ricordo bene che sin dal primo giorno in cui mi confisse nel letto, amorosamente mi diceva: “Diletta del mio cuore, io ti ho voluto mettere in questo stato affinché potessi più liberamente venire teco a conversare. Dapprima, infatti, ti liberai dal mondo esterno e poi da ogni occasione di trattare con le creature; indi purificai il tuo interno in modo che né più pensiero né più affetto di terra restò in te, ed in luogo di quelli vi misi pensieri ed affetti tutti celesti, traboccanti di amore verso di me; ed ora che ogni cosa ti è diventata estranea ed io teco tutto famigliare, voglio immedesimarmiti in modo che non solo l’anima, ma anche il corpo, possano stare a mia disposizione, e rendere l’uno e l’altra perpetuo olocausto innanzi a me. Se non ti avessi confinata in questo letticciuolo, non avresti potuto avere il bene di essere così spesso visitata da me, giacché avresti dovuto prima disimpegnare i doveri di famiglia, con grande tuo sacrifizio, e poi ritirarti nell’oratorio del tuo cuore ad attendere una mia fuggitiva visita. Adesso, non più; siamo rimasti soli, e non vi è chi possa ostacolare la nostra conversazione ed ancora le vicendevoli comunicazioni dei nostri dolori e delle nostre pene, ed a mia somiglianza potrai partecipare a quanto di gioia e contento mi viene dai pochi buoni, ed a quanto di amarezze, dolori ed affanni, mi viene dai malvagi. D’ora innanzi le mie consolazioni saranno tue, e le tue saranno mie; così pure le mie afflizioni e le tue saranno comunicate vicendevolmente, ed accomunate in modo tale da far totalmente scomparire quel ‘tuo’ e quel ‘mio’, ma il ‘tuo’ ed il ‘mio’, sarà appellato ‘nostro’. Insomma, tu prenderai interesse delle cose mie come se fossero veramente tue, ed io, a pari, delle tue che, certo, sono ancor mie, tranne che le tue imperfezioni.
Sai tu come ho fatto io e come mi comporterò teco? Al par di un re che di fresco si sia sposato ad una nobile regina, il quale, bramando starle sempre vicino, se per poco è obbligato ad allontanarsene, la sua mente ed il suo cuore sono in continuo movimento per lei, per cui cerca di sbrigare al più presto possibile ogni sua faccenda per far presto ritorno a lei; ritornato, è tutt’occhi su di lei, per scorgere se qualche ombra di amarezza vi fosse in lei; e se vuole parlarle, la fa ritirare dalle persone che la circondano, la prende seco, la conduce nelle sue stanze, vi chiude le porte e vi mette fuori [una] persona di sua massima fiducia per far loro la guardia, affinché nessuno ardisca interrompere la loro conversazione, oppure ascoltare i loro segreti colloqui. Stando così soli, tutto si comunicano tra loro, e se qualcuno imprudentemente volesse loro togliere la pace e recare qualche disturbo, sarebbe immediatamente allontanato dal re come disturbatore della sua gioia, e quindi severamente punito. Così ho agito teco, mettendoti in questo stato; guai perciò a chi volesse distoglierti dal medesimo, ché non solo mi dispiacerebbe, ma sarebbe ancora da me punito. E tu di ciò ne sei contenta?”.
Se alle tante grazie che il mio diletto Gesù mi ha elargito sinora non volessi corrispondergli col più grato amore, meriterei di essere appellata col nome più abbietto ad ogni razza umana; e dal cielo e dalla terra mostrata a dito alle future generazioni come l’anima più ingrata che sia esistita sinora, e come la più sciagurata fra tutti i reprobi, se non assecondassi in tutto e per tutto il suo Santissimo Volere. Ed invero, che non si direbbe d’un povero straccione che rifiutasse ad un ricchissimo signore di mettere in massa comune gli immensi suoi beni coi pochi e luridi cenci di quello, all’unico scopo di volerlo rendere padrone al par di lui, rispettando la semplice condizione di prendere conveniente cura d’interes­sarsi di tutto come di cosa sua propria? Diverrebbe egli, così, la favola della città, e degna di essere tramandata ai posteri, i quali, pur raccontandola, non la crederebbero vera. Così, appunto, ha fatto meco Gesù: ha messo in massa comune tutti gli infiniti suoi beni con le mie imperfezioni, e mi ha resa padrona del suo, ed egli padrone del mio nulla, a patto però che io avessi cura del suo, che elargisce gratuitamente, mentre egli, a costo d’im­mensi sacrifizi, ha comprato da me… Cosa mai? Ho vergogna a dirlo: non solo il mio nulla, ma le stesse imperfezioni, che vuol ridurre a perfezione. Oh, quanto non gli sono obbligata! Egli, che non si è stancato mai, né si stanca, né si stancherà mai di ripetermi ogniqualvolta mi ritrova dissimile da lui: “Io voglio da te perfetta conformità alla mia Volontà, in modo che la tua volontà venga a disfarsi totalmente nella mia”.
E di più, quante volte notava in me il benché minimo attacco a cose indifferenti, dolcemente mi pressava a distaccarmi dicendomi: “Figlia mia, bramo da te un distacco assoluto da ogni cosa che non sia mia; ossia tutto ciò che sa di terra, voglio che sia tenuto da te come sterco e marciume, che ti sia orrido anche a guardarlo, perché le terrene cose, fin quando che non sono di assoluta necessità, solo a tenerle d’intorno e guardarle con compiacenza ne agghiacciano il cuore, e adombrando le cose celesti impediscono che abbia luogo quel mistico sposalizio che da un pezzo ho promesso di voler fare con te. Sappi che io nulla apprezzai delle cose di quaggiù, tranne quelle puramente necessarie; perciò mi assoggettai alla nuda povertà, che pure voglio far seguire da te, disprezzando tutto ciò che non ti sia necessario… In questo letticciuolo, con l’imitarmi nella povertà, devi considerarti più che una vera poverella, e così solo potrai dirti effettivamente povera; mai entri in te la brama di acquistare, perché voglio che in te ci sia la vera povertà affettiva, con cui nulla brami, nulla prenda se non ti fosse puramente necessario, e di questo, ancora, ringrazia prima me e poi i tuoi largitori. Voglio perciò che d’ora innanzi te ne stia a quello che ti viene dato, senza altro domandare, perché potrebbe esserti d’impiccio alla mente, desiderando quella cosa che non ti venisse data; ma con santa indifferenza rimettiti alla volontà altrui, senza pensare se ti venisse bene o male”.
E ciò, in pratica, a dir vero, mi costò da principio il più grande sacrifizio, ma subito mi avvidi che senza pensare a questa o a quella cosa e senza nulla chiedere, mi veniva data, quando ne avevo veramente bisogno.
Superata intanto questa difficoltà, il Signore volle sottopormi ad un’altra prova più penosa, che è la seguente: per le continue sofferenze che mi venivano direttamente comunicate da Gesù, io ebbi a soffrire continui conati di vomito ogniqualvolta prendevo cibo; ora, in questo stato, mentre mi veniva dato dalla famiglia qualcosa di cibo, e che immediatamente rigettavo, mi sentivo talmente illanguidire lo stomaco da non potersi dire; ma ricordandomi quanto Gesù mi aveva detto: “Statti a quello che ti viene dato”, non ardivo chiedere altro, tanto [più] che sentivo in me tale vergogna come se la famiglia dovesse rimproverarmi col dirmi: “Come, hai ora appena vomitato, e vuoi già di nuovo mangiare?”.
Per questo dicevo tra me: “Nulla chiederò se prima non me lo porteranno da loro stessi, altrimenti il Signore ci penserà”.
E così me la passavo, contenta di poter soffrire qualche cosa per amor di Gesù, offrendo tutto in riparazione di quante offese si commettono con le golosità. Il confessore, poi, non so perché, sentendo che venivo presa da conati di vomito, m’ingiunse di prendere tutti i giorni il chinino, il quale mi stuzzicava maggiormente l’appetito, ma non potendo prendere alcun cibo senza che mi venisse dato, io mi sentivo straziare lo stomaco, in modo tale da sentirmi in stato di morte senza mai morire; e tutto questo mi durò per circa quattro mesi, fino a quando il mio diletto Gesù m’ingiunse: “Dirai al confessore che non ti faccia prendere né cibo né chinino ogniqualvolta tu rimetti, che egli, illuminato da luce superna, ti accorderà di [non] prendere né l’uno né l’altro”.
E così avvenne, poiché il confessore mi accordò di [non] prendere più nulla; ma poi, per non farmi parere singolare, mi disse: “D’ora innanzi voglio che prenda il cibo una sola volta al giorno”. Così facendo, restai più tranquilla; mi passò la fame, ma non il vomito, che sempre, ogniqualvolta prendo il cibo, sono costretta tut­tora a rimetterlo dopo un po’ di tempo[38]. Più volte però il mio diletto Gesù mi ha ripetutamente detto: “Di’ al confessore che ti dia l’ubbidienza di non più mangiare”; ma per quanto glielo abbia detto, mi si è sempre rifiutato, dicendomi: “Fa conto che il mangiare ti sia dato a scopo di poter fare uno o più atti di mortificazione al giorno, sempre in riparazione delle tante offese che il Signore riceve per la golosità degli uomini”.
Ma non passarono che pochi giorni, ed ecco che il Signore tornò a ripetermi: “Voglio che affacci di nuovo al confessore la domanda perché ti astenga dal prendere qualsiasi cibo, ma fallo con santa indifferenza, disposta cioè a fare ciò che la santa obbedienza vorrà o no accordarti”.
Obbediente alla voce del mio Gesù, subito che venne il confessore gli manifestai il tutto, ma, non so perché, non solo mi venne questo negato, ma [ancora] m’ingiunse il divieto di dover stare in tali sofferenze, come se questo dipendesse da me. Ma se non sbaglio, credo che il confessore, ricordandosi che io gli avevo detto che il Signore mi chiamava allo stato di vittima per un tempo indeterminato, che da me fu tenuto per una quarantina di giorni circa, la ripetuta domanda di astenermi dal mangiare dovette far sì che giudicasse non essere verità né il mio stato di sofferenze in cui il Signore mi pose, né l’ultima proposta di non dover più mangiare, come voleva il mio amante Gesù; oppure il confessore, per ragioni a me ignote, venne a questa risoluzione, di non dover più stare[39] in questo stato di vittima, aggiungendo che, se fossi ricaduta in quello stato di sofferenze, non sarebbe più venuto per farmi riavere. Dico la verità, che io, a questo parlare del confessore, mi sentivo dispostissima a fare la santa ubbidienza, tanto più che la natura richiedeva il diritto di essere sgravata dal peso di tanti dolori e sofferenze mortali, in cui spesso ricadevo, e che naturalmente non si può agognare né sopportare senza uno speciale aiuto divino. E poi, quel dovermi assoggettare a tutto, ed anche per quelle cose più ripugnanti, ma pur necessarie alla natura, è un vero sacrifizio, che se non si facesse per Volontà di Dio - a lui devo il ricambio dell’amore immenso che ha profuso in gran copia - certo che anche i più grandi santi avrebbero recalcitrato. Io dunque, da parte mia, provai una certa consolazione, e mi disponevo a fare in tutto la santa ubbidienza, ma ero anche pronta e disposta a stare confinata nel mio letticciuolo, qualora il Signore avesse voluto tenermi in questo stato di vittima, giacché sperimentavo la bontà del suo Volere, che mi procurava quella vera rassegnazione ed uniformità alla sua Santa Volontà, che sa far cambiare la natura alle cose, e fin l’amaro, che lo converte in dolce.
Accettata dunque di buon animo l’ubbidienza di non voler più stare a letto in stato di vittima, incominciai a far resistenza al mio sempre amabile Gesù, allorché si fece vedere per comunicarmi le sue pene, dicendogli: “Amato mio bene, il mio rifiuto al patire non devi averlo a male; che vuoi da me? È l’ubbidienza che me lo vieta, e quindi non posso più assoggettarmi; se poi tu vuoi che io faccia la tua Volontà, illumina il confessore, affinché si disponga a concedermi quanto tu vuoi, altrimenti farò la sua espressa volontà, opponendomi con ostile ostinatezza alla tua Volontà, anzi crederò che non sei l’ama­bile Gesù”. Ebbene, il Signore volle mettermi alla più cruda prova, giacché mi fece passare tutta una nottata in contrasto con lui, perché ci fu un continuo via vai a scopo di sorprendermi all’improvviso, ma stetti sulla mia per l’intera notte, e quando egli veniva, subito gli dicevo: “Amor mio, abbi pazienza; ci vuole l’ubbidienza del confessore perché tu possa comunicarmi le tue sofferenze, e quindi non obbligarmi a far aderire la mia alla tua Volontà; potrai ridurmi all’annientamento di me stessa, comunicarmi le tue pene, tutti i dolori e sofferenze che vuoi, ma mai col consenso della mia volontà, giacché questa non si piegherà alla tua, senza l’ubbidienza”.
E così in questo contrasto la durai sino alla mattina, in cui mi sentivo perfettamente libera d’ogni sofferenza, credendo che il Signore me l’avesse già data per vinta la prova; ma non fu così, giacché in un istante, mentre ero immune d’ogni sofferenza, il mio diletto Gesù mi attirò talmente a sé che, perdendo [io] i sensi, non potetti più oltre fargli resistenza, poiché mi trovai sì stretta a lui che, per quante opposizioni avessi potuto fargli, non avrebbero potuto menomamente distaccarmi da lui, essendo io il nulla, e quindi vana sarebbe riuscita ogni lotta e resistenza con colui che è il forte dei forti e l’onnipotente. Stando poi così stretta con Gesù, sentivo in me tale rossore per le tante ripulse fattegli, che mi sentivo tutta annichilire, e perciò con vergogna gli dissi: “Perdonami, sposo santo, se ti ho fatto tanta resistenza, la quale non sarebbe avvenuta se l’ubbidienza non me l’avesse ingiunta”.
E Gesù, molto affabilmente, mi disse: “Figlia diletta del mio amore, non temere che io me l’abbia per tua offesa[40], né mi offendo per parte del confessore che ti ha dato questa ubbidienza, giacché chi con delicatezza di coscienza esercita il suo ministero, deve usare ogni arte e prova per mettersi al sicuro della morale responsabilità che dai buoni e dai cattivi ancora si richiede. Torna quindi in calma, e vivi sempre abbandonata in me. Vieni meco; oggi è capodanno[41]; vieni, che voglio darti la strenna”. Egli, quindi, si avvicinò tanto a me, che mi trasse tutta a sé, e appressando le sue labbra alle mie mi versò un liquido, dolcissimo più che latte, e baciandomi e ribaciandomi affettuosamente trasse dal suo cuore un anello, dicendomi: “Ammira bene e contempla questo anello che ti ho preparato per quando farò teco le mie nozze, poiché ti sposerò in mia fede. Per ora t’ingiungo di continuare a vivere nello stato di vittima, e voglio che dica al confessore che è mia Volontà che tu continui a vivere in questo stato di sofferenze; e per segno evidente che sono io che ti parlo, sappi che la guerra, incagliata[42], tra l’Italia e l’Africa, continuerà ancora, fino a quando non ti darà egli l’ubbidienza di mantenerti nello stato di vittima, per il quale non solo non la farò continuare, ma ancora, quanto prima avverrà la pacificazione d’ambo le parti”.
Dopo che Gesù così mi parlò, da me scomparve, lasciandomi come rivestita da una veste di sofferenze, le quali mi penetravano fin nelle midolla delle ossa, tanto che non potetti più riavermi da quello stato quasi mortale, senza l’intervento del confessore, per cui la famiglia, vedendomi in quello stato, procurò di mandare per esso[43], mentre io, così penante, pensavo a ciò che avrebbe detto il confessore, nel trovarmi contro il suo divieto in stato di maggiori sofferenze; ma che fare? Certo che non era in mio potere il riavermi, giacché quel liquore latteo versatomi da Gesù mi procurava tale amore verso di lui, che mi sentivo languire di amore e di dolore insieme, e di più, tanta sazietà e dolcezza, che dopo che il confessore mi fece riavere, mi obbligò a prendere un po’ di cibo apprestatomi dalla famiglia, il quale non poteva assolutamente scendere giù nello stomaco, e ci volle perciò l’imposizione della santa ubbidienza per farmelo ingoiare; ma poi, subito, fui costretta a rimettere, mescolato ancora al dolcissimo liquore versatomi da Gesù. Ma in quest’atto, però, sentii nel mio interno Gesù, che quasi scherzando mi diceva: “Forse non ti è bastato ciò che ti ho versato, non ti sei di quello soddisfatta?”. Ed io, tutta piena di rossore e vergogna, gli dissi: “Che vuoi da me, o mio buon Gesù, se è stata l’obbedienza che mi ha obbligata a cibarmi, il che mi ha fatto poi versare anche il tuo, che era sì dolce e delizioso?”.
Dopo di che, il confessore, senza farmi alcuna interrogazione sull’accaduto, si sottrasse da me dicendomi: “Verrò non appena avrò un po’ di tempo libero”. Ed io, che non solo sono stata indifferente, ma ancora, molto restia all’ingerenza del sacerdote nei fatti che passano tra me e il mio Dio, mi feci subito a ringraziare il mio sempre amabile Gesù, che aveva permesso di non farmi domandare nulla, senza sapere ciò che mi stava preparato il giorno seguente, in cui tornando il confessore con insolito cipiglio, e senza prima interrogarmi, cominciò tosto ad inquietarsi meco ed a chiamarmi anima disobbediente, e soggiunse: “Il fatto tuo di cadere in mortale deliquio è da ritenersi, come lo è, pura malattia e non fenomeno soprannaturale; se fosse cosa di Dio, non avrebbe certo fatto mancare all’obbedienza, giacché egli ci tiene tanto a questa bella virtù, che nulla vuole si faccia senza l’obbedienza. Ed ora, invece del confessore, chiamerai i medici, i quali penseranno, a mezzo della loro scienza, a liberarti da questo stato nervoso”.
Allorché diede egli fine alla sua ramanzina, io mi feci bellamente a narrargli tutto l’accaduto e ciò che il Signore mi aveva ingiunto di dirgli. A questo, il confessore si ricredette e mi assicurò che non era da mettersi in dubbio quanto gli avevo detto in nome di Gesù, giacché la guerra incagliata tra l’Italia e l’Africa era più che vera; perciò soggiunse: “In quanto, poi, all’accennata loro pacificazione, se come tu dici, rendendoti vittima, sarà fra breve, se è da Dio non posso metterla in dubbio, ma se fosse da altri… staremo a vedere”.
Sì dicendo, mi accordò l’ubbidienza di assoggettarmi all’espresso Volere del mio buon Gesù, ripetendomi: “Staremo ora a vedere se non andrà più avanti questa guerra, e se subito si pacificheranno tra loro”.
Dopo quattro mesi, il confessore attinse dai giornali notizie precise circa la suddetta pacificazione, preannunziatami da Gesù, e venendo a me, mi disse: “Senza alcun danno d’ambo le parti, si è terminata la guerra che pendeva tra l’Italia e l’Africa, pacificandosi del tutto tra loro”.
Per questo fatto, preannunziato prima ed avverato poi, fece sì che il confessore restasse convinto dell’in­tervento dell’Alto, e mi lasciò nella mia pace, che non si può avere quando si fa resistenza al Volere di Dio.
Il mio buon Gesù intanto d’allora in poi non fece altro che predispormi a quel mistico sposalizio già promessomi, col visitarmi più spesso, e quando tre, quando quattro e più volte al giorno, a seconda che gli piaceva; e talvolta faceva, anzi, un continuo andare e venire. A me pareva che facesse come un innamorato che non sappia stare senza pensare, senza amare né visitare spes­so spesso la sua sposa, tanto che giungeva ad aprirsi meco, dicendomi: “Vedi, ti amo tanto che non so stare senza venire a te; mi sento quasi irrequieto senza vederti e parlarti da vicino e svelatamente, pensando che tu sei sola e stai per amor mio a soffrire tanto; sono perciò venuto a vedere se hai bisogno di qualche cosa”.
E sì dicendo mi sollevava egli stesso la testa, mi aggiustava il guanciale, mi cingeva il collo col suo braccio, ed abbracciandomi mi baciava e ribaciava più volte; e trovandoci allora in estate, per sollevarmi dal troppo caldo, emanava dalla sua soavissima bocca un alito che tutta mi ristorava, oppure agitava qualche cosa [che sembrava] che tenesse in mano, e qualche volta anche un lembo del lenzuolo che mi copriva, perché mi rinfrescassi, e poi subito mi domandava: “Come ti senti, ora? Certo che ti sentirai meglio, non è vero?”.
Ed in risposta gli dicevo: “Tu lo sai, mio diletto Gesù, che in qualunque modo tu stia meco, sto sempre bene”. Quando poi, nel venire, mi trovava prostrata di forze per le continue sofferenze, specie quando il confessore veniva verso sera, mi si avvicinava, e dalla sua bocca versava nella mia un liquido latteo, oppure facevami attaccarmi al suo sacratissimo costato, da cui mi faceva succhiare torrenti di dolcezza e di forza, le quali mi facevano poi pregustare delizie di paradiso. Vedendomi poi in questo stato di somma delizia, mi diceva con tutta la sua ineffabile bontà: “Voglio essere proprio io il tuo tutto, rendendomi salutare nutrimento non solo della tua anima, ma del tuo corpo ancora”.
Chi può dire veramente tutto ciò che io sperimentai di celestiale amore, dopo tante insolite grazie di paradiso? Se io dovessi dire tutto, come il dolcissimo Gesù me le abbia comunicate, non solo mi renderei seccante, ma vi andrei troppo per le lunghe, per cui non avrei il tempo di poterle dire, né il confessore di poterle sentire tutte. Mi limito, perciò, a dire in succinto quel tanto che basti a far conoscere superficialmente lo stato di un’anima che stia nel pieno possesso di Dio, facendosi strada nella Volontà del suo diletto Gesù, sposo deliziosissimo dell’anima. Spontaneamente, quindi, mi viene di esclamare con tutta la veemenza del cuore, e dire al mio Gesù: “Oh, quanto mi sono state gradite e soavemente deliziose le comunicazioni di spirito di Gesù!”. Mentre altre volte, con dolore, ho pure esclamato: “Oh, quanto sono amare e spasimanti le pene, dolori e sofferenze versatemi dal mio dolente ed amareggiato Gesù!”. Ma se queste [le une e le altre] non andassero in concomitanza tra loro, l’anima, resa veramente vittima di amore, di espiazione e di riparazione, non potrebbe sì a lungo durarla in vita, ma disfacendosi il suo corpo, lo spirito andrebbe ben presto a ricongiungersi a quello del suo Dio.
Dopo aver, perciò, provato tante dolcezze ed amarezze insieme, ne seguiva il mio giusto e pietoso lamen­to, quando pareva che si allontanasse da me; e quando, alle volte, mi si nascondeva per qualche ora, trovandomi io in sofferenze mortali, sembravami come se non l’avessi visto da cento anni almeno, e perciò mi lamentavo dicendogli: “Deh, o sposo santo, come mai ti fai da me tanto aspettare? Non vedi che io non posso resistere senza di te? Deh, vieni a sollevarmi almeno con la tua presenza, che mi è luce, mi è forza, mi è tutto!”. Altre volte, poi, sentivo tanta pena per la privazione di poche ore del mio Gesù, che mi sembrava come se da anni ed anni non si fosse fatto vedere, e perciò nella mia pena mi scioglievo in amarissime lacrime.
Ed egli, allora, mi si faceva vedere, mi compativa, mi asciugava le lacrime, mi abbracciava e baciava, dicendomi: “Non voglio che tu pianga. Vedi, adesso sono teco: dimmi, che vuoi?”.
Ed io a lui: “Non bramo altro che te; ed allora cesserò dal piangere, quando mi avrai promesso di non farti da me tanto e poi tanto attendere. Tu lo sai, o mio buon Gesù, quanto mi è penosa la tua aspettazione, quando io ti chiamo e tu non vieni presto a sollevarmi, a fortificarmi e ad incoraggiarmi con la tua dolce presenza”. E Gesù: “Sì, sì, ti contenterò”; e subito disparve.
Un altro giorno, mentre ero tornata a lamentarmi ed a pregarlo che non si fosse fatto tanto aspettare, vedendo che non cessavo dal piangere, mi disse: “Ora voglio, in verità, contentarti in tutto; mi sento tanto portato verso di te, che non posso fare a meno di secondare il tuo volere. Se finora ti ho tolta la vita esteriore e mi sono a te manifestato, ora voglio tirare appresso a me l’anima tua, e così potrai seguirmi più da vicino, godermi e stringerti più intimamente a me, e [potrò] manifestarti tutto ciò che non è stato fatto teco per l’addietro”.
Passati tre mesi circa, dacché mi resi vittima perenne, restando nel mio letto perché [mi fossero] comunicate da Gesù le sue pene e dolori in concomitanza delle sue dolcezze, venne egli una mattina, in aspetto tutto amabile e da graziosissimo giovane, sull’età di diciotto anni all’incirca… Oh, quanto era egli bello, con quella sua chioma dorata e tutta inanellata, che scendeva lateralmente dalla fronte e pareva che inanellasse ed intrecciasse assieme i pensieri della sua mente con gli affetti del suo cuore!
Aveva fronte serena e spaziosa, in cui si rimirava come attraverso d’un tersissimo cristallo l’interno della sua mente, in cui si spaziava e signoreggiava l’infinita sua sapienza nel suo imperturbabile ordine di celestiale pace; in vista di ciò, oh, come si rasserenò la mia mente e come si tranquillizzò il mio cuore, al cospetto del mio graziosissimo Gesù, tanto che le mie passioni vennero a rendersi così represse da non farmi sentire più la minima loro molestia. Ah, sì, se solo al vedere Gesù così bello è tanta l’infusione di pace che si comunica all’anima, che sarà mai vedere e possedere la sua divinità? Credo che non si possa vedere Gesù così bello se l’anima non stia nella più perfetta calma, nella più profonda umiltà e nel più ardente amore di lui, tanto che al minimo alito di turbamento Gesù si ritira dall’anima. Invece poi, quando l’anima nel suo interno prova una pace e calma imperturbabile, ad onta che intorno a sé vi è ogni disastro e la guerra più fiera, Gesù così bello non è solo in vista di lei, per farla continuare sempre imperturbata, ma ancora cerca in lei il suo dolce riposo, che non gli viene dato da altri già conturbati.
Io, quindi, in quell’aspetto lo miravo e rimiravo, e non mi saziavo mai di rimirarlo e di esclamare: “Oh, quanto son belli i suoi occhi purissimi, scintillanti di luce ancor più pura, ma non come quella del nostro astro solare, che se lo si volesse fissare offenderebbe la nostra vista!”.
Quella del mio Gesù, no; mentre è più che luce del sole, si può fissare benissimo lo sguardo, senza che vengano ad indebolirsi le pupille dei nostri occhi al mirare quello splendore, anzi si sentono più fortificate. Se lo sguardo si affissa a guardare la pupilla degli occhi di Gesù, di un colore celeste scuro, non si sa più distaccare dal mirare un tanto misterioso prodigio di bellezza, che un solo sguardo di Gesù basta a farmi uscire fuori di me stessa e farmi correre dietro di lui, battendo ogni via, per valli, piani e monti, sia attraverso i cieli, che internandomi nei più cupi abissi della terra; anzi, basta una sola occhiata di Gesù per trasformarmi in lui e farmi sentire in me stessa un non so che di divino, che tante volte mi ha fatto esclamare:
“O mio bellissimo Gesù, o mio tutto, se soltanto per pochi minuti in cui ti fai così vedere da me, comunichi all’anima mia tanta pace, per cui si possono soffrire torrenti e mari di pene, di dolori, di martìri e sofferenze le più umilianti, con la più perfetta tranquillità di spirito, che è sempre in un misto di pace e di dolori, che sarà in paradiso godere la tua beatifica visione, senza miscela di dolori?”.
Chi può dire, poi, quale e quanta è la bellezza del suo volto adorabile? La sua carnagione è pari alla neve, tinta leggermente di un color di rose le più belle. Nelle sue guance porporine si scorge la grandezza della sua persona in aspetto maestosissimo, del tutto divino, che nel contempo incute timore e riverenza, ed insieme vi dà tanta confidenza che, messa a paragone di quella che si potrebbe trovare nelle umane creature, vi sarebbe quella differenza che passa tra il nero ed il bianco, o tra le cose più amare e le più dolci di quaggiù; ossia, qualsiasi altra confidenza di creatura è un’ombra sola di quella confidenza che s’infonde da Gesù in me… Ah, sì, la confidenza di Gesù verso l’anima si affaccia sul suo volto santo, che mentre è così maestoso, è pure tanto amabile, in modo che questa sua amabilità vi attira tanto che l’anima non ha alcun dubbio di non essere ben accetta a Gesù, che non sdegna mai la sua creatura per quanto brutta e peccatrice sia, se nell’accesa fiamma dell’amore ritorna nelle sue braccia. Che dirò, poi, dei lineamenti del naso, della bocca e labbra di Gesù? Graziosissimo è il naso, che scende finissimo dalle bionde sue sopracciglia, e leggermente si allarga in punta proporzionata al sacratissimo volto. La sua bocca, poiché piccola ed atteggiata a dolcissimo sorriso, con le sue labbra finissime d’un colore scarlatto, è soave e graziosissima, e mentre si apre per parlare sembra che contenga qualche cosa di preziosità, che mente umana non può esprimere a parola, giacché la comprende superiore a qualsiasi immaginabile detto di quaggiù. Solo dalla voce si arguisce quel­la dolcezza e soavità di paradiso, che è una profusione armoniosa e sì celestiale da rapire il cuore più restio alla voce della grazia. Ah, sì, la voce del mio diletto è sì soa­vemente penetrante, che innamora toccando ogni fibra del cuore, in cui si producono, in meno che si dica, i più vivi e caldi affetti, tanto che l’anima resta di primo tratto come rapita. Ma chi può dir tutto? È tanto piacevole la sua voce, che i piaceri tutti della terra, a confronto di una sola parola articolata del mio Gesù, sono meno che niente; solo è da dirsi che, presi tutti insieme, non sono altro che misera parvenza, in confronto della dolce voce di Gesù. Questa è ancora potentissima nell’operare le più grandi meraviglie; nello stesso atto che parla, produce all’anima l’effetto che vuole in essa.
Ah, sì, è bella la bocca di Gesù, ma sovranamente bella nell’atto di parlare, in cui si vedono quei denti così nitidi e ben aggiustati, che ti procurano la più grande ammirazione, e ti manda un alito di amore così palpitante che incendia, saetta e consuma, nel cuore di chi ascolta la sua voce, ogni affetto che non sappia di cielo. Più belle sono le sue soffici mani, bianche e delicatissime, aventi le dita così terse e diafane che, toccando ogni cosa, le muove con tale maestria che è un vero incanto… Oh, quanto sei bello e tutto bello, o mio grazioso e dolce Gesù! Perdonami se ho ardito parlare della tua bellezza così malamente, ché quanto ho detto, messo a paragone della tua vera bellezza, è un puro niente di quel bello tutto tuo.
Veramente, ho ritrattato[44] con tanti miei spropositi quella bellezza, di cui non son degni né capaci di parlare adeguatamente nemmeno gli angeli tuoi; ma che vuoi? È stata la santa obbedienza che me l’ha ingiunto. Ho fatto alla men peggio per contentarla; se a te non è riuscito gradito, non solo perdonami, ma fai in modo che sia dall’ubbidienza quanto prima bruciato, perché non si addicono alla tanta tua bellezza questi miei spropositi e sconciature.
Se non ci fosse stato un severo precetto di obbedienza, dico francamente che giammai mi sarei indotta a continuare l’attuale umiliazione di mettere su carta le strane scene della mia vita, le quali si fanno di giorno in giorno sempre più insolite e quasi, come ad altri sembreranno, affatto bizzarre. Ciò nondimeno, non potendo fare diversamente, mi accingo a dire che il mio diletto Gesù, dopo che si fece vedere, ed in certo qual modo contemplare in quell’aspetto poco anzi descritto così malamente da me, emanò dalla sua bocca un alito soavissimo e di olezzante fragranza di paradiso, che m’in­vestì tutta, sia l’anima che il corpo, ed in virtù di quel­l’alito mi trasse dietro di sé, ed in meno che si dica fece uscire fuori l’anima mia da ogni parte del corpo, dandomi un corpo semplicissimo, tutto risplendente di purissima luce, ed appresso a lui presi il suo rapidissimo volo, girando la grande vastità dei cieli. Ora, essendo la prima volta che mi succedeva questo meraviglioso fenomeno, mentre l’anima usciva dal corpo, incominciai ad esclamare: “Adesso sì che è venuto il Signore a pren­dermi, per cui, certamente, ora muoio!”.
Quando mi vidi fuori del corpo, l’anima mia provava la medesima sensazione di quando era ancora nel corpo, con questa differenza, che il corpo unito all’ani­ma percepisce ogni sensazione per mezzo dei sensi, ed il tatto rimette [le sue percezioni] alla capacità delle po­tenze dell’anima, mentre in questo caso l’anima prende da sé ogni sensazione e comprende all’istante tutto ciò che attraversa e penetra, fosse anche la più astrusa ed impercettibile cosa, e questa, sia che stesse lontana o da vicino, sempre però che lo voglia Iddio. La prima cosa che sentì l’anima mia nell’uscire dal corpo, fu un certo timore e tremore nel seguire il volo del mio diletto Gesù, che continuava a tirarmi dietro a quel suo alito di paradiso mentre mi diceva: “Se tanta pena hai tu provato stando qualche ora nella privazione della mia visuale presenza, adesso vola e vieni meco, ché voglio sempre consolarti ed inebriarti del mio amore”.
Oh, quanto fu bello arieggiarsi l’anima al modo di Gesù lungo la volta dei cieli! Mi sembrava come se pog­giassi a Gesù, e che Gesù mi sostenesse a fine di non farmi precipitare e per tenermi sempre dietro di lui, che, sebbene mi precedesse, pur nondimeno era stretto meco, in modo che io lo seguivo poggiata a lui ed egli a me, mentre col suo dolce alito mi sosteneva e tirava dietro di sé. In breve dico che in me c’è tutta la rappresentazione visibile dell’accaduto, ma non vi è l’espressione per ma­nifestarla. Dopo aver girato l’immensità dei cieli, il mio diletto Gesù, che trova le sue delizie nella compagnia degli uomini, fece sì che mi trovassi in sua compagnia in certi luoghi in cui l’iniquità degli uomini più inondava di nefandezze. Oh, quanto si cambiò allora l’aspetto dolcissimo del mio diletto Gesù! Oh, quanta pena non entrò velenosamente ad amareggiare il suo sensibilissimo cuore! Io allora lo vidi con più chiarezza delle altre volte soffrire indicibili sofferenze; vidi il suo adorabile cuore ansare come quello d’un moribondo che muore di spavento, e poi quasi svenuto; e nel vederlo ridotto in quel sì miserabile stato, gli dissi: “Mio adorabile Gesù, quanto ti sei cambiato! Tu mi dai la figura d’un moribondo; appoggiati a me, fammi partecipe delle tue acerbissime pene; il mio cuore più non regge a vederti solo e tanto soffrire”.
Allora Gesù, quasi riprendendo il respiro, mi disse: “Ah, sì, diletta mia, a te sta l’aiutarmi, ché non ne posso più”. E così dicendo mi trasse più intimamente a sé, e versò dalle sue labbra nella mia bocca un’amarezza tale da procurarmi pene del tutto mortali, e tanto da sentirmi come se tanti coltelli, punture di lancia, frecce, dardi e saette, penetrassero da parte a parte l’anima mia. In questo stato di sofferenze, che degli strazi è il più atroce, il mio diletto Gesù fece entrare di nuovo l’anima mia nel mio corpo, e mi disparve. Chi può dire, ora, le pene stra­zianti che sentì il mio corpo al contatto dell’anima, che rientrava in esso? Solo Gesù lo può dire, che tante e poi tante volte me le ha comunicate e poi mitigate, che altri al mondo non solo non può alleviare, ma nemmeno immaginare a fondo ciò che si soffre. Da questo punto narrativo della mia anima, che in appresso chi sa quante volte uscendo dal mio corpo ha seguito il mio diletto, si può congetturare come la morte tante altre volte si è bur­lata di me, miserabile, tanto sono indegna di morire ancora, ma verrà, verrà presto…, verrà quel tempo in cui non più si burlerà di me, ma sarò io che mi burlerò di lei dicendole: “Una volta ho scherzato teco, ma così bene ti ho sferzata e sfiancata da renderti di mille e cento [volte] più che la pariglia, [anzi] completa vincita”.
E a ragione dico ciò, perché se non fosse stato per Gesù - il quale, talvolta, dopo aver comunicato direttamente le sue strazianti pene all’anima mia, mi ha fatto riavere, sia con l’avvicinamento al suo cuore che è vita per me, o col prendermi fra le sue braccia che per me sono fortezza, oppure col versarmi un dolcissimo liquore dalla sua bocca - certamente sarei già morta, giacché le pene comunicate direttamente all’anima sono chissà quanto più strazianti di quelle comunicate al corpo.
Gesù quindi, allorché vedeva che naturalmente non potevo più durare in vita, perché giungevo sino agli ultimi estremi di vita, mi aiutava da sé[45] per non farmi soccombere, che [diversamente] mi avrebbe fatto esalare l’anima con l’ultimo respiro. Talvolta, poi, Gesù agiva direttamente mercé l’opera del confessore a cui ispirava di venire più presto a farmi riavere. Ma dico la verità, che quelle pene, mercé l’ubbidienza si mitigavano in certo qual modo, ma non così come quando operava Gesù su di me ed in me. Ricordo benissimo che il più delle volte, quando Gesù voleva comunicarmi le più spasimanti pene, allora faceva uscire l’anima dal corpo, e menandola seco, lui mi faceva notare i tanti peccati che venivano commessi dagli uomini, sia di bestemmia che contro la carità, e di qualsiasi altra specie, [e] mi versava parte di quell’amaro veleno che egli già sentiva tutto in sé come effetto causato dai tanti peccati. A mio modo di pensare, posso dire, senza dubbio di errare, dall’effetto prodotto in me, che il peccato della disonestà è quello che più offende ed amareggia il cuor di Gesù.
Versando egli in me una particella di quella sua amarezza, sentivo che entrava in me una materia sì nauseante, marciosa, puzzolente ed amareggiante, sino a farmi sentire esalare dal mio corpo tale fetore che mi faceva toccare talmente lo stomaco, che se non prendevo subito qualche cosa per rovesciare quel marciume misto al cibo, venivo meno. E tutto ciò non bisogna credere che avvenisse soltanto quando Gesù, in genere, mi faceva notare le nefandezze che si commettono soltanto da coloro che sono stimati grandi e pubblici peccatori, ma ancora, ed in particolar modo, allorché mi tirava dietro di sé nelle chiese, in cui pure viene offeso il mio amabile Gesù. Oh, come toccavano sì malamente il suo cuore quelle opere in sé sì sante, ma esercitate sì strapazzatamente; quelle orazioni vuote di spirito interno; quella finta pietà, apparentemente devota; quella ipocrisia, pareva che facessero più insulto che onore al mio Gesù. Ah, sì, quelle opere così malamente eseguite nauseavano quel cuore sì santo, puro e retto. Oh, quante volte non ha fatto meco doglianza, dicendomi: “Figlia mia, vedi, anche da parte di chi si dice devoto, quante offese e quanti insulti mi si fanno, fin nei luoghi santi ed anche nel ricevere gli stessi sacramenti! Perciò invece di ricevere grazie e di uscire di chiesa purificate, queste anime escono più imbrattate di colpa, e da me, quindi, non benedette”.
E nello stesso momento mi ha fatto notare certe persone che si comunicavano sacrilegamente; oltre di che, sacerdoti che celebravano il santo sacrificio della messa per abitudine, per spirito d’interesse ed in peccato mortale, che fa anche orrore a dirlo. Oh, quante altre volte Gesù mi ha fatto vedere scene sì dolorose al suo cuore, da farlo quasi agonizzare! Talvolta, mentre il sacerdote celebrava sì sacrosanto mistero di amore [e] consumava la vittima, ostia di propiziazione, Gesù era costretto ad uscire presto presto dal suo cuore, infangato di spirituali miserie. Altre volte, poi, perché chiamato a discendere dall’alto dei cieli ad incarnarsi nell’ostia mercé le parole potenziali del sacerdote, nauseava l’ostia non ancora consacrata, perché tenuta fra le mani impure e sacrileghe di chi, con autorità di lui stesso, lo intimava a discendere con esitazione; e Gesù, per non venir meno alla sua parola, s’incarnava in quell’ostia, che stillava marciume d’impurità prima, e poi stillava sangue di deicidio. Oh, quanto mi appariva allora compassionevole lo stato sacramentale di Gesù! Mi sembrava come se volesse fuggire da mezzo a quelle mani immonde, ma [era] pure costretto dalla stessa sua promessa a starsene, sino a tanto che le specie del pane e del vino non fossero ben consumate, in quello stomaco, più nauseante ancora di quelle mani che sì indegnamente lo avevano più volte indegnamente toccato. Ma al consumarsi le sacre specie se ne veniva a me, ed aprivasi meco lamentandosi così: “Ah, sì, figlia mia, fammi versare in te una porzione del­la mia amarezza, ché più non posso contenerla da solo in me; abbi tu compassione del mio stato, che è divenuto troppo doloroso. Abbi dunque pazienza; soffriamo un poco insieme”.
Ed io: “Signore, sono pronta a soffrir teco, anzi, se mi fosse data la capacità di prendere meco tutte le tue amarezze, oh, quanto lo farei volentieri per non vederti più soffrire”.
Gesù allora, mentre io così dicevo, versava dalla sua bocca nella mia quella parte di amarezza che potevo contenere in me, e soggiungeva: “Figlia mia, è un nulla ciò che ho versato in te delle mie amarezze, come tu [sei] capace di ricevere; ma quante e quante altre anime vorrei che fossero disposte al medesimo sacrifizio che tu hai fatto per amor mio! Non perché io potessi versare in esse tutta l’amarezza che ha subito il cuor mio, ma almeno per avere quella soddisfazione di essere contraccambiato in amore e benevolenza tutta figliale”.
Eppure non si può esprimere a parola quanto quel copioso versamento di Gesù era amaro, velenoso e stomachevole, per il marciume sì fetente e nauseante, che alle volte, per quanto sforzo facessi, il mio stomaco si rifiutava a sostenerlo, e mentre cercavo di mandarlo giù, un forte conato me lo respingeva su, fino alla gola; ma l’amore che sentivo per Gesù non [me] lo faceva sempre versare, perché aiutata e sostenuta dalla sua grazia. Chi può dire, ora, le sofferenze che mi producevano questi versamenti di Gesù? Erano tali e tante che, se non mi avesse sostenuta, fortificata ed invigorita, sarei già stata certo vittima della morte.
Eppure ripeto che Gesù non versava in me che la minima parte di quell’amarezza sorbita da lui, giacché la creatura non può contenere di amarezza e di dolcezza insieme, tanta quanta ne può contenere l’amabilissimo mio bene. Perciò egli solo sorbisce e tollera la piena amarezza che [gli] viene cagionata dal peccato. Con do­lore, quindi, ho sempre esclamato a questa considerazione: “Oh, quanto è mai brutto e micidiale il peccato! Ah, se tutti nella piena conoscenza di esso provassero ancora [nella sua] essenza quel suo effetto velenoso ed amareggiante, affinché avendolo ben conosciuto lo evitassero come orribile mostro che sbuca dall’inferno!”.
Ora, se l’ubbidienza mi ha indotta a dire in succinto circa le scene dolorose che il mio sempre amabile Gesù mi ha fatto notare, per farmi partecipe delle sue amarissime pene, non posso passare sotto silenzio ancora quel­le scene consolantissime che rapivano il mio cuore, allorquando mi metteva a parte delle ineffabili ed inaudite dolcezze spirituali, col farmi vedere i buoni e santi sacerdoti che fervorosamente e con spirito di vera umiltà si portavano alla celebrazione dei misteri sacrosanti del­la nostra religione. Vedendo celebrare questi, con profonda considerazione [di] quanto di prezioso si svolge nel breve spazio di una mezz’ora, mi sentivo spesso spesso di esclamare nella pienezza del mio affetto verso il mio diletto Gesù: “Oh, quanto è alto, grande, eccellente e sublime il ministero sacerdotale, a cui è data sì eccelsa dignità, non solo di trattare con te, mio Gesù, così da vicino, ma ancora d’immolarti all’eterno tuo Padre come vittima propiziatoria di amore e di pace!”.
Oh, quanto mi riusciva consolante il mirare e il rimirare insieme un santo sacerdote celebrante la santa messa, e Gesù in lui; era trasformato in modo tale da vedersi una sola persona, anzi, pareva che non il sacerdote, ma Gesù stesso celebrasse il divino sacrificio, e tanto che alle volte la persona di Gesù faceva occultare affatto in sé il sacerdote, tanto che io vedevo solo Gesù che celebrava la santa messa mentre io l’ascoltavo… Allora sì che era commoventissimo sentire Gesù recitare con tale unzione di grazia quelle preci, dignitosamente muoversi ed eseguire quelle sante cerimonie, così punto per punto da suscitare in me le più eccellenti meraviglie d’un sì alto e sì santo ministero. Chi può dire quante grazie io ricevevo, quanto mi riusciva [consolante] veder celebrare le messe con devozione ed attenzione tutta divina, e quanti lumi e carismi divini io comprendevo allora, e che ora vorrei passare sotto silenzio? Ma non posso fare a meno di dirne in succinto qualche cosa, giacché l’ubbidienza me lo impone, e più che ogni altro, Gesù stesso, che mentre sto scrivendo, movendosi nel mio interno, ha preso a rimproverarmi che per svogliatezza avrei voluto omettere ogni cosa. Ed ora, con la massima fiducia in lui perché voglia suggerirmi quanto sto per scrivere, ho esclamato:
“Oh, quanta pazienza ci vuole con te, o mio buon Gesù! Ebbene, ti contenterò, mio dolce amore, ma lo farò aiutata dalla tua grazia, giacché mi sento non solo indegna di parlare su di un mistero sì profondo e sì sublime, ma quanto ancora incapace di dire alcunché, per quanto concerne sì alto mistero”.
Dico adunque, ora, che mentre ascoltavo il divin sacrifizio, Gesù mi faceva capire che nella messa, considerata bene sino al fondo del mistero che si svolge, vi è racchiuso tutto il mistero della nostra sacrosanta religione. Ah, sì, la messa ci fa notare tutto e ci parla tacitamente al cuore di tutto l’infinito amore di Dio, con espansione inaudita, elargito a vantaggio degli uomini. Essa ci ricorda sempre la compiuta nostra redenzione; ci fa ricordare parte per parte le pene che Gesù patì per noi, ingrati al suo amore; ci fa comprendere che egli, non essendo ancor contento di morire una sola volta sulla croce per noi, vuole diffondersi sempre più nel­l’amore immenso, tutto se stesso, mercé l’istituzione di questo perenne sacrifizio, per continuare il suo stato di vittima ancora, nella santa eucaristia. Mi ha fatto capire, Gesù, che la messa e la santa eucaristia sono perenne memoria della sua morte e della sua risurrezione, e che comunica non solo alla nostra anima, ma ancora al nostro corpo, quell’antidoto d’una vita immortale.
La messa, quindi, e l’eucaristia, ci dicono che i nostri corpi disfatti ed inceneriti mediante la morte, risorgeranno nel giorno finale a vita immortale, che per i buoni sarà gloriosa, e per i perversi ricolma di tormenti, giacché questi non essendo vissuti con Cristo, non risorgeranno in lui, mentre i buoni, essendo stati in vita nell’intimità con Cristo, risorgeranno quasi a pari dello stesso Gesù. Mi fece, quindi, ben comprendere che la cosa più consolante che si racchiude nel sacrifizio della messa - il più eccellente di tutti gli altri [misteri] della nostra santa religione - è Gesù in sacramento e la sua risurrezione; questa, in concomitanza con la passione e morte dello stesso Gesù, misticamente si rinnova sui nostri altari, tante volte per quante volte si celebra il sacrosanto sacrifizio della messa; e Gesù in sacramento, velato sotto gli azzimi sacramentali, si dà realmente ai co­municanti per essere loro compagno e vita, lungo il pel­legrinaggio di questa vita mortale, e gloria e vita sempiterna, mercé la sua grazia, nel seno della Santissima Trinità, a cui parteciperanno le nostre anime unite ai nostri corpi. Questi misteri sono sì profondi, che soltanto nella vita immortale ci sarà dato comprenderli appieno. Ora, Gesù in sacramento ci dà una parvità[46] di quella comprensione che ci sarà data lassù nei cieli, e lo fa in più modi, e quasi toccare con mano.
In primo luogo, la messa ci mette nella considerazione della vita, passione e morte di Gesù, a cui tiene dietro la sua gloriosa risurrezione, con la differenza però che tutto ciò fu eseguito dall’umanità di Cristo e si com­pì nel corso di 33 anni, realmente scorsi nelle diverse vi­cissitudini della vita, mentre nella messa, misticamente ed in breve spazio di tempo, si rinnova esso tutto, in sta­to di vero annientamento, in cui le specie sacramentali contengono Gesù vivo e vero, sino a tanto che non saranno consumate; ma poscia non esiste più la reale presenza di lui sacramentato nei nostri cuori, ma ritorna nel seno del suo Divin Padre, come quando risuscitò da morte. E poi, consacrate di nuovo nella messa altre specie, discende di nuovo a prendere lo stato di vittima di pace e di amore propiziatorio, per cui si rinnova il suo stato sacramentale per vantaggio di noi viatori e per sod­disfazione e gloria del suo eterno Padre. Così, in sacramento, ci ricorda la risurrezione dei nostri corpi alla gloria, giacché, come egli, cessando lo stato sacramentale risiede nel seno di Dio Padre, così le anime umane, cessando lo stato della vita presente, passeranno a fare eterna dimora nel cielo, nel seno di Dio, mentre i nostri corpi resteranno consumati al pari delle specie sacramentali, quasi che non avessero più esistenza; ma poscia, con prodigio dell’onnipotenza [di Dio], acquisteranno nel dì dell’universale resurrezione la vita, [e] congiunti alla propria anima andranno assieme a godere, se buoni, l’eterna beatitudine di Dio; in caso contrario andranno lungi da Dio, a soffrire i più atroci ed eterni tormenti.
Se tutto ciò che si è detto è effetto meraviglioso che scaturisce come da fonte limpidissima dal sacrifizio del­la messa, come poi i cristiani non si avvezzano per farne profitto? Si può avere cosa più consolante e salutare, dal nostro buon Dio, per un cuore che ama, giacché non so­lo nutrisce l’anima a fine di renderla degna del cielo, ma comunica al corpo quella prerogativa per cui potrà a suo tempo bearsi degli eterni contenti del suo Dio? A me sembra che in quel gran giorno succederà [come] quel fenomeno naturale che si presenta alla vista di chi sta contemplando il cielo, che è tutto stellato, mentre s’ap­pressa l’ora della comparsa del sole. Che cosa avviene mai? Il sole, apparendo nella sua smagliante luce, assorbisce in sé la luce di tutte le stelle, e mentre queste scompaiono alla vista dell’osservatore, resta ognuna nel­la sua luce propria e al proprio posto, tanto che queste, al tramontar del sole, come se ricevessero novella vita, si fanno di nuovo a risplendere nel firmamento. Così delle anime: investite, come stelle, della luce comunica­ta loro dal suddetto sacrifizio e sacramento di amore, al­lorché si troveranno al giudizio universale nella valle di Giosafat, prima che arrivi Gesù, sole eterno di giustizia, ognuna di esse sarà osservatrice di tutte le altre anime, ed in ciascuna si osserverà quella luce acquistata e comunicata da sì santo sacrifizio e da sì sacrosanto sacramento di amore, ma al comparire di Gesù giudice e sole eterno di giustizia, nella sua immensa luce assorbirà in sé tutte le anime beate che risplendono come stelle, e le farà sempre esistere in lui, facendole nuotare nel mare immenso di tutte le perfezioni di Dio. E delle anime prive di questa divinissima luce, che ne sarà mai? Andrei troppo per le lunghe se volessi rispondere a questa domanda, però se il Signore lo vorrà lo farò in altra occasione, come mi riserbo di dire qualche altra cosa che Gesù mi ha fatto conoscere circa il suddetto oggetto d’amore.
Dico, ora, soltanto, che Gesù mi ha fatto comprendere che i corpi uniti alle anime che hanno luce risplendente, saranno in eterno uniti con Dio; quelli che invece saranno uniti alle anime nerissime e caliginose, per mancanza di luce non procacciata mercé la partecipazione dovuta e voluta a questo sacrifizio e sacramento di amore, saranno gettati e sprofondati, privi della luce della grazia, nelle più fitte tenebre, a seconda della loro ingratitudine commessa scientemente contro sì gran donatore; ivi, sotto la schiavitù del principe delle tenebre, Lucifero, saranno tormentate in eterno dal rimorso più terribile e straziante.
Ora, rifacendomi da capo, dico che in queste uscite che faceva la mia anima dal corpo, sebbene Gesù mi mettesse a parte delle sue acerbissime pene che soffriva per la mala corrispondenza al sacrifizio e sacramento di amore da parte di tanti ingrati, ciò nonostante, mercé la luce di grazia che sempre si infondeva da Gesù in me, io ero a dovizia accesa di sante brame di volermi sempre più unire a lui. Gesù, ancora da parte sua, mi rinnovava spesso le dolci promesse già dette circa le mistiche nozze che quanto prima voleva far meco, per cui mi sentivo animata tante volte a sollecitarlo col dirgli: “Deh, o sposo dolcissimo, fa presto; non più si meni a lungo la mia intima unione con te. Vedi che io non ne posso più; le mie brame sono così accese che mi sento del tutto divorare. Deh, stringiamoci con più forti vincoli di amore, in modo che nessuno ci possa separare, anche per un istante solo”.
Ma Gesù, che pur m’infondeva l’accesa brama di effettuare questo mistico sposalizio, mi ripeteva: “Tutto ciò che è terreno deve togliersi, tutto, tutto, non solo dal tuo cuore, ma bensì anche dal tuo corpo. Tu non sai capire quanto è nocevole la minima ombra terrena, e di quanto impedimento sia questa all’amor mio”.
A tali parole di Gesù mi feci ardita, dicendogli subito: “Signore, a quel che pare, ci ho ancora qualche cosa da togliere per piacere perfettamente a te, ma perché non dirmela? Tu lo sai se io non sia pronta a fare tutto quello che vuoi”.
Ma mentre così dicevo, ebbi un raggio di luce da Gesù, per cui mi avvidi che Gesù voleva parlare di un anello di oro che avevo al dito, in cui vi era l’immagine sua crocifissa; ed io immediatamente gli dissi: “O sposo santo, sono più che mai disposta a toglierlo dal dito, se tu lo vuoi”.
Ed egli: “Sappi che dovendo io darti un anello più prezioso e più bello, in cui sarà impressa più al vivo la mia immagine, in modo che ogni volta che lo guarderai nuove frecce di amore riceverà il tuo cuore, il tuo anello non ti è più necessario”.
Ed io allora, più che contenta, giacché non sentivo in me alcuna passione, prontamente me lo tolsi, dicendogli: “Ecco, sposo santo, ti ho contentato; dimmi se c’è altra cosa che sia d’impedimento alla nostra indissolubile ed eterna unione che vuoi far meco”.
Dopo una lunga aspettazione e diligentissima preparazione, frammista a soavissime consolazioni, e di non poco patire, giunse finalmente il sospirato giorno della mistica unione con Gesù, diletto sposo dell’anima mia. Come ben mi ricordo, pochi giorni mancavano a compiere l’anno in cui Gesù mi tenne continuamente in letto. Era il giorno della purità di Maria Santissima[47]. La notte precedente, il mio amante Gesù mi si fece vedere con insolito affetto e tutto festoso, e parlandomi con più intimità prese fra le sue mani il mio cuore, lo guardò e riguardò più volte, e dopo averlo ben bene esaminato e come spolverato lo rimise al suo posto; indi prese una veste di una immensa bellezza, che pareva come se avesse un fondo tutto di oro finissimo, screziato a vari colori, e con questa mi vestì; prese ancora due preziose gemme, come se fossero orecchini, ed ingemmò le mie orecchie; il collo e le braccia li ornò di monili di oro e di gioie preziose, e dopo mi cinse la testa di una bellissima corona d’immenso valore, arricchita di gioie le più preziose, risplendenti di vivissima ed insolita luce. A me, poi, pareva che quelle luci producevano fra loro un suono sì armonioso, che a chiare note facevano comprendere che parlassero della bellezza, della potenza, della bontà, della carità e maestà di Dio, e di tutte le virtù dell’umanità del mio sposo Gesù. Chi può dire, ora, ciò che io compresi mentre l’anima mia nuotava in un mare immenso di consolazione? Ciò sarebbe del tutto impossibile a dirsi. Passo perciò a dire ciò che mi diceva Gesù, mentre mi cingeva la fronte: “Sposa dolcissima, questa corona di cui ti cingo la fronte ti è data da me, acciocché nulla ti manchi per farti degna di essere mia sposa; ma me la cederai dopo eseguito il nostro sposalizio, per ridartela in cielo al punto della tua morte”.
Finalmente prese Gesù un velo, con cui mi coprì dalla testa sino ai piedi, e cosi mi lasciò, nella considerazione più profonda di me stessa, in quella di un tanto e sì prezioso abbigliamento fatto da Gesù stesso alla mia miserabile persona, ed in ultimo, in quella considerazione dei diversi significati concernenti ciascun ornamento con cui Gesù volle abbigliarmi nella precedente notte del nostro mistico sposalizio. In quanto alla mia persona, dico che non c’è stato mai un fatto ed esigenza della mia vita che mi abbia fatto trovare in un episodio così stravagante, da farmi sentire il grave peso che un Dio possa dare ad una creatura che si dica amante del suo Dio. Oh, che effetto veramente strano non ebbe a soffrire allora il mio spirito! Infatti, invece di sentirsi sublimato all’eccelso atto di Gesù, compiuto sulla mia persona, avvenne tutto il contrario, in modo da farmi toccare la nullità di me stessa. L’annichilamento che sentivo di me stessa fu tale, che mi credetti fuori del mio proprio essere, in modo tale che mi venne in mente essere veramente questo il morire; ed in questo annientamento ricorsi al mio diletto Gesù, pregandolo che mi avesse usato novella sua misericordia, giacché nella mia grande confusione non pensavo che era un Dio colui che abbigliava di tanti preziosissimi monili l’ultima delle sue predilette ancelle, alle quali non si addice non solo un tanto abbigliamento, ma ancora e soprattutto che da servente nuziale faccia un Dio[48], quel Dio al cui cenno tutte le creature obbediscono; e quindi lo supplicai che mi avesse usata venia, nella sua misericordia.
In quanto, poi, al significato che si racchiudeva in tanti abbigliamenti, presi ognuno separatamente, li passo sotto silenzio, giacché poco ricordo dopo tanto tempo. Solo dico che il velo col quale mi avvolse Gesù dal­la testa ai piedi fu di spavento ai demoni, i quali, mentre stavano alla vedetta di quanto Gesù operava sulla mia persona, non appena mi videro ricoperta da quello, restarono talmente spaventati ed impauriti che non ardirono, non solo di appressarsi a me, ma quanto che se ne fuggirono atterriti per non più molestarmi, avendo perduto essi ogni audacia e temerità.
Sono sempre da capo e al medesimo ritornello, a dire che per quanto io trovi difficile mettere su carta tutto quanto è passato tra Gesù e me, pure, volendo stare al­l’ingiunta obbedienza, mi conviene vincere ogni ritrosia. Riprendo quindi il filo della narrazione dell’abbiglia­mento della mia povera persona, eseguito nella vigilia della purità di Maria Santissima dallo stesso mio amante Gesù, il che fu di gran spavento e terrore ai demoni, i quali, atterriti, se ne fuggirono, mentre gli angeli di Dio, presi nello stesso tempo da insolita venerazione verso di me, ed in modo tale che io ne restai confusa e piena di rossore come se avessi commesso qualche grande sregolatezza, si appressarono a me e mi tennero compagnia e guardia fino al ritorno del mio amante Gesù. La mattina seguente, dunque, Gesù tutto maestoso se ne venne a me con più insolita affabilità e dolcezza insieme, con Maria Santissima e santa Caterina, e fece segno agli angeli che cantassero un dolcissimo inno, tutto celestiale; e mentre questi cantavano, santa Caterina mi si appressò per assistermi nella celebrazione delle mie mistiche nozze con Gesù, mentre la mia dolce Mamma, Maria Santissima, facendomi un dolce rincoramento, mi prese la mano per farmi mettere al dito, da Gesù, il preziosissimo anello nuziale. Compiuto quest’atto, Gesù, con la più ineffabile sua bontà, mi abbracciò e ribaciò più volte, e ciò lo fece fare ancora dalla sua e mia Madre Santissima. Mi tenne quindi in un celestiale colloquio di amore, in cui mi manifestò tutte le finezze ed attrattive di amore che egli sente verso di me; ed io, immersa nella più grande confusione, considerando la nullità del mio amore, gli dissi: “Gesù, ti amo, ti amo; tu lo sai quanto io ti amo”.
La Santissima Vergine mi fece, indi, considerare e poi ben comprendere la straordinaria grazia che Gesù mi aveva fatta, con unirmi indissolubilmente a lui, e mi esortò alla più tenera corrispondenza di amore che dovevo avere verso il mio sempre amabile sposo Gesù.
Finalmente, il mio sposo Gesù si fece a darmi novelle regole di vita, per farmi vivere più intimamente [unita] a lui, seguendolo più perfettamente [di quanto] non ho fatto per il tempo già passato. Queste regole che mi furono date da Gesù, non mi è facile dir[le] bene in modo tecnico, ma solo in succinto ed a seconda della mia applicazione e dell’esercizio pratico che giornalmente, con la grazia di Dio, non è stato da me mai omesso.
1) Dico, dunque, che Gesù innanzi tutto m’ingiunse un distacco totale da tutto il creato e fin da me stessa, quasi che dovessi vivere nel perfetto oblio di tutte le cose, per fare in modo che il mio interno si disponesse ad aver sempre fisso il dolce ricordo di lui, ed un affetto vivo e palpitante di amore verso di lui, affinché, compiacendosi di tutti gli atti, formasse nel mio cuore stabile dimora. Fuori di lui - mi disse - non dovevo conoscere più nessuno, né amici, e neppure me stessa; solo in lui doveva risvegliarsi la rimembranza di tutto e di tutti, giacché in lui non può non trovarsi la creatura; e per arrivare a ciò, aggiunse che dovevo agire sempre con santa indifferenza e noncuranza di quanto potesse avvenire intorno a me, cioè operare sempre rettamente e con la massima semplicità, non tenendo conto del pro e del contro che potesse venirmi dalle creature. In pratica, poi, se talvolta tutto ciò non facevo, il mio dolce Gesù, riprendendomi severamente, mi diceva: “Se non giungerai al distacco effettivo, non solo, ma affettivo ancora, non potrai essere tutta investita della mia luce; ma se invece ti svestirai d’ogni affetto terreno, diverrai come un tersissimo cristallo, che attraverso di sé fa passare la pienezza della luce; così la mia divinità, che è luce, entrerà tutta in te”.
2) In secondo luogo mi disse che io non dovevo più vivere in me stessa, ma sola e tutta in lui, vivendo cioè distaccata da me stessa; dovevo aver sempre cura d’in­vestirmi del vero spirito di fede, mercé il quale dovevo procurare di conoscere sempre più me stessa, per diffidare della mia propria capacità, ché non son buona a far nulla da me, e conoscere sempre più il mio Gesù, per poter sempre più confidare in lui.
“E dopo che avrai conosciuto te stessa e chi sono io - mi disse - in conseguenza avverrà che spesso spesso uscirai fuori di te stessa, per tuffarti nel mare immenso della mia provvidenza. Tu quindi, come una piccola sposa di cui lo sposo è tanto geloso che non vuole permetterle di prendere il minimo piacere con altri, ti terrai sempre stretta a me; e come quella se ne sta con la faccia sempre rivolta verso lo sposo, per far che non possa dubitare di lei, così tu mi darai assoluto dominio su di te, tanto se volessi vezzeggiarti, colmarti di carismi, di baci, di amore, come pure se volessi batterti, affligger[ti] ed infliggerti qualsiasi pena. A tutto dovrai assoggettarti per amor mio, sempre nella tua piena libertà, perché avremo in comune pene e gioie; e faremo anzi a gara chi di noi due saprà prendere più pene su di sé, per niun altro scopo che di piacerci e farci contenti a vicenda”.
3) “In terzo luogo, non deve stare in te la tua volontà, ma soltanto la mia, che dovrà stare e signoreggiare come un re nel suo real palazzo; altrimenti si faranno tosto sentire i disaccordi di un inetto amore, da cui si solleveranno fitte ombre che getteranno in te quelle disarmonie e quella dissomiglianza di operare, non voluta dalla comune nobiltà che deve assolutamente regnare tra me e te, mia sposa; e questa nobiltà regnerà in te se di tanto in tanto cercherai di entrare nel tuo nulla, cioè, se giungerai ad avere perfetta conoscenza di te, non per fermarti qui, ma, conosciuta la tua nullità, dovrai far di tutto e quanto prima [per] entrare nella infinita potenza della mia Volontà, da cui attingerai tutte le grazie di cui avrai bisogno per sollevare te in me, per fare il tutto con me senza tener conto di te, che del tutto voglio che scomparisca in me”.
4) “In quarto luogo, da ora innanzi voglio che tra te e me non ci debba essere quel ‘tu’ ed ‘io’; quindi, non più si dirà ‘farai tu’, ‘farò io’, ma ‘faremo noi’. Quel ‘tuo’ e ‘mio’ deve ancora scomparire, ma di tutto si dirà ‘nostro’, giacché tu, come mia sposa fedele, prenderai parte comune e guiderai le sorti del mondo. Tutti i redenti del mio sangue son divenuti figli e fratelli miei, e come son miei, saranno ancora figli e fratelli tuoi, i quali, come figli, saranno da te amati come da vera madre. È vero che molte pene ci costeranno questi fratelli e figli, perché la maggior parte son divenuti molto discoli, assai traviati, e molti ancora licenziosi; ma tu prenderai come me le loro meritate pene su di te, ed a costo dei più dolorosi sacrifici cercherai [di] metterli in salvo, facendo in modo che me li condurrai al mio cuore, coperti dai meriti delle tue sofferte pene, ed aspersi tutti del tuo e del mio sangue; in vista di cui, il mio Padre celeste non solo userà loro misericordia e perdono, ma ancora, se saranno perfettamente contriti, molti come il buon ladrone prenderanno presto presto eterno possesso del paradiso.
Finalmente, [nella] misura che ti distaccherai da tut­to ciò che non è puramente mio, ti troverai sempre più immersa nell’assoluta mia Volontà, in cui acquisterai la pienezza dell’amore mio, mercé la conoscenza della mia Essenza, che di giorno in giorno si farà sempre più viva in te; ed allora più che mai, come al riverberante riflesso della luce si vedono in uno specchio le immagini, così in me troverai realmente ordinate tutte le creature aventi spirito d’intelligenza e di amore, in modo tale che ad un sol colpo d’occhio le vedrai tutte e conoscerai lo stato di coscienza di ciascuna di loro, per cui tu, poi, come madre più che amorosa, nel vero spirito di misericordia che è spirito mio e della Madre mia, farai il massimo sacrifizio, immolandoti per esse; e questo sacrifizio sarà come un ammanto che tutta ti coprirà, come mia vera imitatrice e fedele sposa”.
Chi può dire, ora, le finezze di amore che il mio amabile Gesù mi ha prodigalmente, anzi eccessivamente, fatto dal quel giorno in cui contrasse meco il mistico sposalizio e mi diede quelle novelle regole di vita? Oh, quante volte e quante, trasportando la mia anima con sé, lui mi ha fatto entrare in paradiso, per quindi udire i cantici dei beati spiriti, che incessantemente inneggiano inni di gloria e di ringraziamento alla Divina Maestà! Ed io ho contemplato in Dio i diversi cori degli angeli, i diversi ordini dei santi, che sono tutti immersi nella divinità di Dio, il quale nella sua immensità li ha quasi assorbiti ed immedesimati tutti in lui. Mirando poi intorno al trono di Dio, mi pareva vedere tante risplendentissime luci, infinitamente più risplendenti del sole, che facevano mirabilmente vedere e comprendere tutti gli attributi e virtù di Dio, tutti inerenti alla sua infinita Essenza, comune alle Tre Divine Persone. Compresi inoltre che i beati spiriti, pur specchiandosi in tutte quelle luci, ora nell’assieme ed ora passando successivamente dall’una all’altra, restano rapiti in quella e da quella luce, ma non giungono mai a comprendere perfettamente Dio, perché è tanta la maestà, l’immensità e la santità di Dio, che mente creata, per tutti gli interminabili secoli dell’eter­nità, non arriverà a comprendere Dio, che è per eccellenza l’Essere increato ed incomprensibile. Ora, da quanto vidi ed appresi, dico che gli spiriti angelici ed i beati comprensori, specchiandosi in quella luce, venivano a partecipare alle virtù di quelle[49]. Come noi, esposti nel pieno meriggio del sole, veniamo non solo investiti dai raggi del medesimo, ma ancora riscaldati, così gli angeli e santi del paradiso, al cospetto dell’eterno sole Dio, sono investiti dalla luce eterna, in guisa tale che rassomigliano a Dio; con questa differenza, però: che tutto ciò che Dio contiene in sé è essenzialmente suo per natura ed essenzialmente infinito, mentre gli spiriti angelici e i beati comprensori hanno per partecipazione tutto ciò che contengono ed in quantità limitata, e a seconda della propria capacità.
Sicché Dio è l’infinito, l’increato ed eterno sole, che tutto se stesso dà senza che venga a perdere nulla di sé, mentre le creature vengono fatte partecipi di tutto, per cui rassomigliano all’eterno sole, reso in loro sole di piccolissima mole o grandezza. Per quanto però io abbia detto, sembrami d’aver detto tanti spropositi, giacché ciò che si possa apprendere in quel beato soggiorno, non si può assolutamente ripetere nella nostra limitata favel­la, e perciò si ha il concetto, l’idea, ma mancano i vocaboli ed espressioni per dire realmente come si ha appreso[50] in sé la cosa. L’anima, quindi, se uscita dal corpo per poco viene trasportata in quel beato regno, ritornando poi nel suo proprio carcere del corpo, le è impossibile dire tutto ciò che ivi ha veduto e compreso; eppure nella mente ha tutta l’impressione di ciò che ha percepito.
A me sembra che avvenga all’anima - che abbia avuto in sé l’impronta di ciò che Iddio voglia farle comprendere, nel tirarla nella patria celeste, per poco che facesse[51] - quella impressione che può avere un bambino che appena sa balbettare, dopo aver assistito ad un grande spettacolo teatrale; vorrebbe dire tante cose circa le cose che più hanno fatto impressione nell’animo suo, ma non riuscendo a dirne una, alfin, vergognandosi, resta tutt’affatto muto. Così io dovrei, piuttosto, restarmene muta, perché non so dire altro che spropositi su spropositi, se non fosse per l’ubbidienza che mi s’impone. Perciò continuo a dire che alle volte mi trovavo in quella beata patria a passeggiare insieme a Gesù, mio sposo di­letto, in mezzo ai cori degli angeli e dei santi, e siccome ero novella sposa, tutti uniti ci facevano corona, ci corteggiavano e partecipavano nel tempo stesso alle gioie del nostro eseguito sposalizio. Mi pareva allora come se mettessero quasi in oblio i loro contenti per occuparsi dei nostri; e Gesù, mostrandomi ai santi, diceva loro: “Quest’anima è divenuta un trionfo ed un portento del mio amore, mercé la sua corrispondenza alla mia grazia”; e additandomi poi agli angeli diceva loro: “Vedete che tutto ha superato il mio amore per lei”; quindi mi faceva mettere al seggio di gloria, di cui Gesù mi aveva fatta degna, e mi diceva: “Ecco il tuo posto di gloria; nessuno te lo potrà togliere”. Allora io credevo che stessi per non tornare più sulla terra; ma, ahimè, mentre ero di ciò quasi convinta, ecco che ad un cenno di Gesù mi ritrovavo, in meno che si dica, rinchiusa nel muro di questo corpo.
Chi può dire, ora, quanto penoso riusciva al mio spirito il dover restare nel corpo, poiché tutte le cose terrene, messe in confronto di quelle del cielo, parevano, anzi, mi davano la sensazione di un vero marciume? E fin anche le cose che ad altri dilettano i sensi, a me riuscivano tanto fastidiose e piene di amarezza; tanto che le persone più care e più ragguardevoli, a cui chissà quante cortesie e gentilezze avrebbero altri usate per farle trattenere in loro conversazione, a me riuscivano non solo indifferenti, ma tediose. Ma il solo guardarle come immagini di Dio me le faceva sopportare, benché l’anima non avesse provata la benché minima ombra di soddisfazione e di contento. Ed è appunto per questo che il mio cuore si era reso tanto inquieto ed irrequieto, che non facevo altro che lamentarmi col mio Gesù, tra le continue ansie e desideri del cielo; e nel mio interno provavo tale pena, tale amarezza e tale uggia delle cose di quaggiù, che il tutto mi rodeva l’anima, in modo tale da credere impossibile poter continuare a vivere quaggiù. L’ubbidienza però, stando a giorno di tutte le cose mie, mi arginò e frenò così bene, con l’assoluto comando di non dover desiderare più il morire, ma stare all’ub­bidienza per quando lo avesse voluto Iddio. E così feci, e per quanto era in poter mio, cercai allontanare dalla mia mente anche il pensiero della morte, nonostante che nel mio interno si fosse impressa una continua giaculatoria di ansie e desideri ardenti verso la patria celeste; e perciò il mio cuore, vinto in gran parte dall’ubbidienza, si chetò, ma non del tutto, giacché di tanto in tanto vi facevo delle scappatine; ed in questo, confesso la verità, difettai non poco. Ma che potevo io fare, se mi riusciva quasi impossibile frenarmi del tutto? Ed è perciò che riuscì per me quasi un martirio vero quel continuo lottare, per usare ogni mezzo, affin di frenare le mie ansie, ma che - ripeto - mi riusciva quasi impossibile.
Il mio amato Gesù, ancora, mi diceva: “Sposa mia, quietati; qual è la cosa che tanto ti fa desiderare il cielo?”. Ed io: “Voglio stare sempre con te; non mi regge l’animo di stare più da te separata, non solo per un giorno, ma neppure per un istante solo; a qualunque costo perciò voglio venir teco”.
“Ebbene - mi diceva Gesù - se è per questo, ti contenterò con lo starmi sempre con te”. Ed io a lui: “Se così fosse, sì che mi contenterei, ma qui però tu ti fai perdere di vista, e quindi è lo stesso come se mi lasciassi, mentre in cielo non è così, poiché là non potrai mai eclissarti da me, poiché l’esperienza mi è una prova certa di quanto dico”.
A chi non lo sappia, dirò che Gesù sa ben scherzare con la creatura, come tante volte ha scherzato con me; ed ecco come: mentre mi trovavo in queste benedette ansie, Gesù se ne veniva a me tutto frettoloso, e mi diceva: “Vuoi adesso venir meco?”. Ed io: “Dove?”. Ed egli: “Al cielo”. Ed io: “Me lo dici davvero?”. “Ma sì; fa presto - mi diceva - non più indugiare”. “Ebbene, se è così, andiamo pure - rispondevo - benché tema che tu abbia voglia di burlarmi”. E Gesù allora: “Ma no, ma no; te lo dico davvero: andiamo, che voglio portarti meco”.
Sì dicendo, tirava l’anima a sé in modo che me la sentivo uscire dal corpo, in men che si dica, e seguendo Gesù prendevo il volo verso il cielo. Oh, come e quanto era contenta allora l’anima mia; credevo che dovessi lasciare per sempre la terra, mentre un sogno mi sembrava la vita trascorsa nel patire tollerato per amore di Gesù; e mentre si arrivava al più alto dei cieli e già si sentiva il delizioso canto dei beati comprensori, e sollecitavo Gesù che facesse presto ad introdurmi in quel beato soggiorno, egli lentamente ne diminuiva la corsa per allungare il tempo. In vista di ciò, nel mio interno cominciava il sospetto che non dovesse essere vera l’entrata che dovevo fare con lui nella patria celeste; e fra me dicevo: “Questo mi pare che sia uno scherzo di Gesù”; e per assicurarmi gli dicevo di tanto in tanto: “Gesù caro, fa presto; perché ti sei rallentato nella corsa?”.
E lui: “Vedi, vedi là un peccatore che sta per perdersi? Scendiamo un’altra volta in terra; andiamo a far prova di ridurre quell’anima a penitenza; chissà che non si converta. Preghiamo dunque assieme l’eterno mio Padre che gli usi misericordia; non vuoi che quelli[52] si salvi? Aspetta un altro poco in vita; non sei tu pronta a soffrire qualsiasi pena per la salvezza di un’anima che mi costa tanto sangue?”.
Ed io, a queste parole di Gesù dimenticavo me stessa, obliavo la corsa fatta verso il cielo, il canto ascoltato dei celesti comprensori, e rispondevo a Gesù: “Sì, sì, qualunque cosa tu vuoi son pronta a soffrire, purché salvi quell’anima”.
Allora Gesù, in un batter d’occhio, mi faceva trovar con lui presso quel peccatore, e cercando ogni modo per convertirlo, gli si metteva innanzi alla mente le più possenti ragioni per la sua salvezza e per fare che si arrendesse alla grazia, ma vane purtroppo riuscirono le nostre speranze.
Gesù allora, tutto afflitto, mi diceva: “Sposa mia, vuoi tu prendere su di te le pene a lui dovute? Se tu entri un’altra volta nel corpo per soffrire, la divina giustizia potrà placarsi, e così gli potrò usare misericordia. Come hai già visto, le nostre parole non lo hanno scosso punto, le ragioni neppure; non ci resta fare altro che soffrire le pene a lui dovute, [le] quali sono i mezzi più potenti per soddisfare la divina giustizia offesa e per far arrendere il peccatore alla grazia della sua conversione”.
Così dicendo Gesù, e consentendo io al suo dire, mi trovavo di nuovo nel corpo. Quali sofferenze sentissi, allorché mi trovavo a contatto del mio corpo, mi è impossibile [dirle]; basta dire che il corpo, come se non potesse più contenere il mio spirito, me lo sentivo distendersi e dilatare tutto, mentre lo spirito, in pari tempo, si sentiva come compresso, depresso e privo di vita, e quasi in atto di esalare l’anima; ma non lo potevo. Solo Gesù mi era testimone di quanto io soffrivo allora, e potrebbe dire quanto strazianti ed atroci pene tollerava l’anima ed il corpo mio. Ma viva Dio, che dopo qualche giorno di sofferenze, Gesù mi faceva vedere quel pecca­tore convertito, quell’anima già salva, e mi diceva: “Sei tu contenta come lo sono io?”. Ed io: “Sì, sì”. Ma chi può dire quante volte Gesù ha ripetuto meco questi scherzi? Talvolta mi faceva entrare in paradiso, e dopo poco mi diceva: “Sposa mia, tu non ti sei ricordata di farti dare l’ubbidienza dal confessore, per venirtene con me; ora fa d’uopo che vi ritorni al corpo per prendere codesta ubbidienza”.
Ed io: “Ero certamente obbligata ad ubbidire al confessore finché l’anima si trovava nel suo corpo ed ero sotto la sua direzione, ma ora che sono con te sento il dovere di ubbidire solamente a te, mio sposo, che sei veramente il primo fra tutti i confessori”. E Gesù, placidamente: “No, no, sposa mia; voglio che tu ubbidisca al confessore”. E così, ora per un pretesto, ed ora per un altro, mi ha fatto tante e poi tante volte tornare di nuovo nel mio corpo.
Questi scherzi di Gesù, però, mi riuscivano di un’amarezza tale, da essere presa da un certo che di risentimento ed impertinenza, per la qual cosa non più così spesso Gesù me li rinnovò. Ed in questo stato, continuamente penante in letto, e tra le alternative, ora di ansia [di] volermene andare con Gesù, mio sposo, in paradiso, ora [di] desiderio ardentissimo di volerlo tenere sempre meco in terra, ed ora per il ritorno che faceva l’anima nell’immedesimarsi al mio povero corpo, fu continuo il mio martirio.
Finalmente una mattina, dopo il periodo di questi tre anni, Gesù mi fece benignamente intendere che lo sposalizio fatto meco in terra voleva ratificarlo nella sanzione del Padre e dello Spirito Santo, al cospetto di tutta la corte celeste, e m’ingiunse quindi che io stessa dovevo ben prepararmi ad una sì segnalata grazia; e dal canto mio feci quanto era in mio potere per ben dispormi. Ma in verità, essendo io tanto miserabile ed inetta a fare anche un’ombra di bene, con istanza continua supplicai l’altissimo artefice, che egli stesso mettesse mano al­l’opera della più santa purificazione dell’anima mia, altrimenti mai sarei riuscita a farlo come si richiedeva da me. E questa grazia mi venne accordata nella vigilia del­la natività di Maria Santissima[53]; ed ecco come: in quel­la mattina, il mio sempre amabile Gesù se ne venne tut­to premuroso, per dispormi egli stesso a quanto avevo richiesto; e non so perché cominciò a fare un continuo via vai da me; ed infatti, frettolosamente veniva, mi parlava della fede, e tosto mi lasciava sola. E mentre mi parlava, mi sentivo infondere una tale vita di fede, che l’anima mia, così grossolana qual era prima che avesse parlato Gesù, me la sentivo così semplicissima da poter penetrare fino in Dio. E quindi, ora miravo la potenza, ora la santità, ora la bontà, ed ora altro attributo divino. Resa così l’anima mia, dicevo in un mare di stupore: “Onnipotente Iddio, quale onnipotenza innanzi a te non resta disfatta? Santità eccelsa di Dio, quale altra santità, per quanto sublime essa sia, ardirà comparire al tuo cospetto?”.
Discendendo poi a considerare la mia miseria, e toccando il mio nulla e la nullità delle cose terrene, che dinanzi a Dio sfuggono come ombra di nebbia alla raffica del vento, mi scorgevo appena come piccolissimo mi­crobo, avvolto da lievissima polvere, che per essere distrutto e disfatto basterebbe la piccolissima opera di qualsiasi altro vermiciattolo. Scorgendomi così, non ardivo più di trovarmi al cospetto della tremenda maestà di Dio, ma la sua infinita bontà, come calamita, mi tirava a sé, e nella sua infinita bontà, esclamava l’anima mia: “Oh, quanta santità, quanta potenza e quanta misericordia si racchiude in Dio, il quale ci attira a sé con la sua equivalente bontà!”. E dico questo, perché mentre mi pareva che la santità tutto lo circondasse, che la potenza tutto lo sostenesse, che la misericordia tutto lo commuovesse e che la bontà tutto lo animasse da dentro, da fuori lo circondasse, alimentando la sua potenza e misericordia; considerando singolarmente ciascun attributo, li trovavo tutti dello stesso valore, però del tutto incomprensibili, immensurabili, ecc., a mente umana. Mentre mi trovavo immersa in sì alta considerazione, tornava di nuovo il mio Gesù, e prendeva a parlarmi della speranza cristiana, dicendomi dapprima: “Per ottenere la fede, bisogna credere. Senza credenza non può darsi fede. Come in cima all’uomo vi è il capo, che deve dirigere l’uomo in ogni sua operazione, così in cima di ogni altra virtù c’è bisogno della fede che ordina tutto; ma come il capo senza il senso della vista non potrebbe esimersi dalle tenebre e da ogni altra confusione, in mo­do che se volesse dirigere qualsiasi operazione dell’uo­mo nello stato di totale cecità, lo spingerebbe dove non lo avrebbe spinto se avesse avuto la vista, così l’anima senza la fede non potrebbe fare altro che andare di precipizio in precipizio. Ora, come la vista serve di guida all’uomo in ogni sua operazione, così la fede all’anima è luce illuminativa, senza della quale non si può percorrere la strada che mena alla vita eterna”.
Ora, per aversi la fede, fa d’uopo aversi prima tre cose: il germe di fede, bontà dello stesso germe e sviluppo del medesimo. Il germe viene a gettarsi in noi mercé la notizia che si ha circa l’oggetto di fede, giacché non si può certo pensare ad una cosa se non si abbia avuto prima, almeno, qualche conoscenza della medesima. La bontà del germe di fede deve riporsi in chi getta in noi questo stesso germe, giacché potrà essere vero germe di fede se sarà degna di fede la persona che ce lo dà; falso germe, se venisse falsificato da chicchessia fin nella radice. Se poi sorgesse in noi qualche incertezza dell’oggetto di cui ci dà[54] notizia, oppure circa la non esatta notizia, deve tenersi come oggetto dubbio di fede. Assicurato dunque del germe della fede e della bontà del medesimo, fa mestieri[55] che venga coltivato per farlo crescere e ben sviluppare sino alla maturità, giacché allora cessa di essere oggetto di fede, quando si ha l’intima persuasione della verità.
Dal mettere nella bontà del germe della fede ogni sua fidanza ed ogni nostra industria che il germe cresca e sempre più si sviluppi sino alla maturità, si viene a produrre in noi quella virtù, sorella della fede, qual è la santa speranza di vedere raggiunto il termine della fede e della stessa speranza, nell’oggetto di fede già conquistato. Sicché io posso dire che la notizia di Dio getta in me il seme della fede; da questo seme, ben coltivato, nasce, cresce e [si] sviluppa sempre più la luce che si riproduce dal germe della fede. La luce della fede mi dà tutte le particolarità di questo Dio, sommo mio bene; mi rivela la sua bontà, l’attrattivo amore con cui mi chiama a sé per fruire di sé, mi fa vedere in prospetto ancora tutti i benefizi che mi può fare. Sicché la notizia della sua esistenza, per me fa il germe della fede; la fede crescente in me mi avvicina sempre più a questo Ente Supremo, facendomi conoscere in parte la smisurata eccellenza d’ogni suo attributo, chi egli sia in sé e fuori di sé, ed ancora ciò che egli mi può dare, il che getta in me il seme della santa speranza; da questo seme ancora, ben coltivato, verrà il possesso, perché chi fermamente crede, spera ed opera, già possiede. La fede e la speranza operativa gettano il germe dell’amore verso l’Ente som­mamente benefico, e questo Ente, in ricambio, fa nascere in noi il germe della carità cristiana, mercé la quale si diviene operanti, simile all’Uomo-Dio.
Ora, rifacendomi da capo, dico che Gesù, parlando­mi della santa speranza, mi faceva comprendere che questa virtù somministra all’anima una veste adamantina, per cui non solo si rende invulnerabile agli strali scoccati dai suoi nemici, ma ancora imperturbabile a qualsiasi evento, giacché tutto ciò che potrà avvenirle lo riceverà con tranquillità d’animo, sapendo bene che il tutto è stato disposto da Dio, nostro sommo bene. Oh, quanto è bello vedere quest’anima investita della bella virtù della speranza, poiché, diffidando ella di se stessa, la si vede tutta fidente ed appoggiata al suo diletto, per cui, sfidando i più fieri nemici, con la massima semplicità e prudenza diviene regina delle[56] sue passioni, giacché ha tutto ben ordinato nel suo interno, e con tale maestria che Gesù stesso ne resta invaghito; ed allora, perché la vede operare con ferma speranza in lui e quindi sempre più coraggiosa ed inviolabilmente invitta e forte nel superare ogni ostacolo e cimento, le comunica novelle grazie, aiuti e soccorsi.
Ora dico che mentre Gesù mi dava lezione sulla speranza, comunicava altresì al mio intelletto una chiarissima luce, ma subito si appartava, mentre io mi trovavo tutta immersa in questa luce ed occupata a considerare quanto concerneva questa bella virtù. Ma chi può dire ciò che di essa io comprendevo? Dirò solo che tutte le virtù servono ad abbellire l’anima; non hanno però in sé quel germe, che nato e cresciuto si avvinghia sempre più a Dio, e per cui la speranza dice all’anima: “Avvicinati al tuo Dio, e sarai da lui illuminata; avvicinati a lui e sarai purificata, ecc.”; e così la fede viene sempre più ad aumentarsi, la purità ad acquistare quel candore tutto celestiale; senza di cui[57], [l’anima] sarà vacillante nella fede ed incostante nelle altre virtù, mentre seguendo la speranza nelle sue ascensioni spirituali, ogni virtù si ren­de sempre ferma e stabile, come quegli alti monti che non possono muoversi dal loro sito. A me sembra che l’anima investita della santa speranza si rende immobile come monti altissimi, ai [quali] non nuoce né le intemperie dell’aria, né gli ardori del sole, né i venti più impetuosi, né gli straripamenti di laghi, mari e fiumi, cagionati da impetuosi alluvioni allo sciogliersi di grandi masse di neve; ed inoltre, a quest’anima investita di speranza non nuoce né la tribolazione, né la tentazione, né la povertà, né l’infermità, ed altri incidenti della vita possono giungere a sgomentarla neppure per un istante solo. Ed a se stessa ella dice: “Tutto posso tollerare, tutto soffrire ed operare, fidente e sperante in Gesù”.
La santa speranza, dunque, rende l’anima quasi onnipotente ed immobile, invincibile e quasi immutabile, giacché il sempre amabile Gesù, in vista di essa, sommi­nistra all’anima la perseveranza finale, sino a tanto che non abbia preso possesso dell’eterno regno dei cieli; ed allora, deponendo l’anima ogni fede ed ogni speranza, tutta si tuffa nell’immenso oceano del suo sommo ed eterno bene.
Mentre mi sperdevo e mi affogavo nel mare immenso delle divine speranze, il mio diletto Gesù, facendosi da me rivedere, mi parlava della carità, che è fra tutte la più eccellente, che deve con le altre due virtù [affratellarsi] ed in modo tale da rendersi come una sola virtù, mentre tra loro sono tre virtù distinte.
“Ed infatti, se per poco guardi e consideri bene il fuoco, ne avrai subito una pallida idea di queste tre virtù unite tra loro, poiché non appena che si venga ad accendere il fuoco, la prima cosa che si presenta al nostro sguardo è la luce, che inonda di vivida luce tutto il dintorno, la quale è simbolo della fede che io ho infuso nel­l’anima cristiana mercé il santo battesimo. In secondo luogo, senti che si diffonde tutt’intorno, unitamente alla luce, ancora il calore; ma poi, man mano che questa viene a illanguidirsi, fin a quasi a spegnersi, senti che il calore che emana [questo] fuoco acquista maggior vigore, fino a tanto che non si consuma tutto. Così è delle tre virtù teologali: la fede si accende nell’anima alla prima notizia che ella ha circa l’Ente Supremo; poscia cresce e si sviluppa, mercé l’ascensione perenne che fa l’anima verso Dio, suo sommo bene, per cui viene ad acquistare la luce intellettuale che espansivamente si effonde da ogni attributo divino verso la sua creatura.
Questa creatura, illuminata da tale splendore di viva fede, ambisce [l’acquistabile] dell’oggetto, il che le dà fiducia di potersi procacciare un tanto bene, che è Dio; cerca, quindi, d’investigare la via più idonea alla facilità di tanto acquisto e, tutta piena di speranza, valica da ma­ne a sera, da un monte all’altro, traversando ogni valle ed estesissime pianure, traghetta laghi e fiumi, naviga per i più alti ed immensi mari, per la durata di mesi ed anni, ad unico scopo di acquistarsi non solo la benevolenza, ma il possesso ancora del suo Dio; e questa brama operativa di pervenire al possesso di Dio viene appellata amore, congiunto alle due sorelle fede e speranza. Eccoti, o mia diletta sposa, che nelle tre virtù teologali, fede, speranza e carità, ti ho adombrata la Trinità delle Divine Persone, di cui tu, presto e senza dubbio, farai perenne acquisto, col procurarci in te stabile e perpetua dimora”.
Dopo [un] intervallo di pochi minuti, il mio sempre amabile Gesù si fece vedere di nuovo, e proseguì a dirmi: “Sposa mia, se la fede è luce e serve di vista all’ani­ma, la speranza è l’alimento della fede e somministra al­l’anima quella energia e brama ardente di conquistare quei beni che sono in prospetto della fede, ed in più dà all’anima il coraggio di affrontare ardue imprese, ma sempre con tranquillità di spirito e con perfetta pace [l’anima] si rende perseverante nel perlustrare ogni via e mezzo adatto che le possa dare buona riuscita. La carità, poi, è la sostanza da cui emerge la luce e l’alimento del­la fede, senza della quale non si potrebbe avere né fede né speranza, come a pari, senza del fuoco non si potrebbe avere né la luce né calore. Ed essa, come unguento lenitivo si espande e penetra per ogni dove, recando ad effetto di maturità le brame della speranza e le vedute della fede, giacché nelle dolcezze del suo amore rende balsamico e dolce il patire, e tanto da far giungere l’ani­ma all’avidità di [questo] patire”.
L’anima, dunque, che possiede la vera carità, operando ella nell’amore e per l’amore di Dio, diffonde attorno a sé quell’odore celestiale che ha attinto dallo stes­so Dio, in modo che se tutte le virtù rendono l’anima quasi solitaria e rustica, la carità, essendo sostanza emanante luce, calore e odore soavissimo, non solo infonde in tutti, come unguento balsamico, gli effetti più che aromatici, ma unisce, anzi, fonde i cuori, mercé l’im­menso amore che ella ha verso Dio. È [questo] che fa soffrire con gioia i più acuti tormenti, tanto che l’anima che si trasforma tutta nell’amore, giunge sino a non poter più vivere senza del nudo patire, e quindi ad esclamare quando ne è priva: ‘O mio sposo Gesù, sostienimi coi fiori, stivami con l’acerbità dei pomi, cioè del patire, giacché l’anima mia languisce vieppiù per te e non posso soddisfarla se non nel dolce tuo patire! Deh, dammi, Gesù, maggiormente l’aspro tuo patire, giacché più non regge il mio core, a vederti tanto soffrire per la veemenza d’amore, che sostiene il tuo cuore per nostro amore!’. E Gesù a me: “La carità mia è fuoco che brucia e che consuma, e quando si appiglia a qualche anima tutto fa ella: mette in non cale le stesse virtù, giacché tutte le converte e le stiva intimamente a sé, in modo da rendersi regina di tutte le virtù, regnando e signoreggiando su tutte, e non mai può indursi a cedere ad altre la supremazia”.
Chi può dire ciò che tenne dietro a[58] quelle dolci ed attrattive parole di Gesù? Solo posso dire che in me si accese tale brama di patire da rendersi, direi, quasi naturale l’agognare qualsiasi pena e sofferenza, tanto che d’allora in poi ritenni come la più grande sventura l’es­serne priva. Dopo che io feci le solite riflessioni su quanto mi fu detto da Gesù, si fece egli di nuovo da me vedere e sentire, dicendomi: “Sposa mia, ora fa bisogno che tu abbia quella predisposizione e prevalenza di animo, che ti faccia maggiormente toccare e aderire all’an­nientamento di te stessa; questo deve precedere quel grande ed incentivo desiderio che hai di voler sempre più patire. Sappi che l’annientamento di te stessa ti fa meritare non solo la grazia del patire, ma dispone l’ani­ma a saper tutto ben patire, in tutto ciò che potrà toccarla molto da vicino. Oltre a ciò, il desiderio di patire supplisce al vero e reale patire, ed in mancanza di questo, l’annientamento di te stessa ti servirà di penoso am­manto, che supplirà a qualsiasi più alto e più aspro patire”.
Finalmente, mentre me ne stavo considerando dapprima quel parlare dolce di Gesù, che infonde nell’ani­ma molto più di quella verità che manifesta a parole, mi eccitavo quindi con ardenti brame di ricevere la grazia di potermi rendere tutta, tutta sua, ed a seconda della sua Volontà, egli ritornò, ed in men che si dica mi tirò fuori di me stessa, e l’anima mia, seguendo le attrattive deliziose del suo amore, superava appresso a lui qualsiasi difficoltà che s’incontra nell’attraversare i cieli, e quasi senza accorgersi dell’eseguito tragitto dalla terra, si trovò in paradiso, al cospetto della Santissima Trinità e di tutta la corte celeste, per indi procedere alla rinnovazione del mistico sposalizio eseguito già in terra tra Gesù e l’anima mia nel giorno della purità della Vergine Maria, sua Madre, la quale, unita a santa Caterina, assistette a quella prima cerimonia. Invece ora, festa della natività della stessa Santissima Vergine, undici mesi dopo, Gesù vuole che si abbia la sanzione delle Tre Divine Persone, e perciò mise fuori un anello fregiato da tre preziosissime pietre, di cui la prima bianca, la seconda rossa, la terza verde; poscia lo consegnò al Padre, che lo benedisse e poi lo restituì all’Unigenito suo Figlio, e mentre lo Spirito Santo mi teneva la mano destra, Gesù mise al mio dito anulare il suddetto anello, e subito dopo fui ammessa al bacio delle Tre Divine Persone, le quali, una dopo l’altra, m’impartirono una speciale benedizione. Chi potrebbe dire la confusione che provai, sia quan­do mi trovai al cospetto della Santissima Trinità, che durante l’effettuazione della suddetta cerimonia? Dico sol­tanto che il trovarmi al cospetto della Trinità ed il cadere bocconi a terra fu un atto solo, e sarei rimasta così prostrata chissà quanto, se il mio Gesù, sposo dell’anima mia, non mi avesse incoraggiata a rialzarmi ed a recarmi dritta alla loro presenza; il che, se procurava da un canto il massimo giubilo e contentezza al mio cuore, da [un] altro mi sentivo come schiacciata ed annientata dinanzi a tanta maestà, [la] quale m’incuteva riverenziale timore e gioia ineffabile ed inesprimibile, nella eterna luce che emanava l’Essenza e santità di Dio Padre, Figliolo e Spirito Santo.
Delle altre cose mi conviene far silenzio, per non dire altri spropositi, più di quanti ne ho detti finora, giacché il nostro umano linguaggio non ha vocaboli capaci a far comprendere, sia con la parola che con gli scritti, tut­te le impressioni divine che toccarono l’anima mia.
Passo, quindi, a narrare ciò che seguì al ritorno della mia anima nel corpo, il quale mi tenne quasi del tutto nell’attrattiva virtuale di quanto era avvenuto in me, e come morta sentivo tanti dolori e pene che mi facevano quasi presagire prossima la mia morte. Se non che Gesù, dopo pochi giorni, mi fece riavere del tutto; e ricordo che nel fare la comunione, facendomi perdere i sensi del corpo, con le potenze dell’anima mi avvidi essere dinanzi a me la Santissima Trinità come la vidi nel cielo, e subito le potenze dell’anima si prostrarono ad adorarla, facendomi confessare il mio proprio nulla, giacché mi sentii allora talmente sprofondata in me stessa, che non ardivo balbettare nemmeno una parola, quando una voce di mezzo a loro si fece a dirmi: “Fatti coraggio; non temere. Siamo per confermarti nostra e prendere totale possesso del tuo cuore”. Mentre sentivo questa voce, vi­di la Santissima Trinità che entrava in me e s’imposses­sava del mio cuore, dicendomi: “Eccoti che nel tuo cuore formiamo la stabile e perenne dimora nostra”.
Quale fu il cambiamento che avvenne in me, non sa­prei spiegarlo, perché mi sentivo come divinizzata, non vivente più io in me, ma bensì Loro vivevano in me ed io in Loro, tanto che a me parve come [se] il mio corpo divenisse allora abitazione del Dio vivente in me, e sentivo quindi la reale presenza delle Tre Divine Persone, che sensibilmente agivano nel mio interno[59]; sentivo la loro voce che uscendo fuor di me si [ri]percuoteva chiara e sonora al mio udito. E tutto ciò avveniva precisamente come quando vi sono persone in una stanza attigua ad un’altra, da cui si sente chiaramente tutto ciò che esse dicono fra loro, sia per la prossimità del luogo, sia per le voci che, sonore, si fanno sentire al di fuori della propria stanza. Fu allora che il mio diletto Gesù si fece a dirmi che io dovevo cercare sempre lui in ogni bisogno, non altrove e non fuori di me, ma sempre dentro di me, anzi nell’intimo del cuore; e difatti, d’allora in poi l’ho sempre cercato nel mio cuore e l’ho trovato; ed altre volte ancora, essendo uscito fuor di me, nel chiamarlo mi ha tosto risposto e svelatamente parlato, come possono parlare fra loro due persone. Devo però confessare che talvolta egli si è nascosto talmente in me da non farsi più sentire, ed allora, dopo averlo invocato e cercato per qualche tempo, non sentendolo in me né muoversi né pronunciare parola, mi son fatta ardita di girare cielo, terra e mare, per andare in cerca di lui; ma mentre, talvolta, mi trovavo nella foga della corsa, ed altre volte nella foga delle lacrime per l’intensità delle brame, e nelle pene le più inenarrabili per averlo perduto, Gesù ha fatto sentire la sua voce nel mio interno: “Io sto qui con te, non mi cercare altrove; sono in te a riposare, ma veglio su te”.
Ed io, tra la meraviglia ed il contento di sentirlo dentro di me, gli dicevo: “Gesù, mio bene, come mai questa mattina mi hai fatto girare e rigirare cielo, terra e mare, a fine di ritrovarti, mentre te ne stavi dentro di me? Perché non mi hai detto almeno ‘sono qui’, che io non mi sarei tanto e poi tanto affaticata nel cercarti dove non eri? Vedi, dolce mio bene, cara mia vita, vedi un po’ come sono stanca, non ho più forza, mi sento venir meno… ; deh, sostienimi fra le tue braccia, che mi sento morire!”.
Gesù, allora, tutto carità, mi sollevava, prendendomi fra le sue braccia, per farmi qualche volta riposare, ma in ogni modo mi restituiva le forze perdute. Altre volte, poi, mentre Gesù se ne stava così nascosto in me ed io nel bisogno lo cercavo, lui si faceva vedere dentro di me e poi usciva da dentro il mio cuore; ma nell’atto di uscire, non più Gesù, ma tutte e Tre le Divine Persone, svelatamente io vedevo, ed ora in forma di tre graziosissimi bambini, ora un solo corpo con tre teste distinte, ma di una stessa bellezza unica e al[60] tutto attraente… Chi può dire, ora, il mio contento, specialmente quando questi tre bambini si facevano stringere fra le mie braccia? Io baciavo ora l’uno, ora l’altro, e questi mi ricambiavano dei loro baci; e poi, uno si appoggiava alla mia spalla destra, l’altro alla sinistra, ed il terzo mi si metteva di fronte. Mentre io così mi beavo di loro, tra la più grande ammirazione e meraviglia che si possa mai dare alla creatura dal suo Dio, veniva ad accrescere la mia meraviglia vedere che mentre miravo l’uno, miravo in que­st’uno tre, e viceversa: guardando tutti e tre, se ne formava uno. L’altra meraviglia era, poi, nell’atto che, mentre tenevo uno fra le mie braccia, o tutti e tre insieme, sentivo sempre il medesimo peso, giacché tanto di peso sentivo nel tenere uno quanto a tenerli tutti e tre insieme; e di più sentivo tanto amore per ciascuno di loro, quanto verso tutti e tre, e tanto mi attirava a sé ciascuno separatamente, quanto mi attirano tutti e tre insieme. Uno era il modo di attrazione, poiché come era quello dell’uno, era quello dell’altro... Ed ora che le cose che, non per dire[61], avrei dovuto passare sotto silenzio, giacché ne ho dette molte ed a lungo, non posso non ubbidire a chi prese a dirigere l’anima mia, e continuo.
Ritornando ora daccapo, dirò che mentre Gesù si benignava di parlarmi spesso della sua passione, cercava predisporre l’anima mia all’imitazione della sua vita, dicendomi: “Sposa mia, oltre allo sposalizio già compiuto, ci resta ora da fare un altro, appellato sposalizio della croce. Sappi che le virtù allora si rendono dolci ed amabili, quando vengono avvalorate e fortificate nell’innesto della croce. Prima della mia venuta in terra, le pene, gli obbrobri, i dolori, la povertà, la malattia ed ogni specialità di croci, erano tenute in conto di una vera confusione ed infamia, ma dacché furono sofferte da me, tutte vennero ad essere santificate e divinizzate dal mio contatto, sicché cambiarono aspetto, in quanto che si resero dolci e gradite, e l’anima che ha il bene di averne qualcuna si stima più che onorata, e questo avviene perché ha ricevuto la mia divisa, rendendosi così figliuola di Dio. Sperimenta invece il contrario chi guarda e si ferma nella corteccia della croce, che trovandola molto amara, ne prende disgusto e ne dà lamento, giacché la riceve come se le fosse data a torto; ma chi vi ha penetrato dentro, trovandola molto gustosa e salutare, forma in lei la sua felicità. Sposa mia, non altro io bramo che di crocifiggerti quanto prima, sia nell’anima che nel corpo”.
Mentre Gesù così parlava, io [mi] sentivo infondere tale brama di essere con lui crocifissa, che spesso spesso andavo ripetendo: “Gesù mio, amor mio, fa presto a cro­cifiggermi teco”. E quando egli tornava, la prima do­manda che gli facevo e che ritenevo più importante, era circa le pene e i dolori dei miei peccati e la grazia di essere crocifissa con lui; e mi sembrava che, ottenendo questo, avrei potuto stimarmi quanto mai soddisfatta, perché credevo che con ciò avrei ottenuto tutto.
Una mattina, finalmente, il mio amatissimo Gesù si presentò a me dinanzi, in forma di crocifisso, e mi disse che voleva veramente crocifiggermi con lui; e mentre ciò diceva, io vidi che dalle sue sacratissime piaghe uscivano raggi di luce, in cui si scorgevano i chiodi, che si dirigevano verso di me; ed in quel mentre era tanto il desiderio perché Gesù mi crocifiggesse, che mi sentivo tutta consumare dall’amore del patire, ma però in quel momento fui sorpresa da un grande timore che mi fece tremare da capo a piè, e cominciare indi a sentire tale annientamento di me stessa, che mi credetti del tutto indegna di ricevere sì rara grazia, per cui non osavo più dire: “Signore, crocifiggimi teco”.
Gesù, intanto, pareva che attendesse il mio consenso per comunicarmi sì segnalata grazia, ed in questo conflitto la durai un pezzo; ma mentre nell’intimo dell’ani­ma mi faceva sentire sì grande ed ardente desiderio di chiedere tale grazia, dall’altra sentivo tutta la mia indegnità, e la natura fremente, tremante e spaventata, si arrestava dal domandare a Gesù di essere crocifissa. E mentre ero in questo stato d’animo, il mio diletto Gesù intellettualmente m’incitava ad accettare tale grazia, tanto che conoscendo allora il suo Volere, mi feci animo a dirgli: “Sposo santo e crocifisso amor mio, deh, ti prego, che mi voglia al fine concedere la grazia di essere anch’io crocifissa con te; e nel tempo stesso ti prego che non faccia comparire esteriormente alcun segno della grazia che mi fai. Sì, dammi presto ogni tua sofferenza e dolore, dammi le tue piaghe, ma che tutto ciò che possa avvenire su di me sia ad altri nascosto, ma solo noto tra te e me”.
E così la grazia chiesta mi fu accordata; e tosto quei raggi di luce, assieme ai chiodi, si spiccarono da Gesù crocifisso e vennero a ferire me, trapassandomi mani e piedi, mentre un altro raggio di luce più risplendente, assieme ad una lancia, venne a trapassarmi il cuore. Chi potrebbe dire il mio grande contento e dolore insieme, sopra ogni altro dolore, che provai in quel fortunato momento? Per quanto grande fu il timore e tremore che mi aveva invasa poco prima l’anima, altrettanto fu grande la pace, il contento ed il dolore che provai; e que­st’ultimo fu tanto acuto, che io mi sentivo nelle mani, nei piedi e nel cuore, da farmi presentire già prossima la morte. Le ossa delle mani e dei piedi me le sentii frangere in minutissimi pezzi, giacché sperimentavo l’azio­ne del chiodo dentro a ciascuna ferita; non posso però non asserire ancora che tali piaghe mi procuravano sì dolce contento da non saperlo esprimere a parole, e la mia meraviglia si fece vivissima nel sentirmi comunicare tale energia e forza che, mentre per il dolore mi sentivo morire, venivo dallo stesso dolore sostenuta ed invigorita in tal modo da non farmi morire. E di più, mentre esteriormente niente compariva, corporalmente sentivo i più spasimanti dolori; ed allorché venne il confessore per chiamarmi all’obbedienza, e dovette quindi sciogliermi le braccia che per l’attrazione dei nervi erano impietrite, provai dolori mortali in quei punti dove i rag­gi di luce insieme ai chiodi e [alla] lancia mi avevano toccata. E questi[62] per obbedienza comandò che cessassero subito; ed infatti, mentre questi[63] erano tanto acuti da farmi totalmente smarrire i sensi, all’istante si mitigarono di molto.
O prodigio della santa obbedienza, tu sei stata tutto per me! Oh, quante volte non mi sono trovata in contrastabile conflitto con la nostra sorella morte, e l’obbe­dienza, facendomi calmare l’atrocità d’ogni spasimo e dolore di morte, mi restituiva tosto la vita; e dico francamente che se questi [dolori], all’obbedienza del confessore non si fossero mitigati alquanto, difficilmente mi sarei assoggettata all’autorità di esso. Ma sia sempre benedetto il Signore, che tale potestà concesse ai suoi ministri, di far sottrarre anche dalla morte la sua preda. Perciò mi auguro che tutto sia stato di sua maggior gloria e di salvezza delle anime.
Devo ancora far notare che, allorché uscivo dal mio mortale assopimento, dei suddetti segni nulla più si vedeva sul mio corpo, mentre tornando ad assopirmi vedevo chiaramente impresse le piaghe del mio Gesù, per cui mi sembrava come se le piaghe di Gesù crocifisso si fossero come incastonate nelle mie mani, piedi e cuore, in tal modo da farmele vedere come se fossero quelle stesse del mio Gesù. Di quanto ho detto sin qui, non riguarda altro che lo sposalizio di croce e delle pene che soffrii nella prima crocifissione, perché delle altre sopportate nel corso degli anni seguenti sono tali e tante, che mi sarebbe impossibile numerarle tutte; ma giacché si vuole che metta qualcosa su carta, dirò alla men peggio le più principali e che più mi toccarono da vicino, in riguardo alle su accennate crocifissioni sopportate sino al 1899.
Innanzi tutto, però, è da notarsi che ogniqualvolta Gesù tornava dopo avermi fatta soffrire la crocifissione, ripetutamente io gli dicevo: “Mio diletto Gesù, deh, dammi il vero dolore dei miei peccati, affinché consumati dal dolore e pentimento di averti offeso, possano essere cancellati dall’anima mia ed anche dalla tua memoria. Sì, mio bene, dammi tanto dolore per quanta arditezza v’è stata in me nell’offenderti; anzi, fa che il dolore superi ogni affetto nutrito per il peccato, affinché eliminato, anzi distrutto dal dolore, possa io più intimamente stringermi a te”. E Gesù, mentre una volta gli chiedevo tale grazia, benignamente mi disse: “Giacché tanto ti dispiace d’avermi offeso, voglio io stesso disporti al dolore. Così potrai comprendere la bruttezza del peccato e l’acerbità del dolore che reca al mio cuore. Perciò fa di dire insieme con me queste parole: “Se io trapasso il mare, nel mare sempre tu sei, sebbene non ti vedo; calpesto la terra e tu mi stai sotto i miei piedi; peccai”. E Gesù, sottovoce, quasi piangendo, soggiunse: “Eppure ti amai, e nello stesso tempo ti conservai”.
Mentre Gesù mi suggeriva le dette parole, venivo a comprendere tante cose che mi è impossibile ridire tutto… Dico solo che prima d’ogni altro compresi l’im­mensità, la grandezza e la presenza di Dio in ogni cosa, e che mercé questo suo attributo non sfugge a lui nemmeno l’ombra del nostro pensiero; e di più, [compresi] il mio nulla, che messo a confronto di una maestà sì grande e sì santa, si riduce [a] meno che ombra.
Nella parola ‘peccai’, compresi la bruttezza del peccato e la mia malizia e temerità, per l’enorme affronto fattogli col posporlo alla soddisfazione di un momento; quindi fui presa da sì veemente dolore nel sentirmi quel­le parole: “Eppure ti amai e conservai”, che mi sentii morire, poiché mi fece egli comprendere l’immenso amore che mi portava, anche nell’atto stesso in cui lo mettevo al disotto di un lieve piacere, per cui l’offen­devo e quasi uccidevo. Ah, Signore, per quanto sei stato buono con me, altrettanto ingrata e cattiva sono stata io per te! Deh, muoviti a pietà di me, col farmi sempre sen­tire tanto dolore dei miei peccati, per quanto è stato, è e sarà sempre, il tuo amore verso di me!
Dal momento che il mio amabilissimo Gesù mi fece ben comprendere quanta malizia v’è in chi commette il peccato, e quanta malizia ed arditezza vi racchiude in sé chi osa stimar Iddio meno di un vilissimo piacere, non solo mi guardavo dal commettere qualsiasi minimo difetto, ma paventavo ancora l’ombra del peccato che involontariamente avesse potuto menomamente affacciarsi alla mia mente. In quanto poi a quelli commessi per il passato, sentivo tale ribrezzo e rossore, da farmi credere, fra tutti, la più scellerata, in modo che d’allora non facevo altro, quando mi compariva il mio Gesù, che chiedergli sempre più dolore dei miei peccati e l’attua­zione della crocifissione promessami. Ed una mattina, mentre si faceva sentire sempre viva in me la brama di voler sempre più patire, venne l’amabilissimo Gesù, e tirandomi fuori di me stessa, trasportò l’anima mia a far vedere un uomo che veniva ucciso a colpi di rivoltella e già era per esalare l’anima sua, il quale stava per divenire preda dell’inferno. Allora Gesù, nella sua più profonda mestizia, mi fece compenetrare in tal modo in sé, sino a farmi comprendere l’acerbissimo schianto del suo cuore per la perdita di quell’anima. Oh, se il mondo conoscesse quanto soffre Gesù per la perdita eterna delle anime, son sicura che gli uomini, per risparmiare almeno a Gesù quel sì straziante dolore, userebbero tutti i mezzi possibili per non andare eternamente perduti! Ora, mentre con Gesù mi trovavo in mezzo a quella esplosione di palle, egli mi si strinse maggiormente d’appresso e mi sussurrò all’orecchio: “Sposa mia, non vuoi tu offrirti vittima per la salvezza di quest’anima e prendere su di te le pene che merita costui per i suoi gravissimi peccati?”.
Ed io: “Ben volentieri, mio Gesù, prendo su di me tutto ciò che egli ha meritato, a patto però che tu lo salvi e gli restituisca la vita”. Sì dicendo, Gesù mi fece tornare nel corpo, e mi sentii immersa in tali e tante sofferenze, che io stessa non so come potetti ancora sopravvivere. Mi trovavo intanto da più di un’ora in questo stato di sofferenze, quando il mio Gesù permise che venisse il confessore a chiamarmi all’obbedienza e farmi riavere, ma trovandomi tanto sofferente, stentatamente potette ottenere di essere ubbidito; e domandata da lui la causa di tante sofferenze, gli narrai tutto ciò che poc’anzi avevo visto, indicandogli di più il punto del paese in cui era avvenuto l’omicidio; e questi, a sua volta confermò l’omicidio, accaduto proprio nel luogo da me indicato, ed aggiunse che tutti lo ritenevano come morto. Io però gli dissi che non poteva ritenersi per morto, dal momento che Gesù mi ha promesso non solo di salvargli l’anima, ma quanto che lo manterrà in vita; e tanto vero che per ottenere ciò ho dovuto molto lavorare con la grazia del Signore a non far uscire il suo spirito dal corpo. Si venne infatti poi a sapere che, per quanto lo si era ritenuto da tutti per morto, cominciando indi a riaversi, a poco a poco si rimise in salute, e tanto che vive tuttora. Sia sempre benedetto il Signore.
Ritornando ora alle ardenti brame che sentivo, di essere crocifissa con Gesù, e ciò per amore verso del mio sommo bene, e per espiazione e riparazione del mio pas­sato, Gesù se ne venne da me, facendomi di nuovo uscire come altre volte fuori di me stessa; trasportò l’anima mia sino ai luoghi santi dove egli patì la sua dolorosa passione, e girando per quei santi luoghi ci si fecero innanzi alla vista molte croci, ed il mio diletto Gesù mi disse: “Sposa mia, se tutti sapessero che bene inapprezzabile contiene in sé la croce, e come rende l’anima preziosa, tutti indispensabilmente la agognerebbero, poiché chi ha il bene di possederla si acquista con essa una gemma d’inestimabile valore. Basta solamente dirti che io, venendo dal cielo in terra, non scelsi le ricchezze e i piaceri della vita, ma bensì ebbi come più care ed intime sorelle la croce, la povertà, le ignominie ed il più crudo patire, tanto che a vista di esse ho sempre ardentemente desiderato che presto si appressasse il tempo della mia passione e morte di croce, giacché in questa io riposi la salvezza delle anime”.
Mentre Gesù così parlava, mi faceva provare tutto il gusto e gioia insieme, che egli ebbe a partecipare nel suo patire, ed in modo tale che le sue parole m’infiam­marono il cuore di desiderio sì ardentissimo di patire e di sì santo trasporto e brama insieme, perché mi rendesse al più presto simile a lui crocifisso; per cui cercai con quanta voce e forza contenevo in me, di supplicarlo così: “Deh, sposo santo, dammi il patire, dammi la tua cro­ce, acciò possa conoscere meglio quanto mi ami, che al­trimenti sarò sempre a vivere nell’incertezza se il tuo amore sia tutto per me, che ho [rinunciato] a tutto per te”.
Allora Gesù, compiacendosi più che mai delle mie suppliche, permise che mi distendessi su di una di quelle croci già vedute, e quando fui ben distesa lo supplicai che fosse venuto a crocifiggermi; ed egli amorevolmen­te prese un chiodo e cominciò a trapassare con quello la mia mano, e di tanto in tanto mi domandava: “Che, ti duole assai? Vuoi che non continui?”.
“No, no, dilettissimo, continua; benché mi dolga, son pur contenta che tu mi crocifigga”. Ma nello stesso momento ebbi quasi un presentimento che Gesù non avesse più a continuare, per cui mi feci a dirgli: “Gesù, Gesù, fa presto, fa presto, non la prendere così per le lunghe!”. E così avvenne, poiché quando egli prese ad inchiodarmi l’altra mano, le braccia della croce si raccorciarono, mentre prima erano adatte all’uopo; e così Gesù mi schiodò l’altra mano e mi disse: “Sposa mia, fa bisogno di trovare altra croce; perciò alzati e rinfrancati per ora”. Come descrivere, ora, la mortificazione che provai in me? Fu tanta che nella mia più grande confusione esclamai: “Ah, sì! Non sono ancora degna d’un tanto patire…!”. E dire che questi scherzi si ripetettero per parecchie volte, in modo che se talvolta le braccia della croce erano adatte, disadatta era la lunghezza della stessa, mentre altre volte faceva sì che mancasse qualche cosa necessaria al compimento della mia crocifissione. Insomma, per non crocifiggermi Gesù trovava sempre qualche pretesto, per rimandarla ad altro tempo. Oh, quanta amarezza non ha provato l’anima mia in questi ripetuti contrasti col mio Gesù, e quante volte non mi sono giustamente lamentata con lui, perché mi negava tutto il vero suo patire; per cui spesse volte, e con l’animo più che mai amareggiato, gli dicevo: “Diletto mio, a quel che pare, il tutto finisce in burla! Ed infatti, mi dicesti che mi avresti portata una volta per sempre in cielo, e tante volte mi hai fatta ritornare alla terra per abitare questo corpo. Mi dicesti ancora che amavi crocifiggermi, per far che mi rassomigliassi a te, eppure mai mi fai giungere alla completa crocifissione!”.
E Gesù: “Si farà, si farà presto; non dubitar di me, che si farà”.
Finalmente una mattina, nel giorno dell’esaltazione della croce[64], venne Gesù, e tutto frettoloso mi trasportò di nuovo nei luoghi santi di Gerusalemme, e dopo aver­mi fatto considerare tante cose concernenti il mistero e le virtù della croce, si fece affabilmente a dirmi: “Vuoi tu, diletta mia, essere tutta bella? Contempla la croce, che essa ti darà i lineamenti più belli che si possono trovare e in cielo e in terra, tanto da far innamorare Iddio, che pure in sé contiene tutte le infinite bellezze. Vuoi tu essere ripiena di immense ricchezze, e non per breve tempo, ma bensì per tutta l’eternità?
Ebbene, se in te è entrata la brama di possedere il cielo con tutte le sue ricchezze, innamorati sempre più della croce, che essa ti somministrerà tutte le ricchezze, cominciando dai minutissimi centesimi, quali sono le più piccole sofferenze e di qualsiasi specie, sino alle più incalcolabili somme, quali le procurano le croci più pesanti. Intanto gli uomini, poiché son divenuti tanto avidi nel procacciarsi il minimo guadagno d’un mero soldo temporale, che presto dovranno poi abbandonare, non si danno alcun pensiero di acquistare un centesimo di bene eterno; e quando io, avendo compassione di loro per la spensieratezza che hanno per tutto ciò che riguarda il bene eterno, benignamente porgo loro l’occasione di profittarne, questi, invece di essermi grati, si sdegnano verso di me e mi offendono con la loro ostinazione. Vedi figlia mia, quanta cecità nella povera umanità? Nella croce invece vi sono racchiusi tutti i trionfi ed i più grandi acquisti e vittorie. Tu, intanto, non aver altra mira se non la croce, perché questa basterà e supplirà a tutto. Voglio perciò quest’oggi contentarti, col crocifiggerti completamente su quella croce che finora non bastava a farti ben distendere. Questa croce, sappi, è quella che ha attirato su di te le dolci attrattive del mio amore e che m’induce a crocifiggerti completamente su di essa. Quella croce, perciò, che hai tollerata sin ora, me la por­terò in cielo, per averla come pegno del tuo amore e mo­strarla a tutta la corte celeste come testimonianza del tuo amore per me; ed io, in luogo di questa, farò discendere dal cielo su di te un’altra più grave e dolorosa, affin di appagare le tue ardenti brame di patire, e per far sì che presto vengano a completarsi gli eterni miei disegni su di te”.
Dopo aver ciò detto Gesù, si presentò a me dinanzi quella croce altre volte da me vista, ed io, piena di gran contento, mi appressai subito a lei, la presi per deporla a terra, e quindi mi distesi su di essa; e mentre così mi disponevo per essere crocifissa, si aprì il cielo, e tosto vi discese l’evangelista san Giovanni, che portò la croce di cui Gesù mi aveva già parlato; indi, arrivò la Regina Mamma con moltissimi angeli, che facevanle corona, ed allorché si fecero appresso a me mi tolsero da sopra quella croce e mi adagiarono sull’altra portata da san Giovanni, che era più grande. Un gelo di morte s’im­possessò di tutta la mia persona, pur sentendo nel cuore una nuova fiamma d’amore, che tanto mi faceva agognare il patire della croce. Un angelo, intanto, ad un cenno di Gesù prese tosto la prima croce e se la portò verso il cielo, mentre egli[65], dopo ciò detto, di propria mano cominciò a crocifiggermi; e mentre la Regina Mamma mi assisteva, gli angeli e san Giovanni si fecero d’appresso per porgere i chiodi ed altro necessario al­l’uopo, alla mia crocifissione. Nell’atto di crocifiggermi, il benignissimo Gesù mostravami tale contento e gioia, che avrei voluto soffrire non una, ma mille crocifissioni ed altre pene ancora, per accrescergli sempre più quel dolce contento; e nello stesso tempo mi sembrava vedere come se il cielo fosse tutto parato a novella festa di gloria per me, e ciò per aver procurato a Gesù quel con­tento, ed alle anime del purgatorio liberazione e copioso suffragio, ed ai peccatori pentimento del mal fatto, oltre alla conversione di parecchi altri, giacché il mio diletto sposo Gesù fece a tutti partecipi [di] quel bene che si operava mercé la mia buona disposizione a tutte le sofferenze che sono inerenti alla crocifissione.
Quando poi tutto fu compiuto, mi sentii come nuotare in un mare di contenti, misto ad un mare di pene e di dolori inauditi. La Regina Mamma, volgendosi a Gesù, gli disse: “Figlio mio, oggi è giorno di gloria; perciò voglio che le partecipiate tutte le vostre pene, e che, a compimento di quanto si è fatto, venga il suo cuore trapassato dalla lancia, ed alla testa le si rinnovi la coronazione di spine”. E Gesù, obbedendo alla Mamma, prese una lancia e con essa mi trapassò il cuore da parte a par­te, mentre gli angeli, prendendo una corona di spine, gliela porsero alla Vergine Santissima, la quale, nel massimo suo contento ed a mia grande soddisfazione, me la conficcò benignamente nel capo. Che giorno memorabile non fu mai quello per me! Può veramente dirsi giorno di sommo gaudio e di sommo dolore, giorno d’indicibili pene e d’ineffabili gioie! In quanto al mio contento, basta dire che Gesù in tutta l’intera giornata non si mosse d’accanto a me, per sorreggere la mia naturale fralezza, la quale, senza la sua grazia, sarebbe venuta meno per l’acerbità delle pene e sofferenze; e per maggior mio contento, Gesù permise che le tante anime del purgatorio, che mercé l’applicazione delle mie pene erano state inviate al paradiso, vi scendessero dal cielo unitamente agli angeli, affinché circondando il mio letto mi ricreassero coi loro celestiali canti, specie con quello cosiddetto ‘il cantico di allegrezza’, che si fa in rendimento di grazie a Dio lassù nei cieli, e detto ancora ‘inno di ringraziamento’.
Dopo cinque o sei giorni d’intensissime pene, con mio grande rammarico mi accorsi che di giorno in giorno cominciarono a decrescere, e sarebbero del tutto cessate se non avessi fatto calda insistenza presso il mio sposo Gesù, che avesse almeno temporeggiato, per cui sentii in me sì eccessivo amore al dolce patire, che mi feci[66] a manifestarlo al mio buon Gesù, e nello stesso tempo a supplicarlo, affinché mi rinnovasse la già subita crocifissione; e Gesù, dal canto suo compiacendosi di me, di tanto in tanto mi contentava, trasportando di nuovo l’anima mia nei luoghi santi di Gerusalemme, e quando più, quando meno, mi partecipava le pene subite da lui lungo i giorni della sua passione e morte in croce. Mi faceva quindi soffrire, ora la sua flagellazione, ora la coronazione di spine, ora mi faceva provare le sofferenze che egli ebbe a soffrire nel portare il pesante legno della croce al Calvario, e talvolta ancora la crocifissione. Compiacendosi Gesù di farmi soffrire ora l’uno, ora l’altro di questi misteri, e talvolta in un solo giorno tutta intera la sua passione, procuravami l’aumento del sommo mio contento e dell’estremo mio dolore. Invece mi riusciva più che mai penoso e straziante al mio cuore allorché mi toccava vedere Gesù soffrire, ed io priva di [ciò], ma soltanto spettatrice del tanto suo patire, per cui smaniavo dall’ansia di poter entrare almeno a parte dei suoi dolori. Oh, quante e quante volte non mi sono trovata con la Regina Mamma, a veder soffrire Gesù pene acerbissime, a causa delle offese che si perpetrano da uomini malvagi, e più malvagi degli stessi Giudei che lo catturarono e gli diedero la morte! Ah, sì, fu allora che più che mai mi convinsi che è pur vero che, per chi ama, riesce più facile soffrire che veder soffrire la persona amata!
E fu appunto per questo che io mi sentivo spinta dall’amore verso il mio diletto Gesù a supplicarlo che mi rinnovasse spesso spesso queste crocifissioni, e ciò per alleviargli, almeno in parte, le sue pene; e Gesù mi diceva: “Diletta mia, la croce ben sopportata ed ardentemente bramata fa ben distinguere i predestinati dai reprobi, i quali sono sì ricalcitranti ad ogni patire. Sappi che nel giorno dell’universale giudizio, gli amanti della croce, al vederla comparire, oh, quanto non si rallegreranno, mentre i reprobi saranno presi ed assaliti da orribile spavento.
Fin da ora, diletta mia, si può senza dubbio asserire se quel tale dev’essere uno dei salvati o eternamente perduto, poiché se questi al presentarsi la croce l’ab­braccia e con rassegnazione e pazienza mi segue, e di tanto in tanto la bacia, ringraziando Colui che gliel’ha inviata, è segno evidente e più che sicuro di essere costui nel numero dei salvi; ma se all’opposto, al presentarsi la croce, la persona s’irrita, la disprezza, e vorrebbe ad ogni costo sottrarsi da essa, già meritata a causa delle sue dissolutezze, può tenersi come segno certo che cammina per la via dell’inferno. E quindi, i reprobi, se a vista della croce mi offendono in vita, nel giorno del giudizio più che mai mi bestemmieranno, vedendo comparire la croce, che incuterà loro l’eterno terrore. La croce poi, figlia mia, è il distintivo del vero cristiano. Essa dice tutto, perché come un libro aperto fa distinguere a chiare note e senza inganno di sorta il santo dal peccatore, il perfetto dall’imperfetto, il fervoroso dal tiepido. La croce comunica inoltre, a chi è ben disposto, tale luce, che fin d’ora non solo fa distinguere il buono dal reo, ma fa ancora conoscere chi dev’essere più o meno glorioso in cielo, e chi deve occupare in esso un posto più o meno eminente. Oltre a ciò, tutte le virtù dinanzi all’eccellenza della croce si fanno dimessamente umili e riverenti; e sai quando acquistano maggior lustro e splendore? Allorché si sono ben bene innestate con essa”.
Come poter esprimere a parola le tante fiamme d’amore verso la croce, che Gesù col suo parlare infuse nel mio cuore? Basta dire che fui presa da tali smanie di patire, che se Gesù non avesse appagato il mio cuore col rinnovarmi spesso spesso la crocifissione, mi sarei, cer­to, martirizzata fra i più atroci tormenti dell’amore. Aggiungo che, alle volte, dopo avermi rinnovato Gesù queste crocifissioni, mi diceva:
“Diletta del mio cuore, giacché brami sì ardentemente la fragranza che emanano i dolori della mia croce, io non solo ti appago col crocifiggerti l’anima, comunicandoti ogni dolore, ma desidero suggellare anche il tuo corpo col suggello evidente delle mie sanguinose piaghe, se non fossi così ritrosa di poter manifestare a tutti quanto tu mi ami. A tal fine, voglio insegnarti la seguente preghiera, che tu farai per ottenere questa grazia:
‘Io mi presento al trono della Santissima Trinità, e siccome bagnata nel sangue di Gesù Cristo, ardisco prostrarmi in segno di profonda adorazione e supplicarla che, per i meriti delle preclarissime virtù di Gesù e della sua divinità, voglia concedermi la grazia di essere sempre crocifissa’ ”.
Siccome, poi, ho avuto sempre avversione a tutto quello che avesse potuto comparire esternamente, come tuttora persiste, così nell’atto che Gesù m’infondeva maggior brama di essere crocifissa a piacer suo, non ardivo oppormi a che mi avesse crocifissa nell’anima e nel corpo; ma ravvisando subito quanto accettavo spensieratamente nella foga, con animo risoluto dicevo a Gesù: “Sposo santo, segni esterni non appariscano mai in me; e se talvolta senza alcuna riflessione avessi accettato cosa appariscente, non ho avuto però mai l’animo di acconsentirvi, poiché tu sai quanto io abbia amato sempre la vita nascosta. Perciò ti prego, allorquando vorrai rinnovarmi la crocifissione, che quei dolori siano permanenti e senza alcun alleviamento di sorta. Questo solo io bramo, questo mi basta, e non segni esterni, i quali mi farebbero distruggere dalla vergogna”.
Se molto mi tormentava il pensiero che certi segni esterni potessero manifestarsi esternamente, tanto più che senza considerazione avevo implicitamente acconsentito alla Volontà di Gesù, non meno mi tormentava il pensiero dei peccati trascorsi; e per questo tornavo spesso spesso a domandare a Gesù il dolore e la grazia della loro remissione, per cui giungevo a dirgli che allora sarei rimasta tranquilla e contenta, quando egli mi avesse detto di sua bocca: “Ti sono perdonati tutti i tuoi peccati”.
E Gesù benedetto, che nulla sa negare quando ciò che si domanda ridonda a nostro spirituale vantaggio, facendosi una mattina più condiscendente del solito, mi disse: “Questa mattina voglio io stesso fare l’ufficio di confessore. A me tu confesserai tutte le tue colpe, e nel­l’atto di far ciò ti farò comprendere uno per uno tutti gli affronti che mi hai arrecato e tutti i dolori causati a me coi tuoi peccati. S’intende che tu comprenderai tanto, per quanto è accessibile all’intelligenza e volontà umana, che cosa sia in sé il peccato, affinché prenda la risoluzione di piuttosto morire che tornare ad offendermi. Quindi, entra nel tuo nulla; considera per poco, che il nulla se l’ha preso[67] col Tutto, e che il Tutto avrebbe potuto far scomparire dalla faccia della terra il nulla, resosi tanto infame da prendersela col suo Creatore; ciononostante, questo nulla non solo è stato dal Tutto tollerato, ma ancora amato. Esci ora fuori del tuo nulla, e con trasporto d’amore verso l’amante tuo Signore, recita il Confiteor”.
Io, entrata nel nulla di me stessa, venni a scorgere tutta la mia miseria e tutte le colpe commesse, e trovandomi dinanzi alla reale presenza di Cristo giudice cominciai a tremare a verga a verga, fino a mancarmi la forza di poter pronunziare le parole del Confiteor; e sarei rimasta immersa nella più grande confusione, senza dire una parola, se il Signor mio Gesù Cristo non mi avesse infusa novella forza e coraggio col dirmi: “Figlia del mio amore, non temere, ché se ti sono ora giudice, ti sono ancor padre. Coraggio dunque ed andiamo avanti”. Per cui, tutta piena di confusione e di umiliazione recitai il Confiteor; e siccome mi vedevo tutta coperta di colpe, dando un’occhiata su tutto il passato, vi scorsi come più grave l’affronto recato al mio Signore con l’aver nutrito in me qualche atto di mera superbia, e quindi gli dissi: “Signore, mi accuso dinanzi alla tua maestà, di aver peccato di superbia”.
Gesù allora mi disse: “Avvicinati al mio amoroso cuore, tendi le orecchie e sentirai lo strazio crudele che hai fatto con questo peccato al mio generoso cuore”; ed io, tutta tremante, tesi l’orecchio sul suo cuore… Ma chi può dire ciò che sentii e compresi in pochi istanti? Il mio cuore fremente d’amore cominciò a pulsare sì forte, che a parer mio mi sembrava come avesse voluto rompersi il petto; e difatti mi parve poi come se si spezzasse per il dolore, e facendosi a brani a brani restasse quasi distrutto. E dopo di aver provato tutto ciò, esclamai più volte: “Ahi, quanto è crudele la superbia umana, che se avesse potere giungerebbe a distruggere lo stesso Essere Divino!”.
La superbia umana me la raffiguravo allora come un vermiciattolo che, avendo l’agio di essere ai piedi d’un gran re, si sollevasse e gonfiasse, in modo tale da credersi qualcosa di grande, e che preso quindi da somma audacia, cominciasse a poco a poco ad arrampicarsi, strisciando su per gli abiti del re, fino a giungere alla sua testa, [e] vedendola cinta da aurea corona, volesse toglierla dal suo capo per cingere il suo, ed indi, poi, spogliarlo delle sue vesti regali, detronizzarlo ed infine usare ogni mezzo per togliergli la vita. Questo verme, che non conosce nemmeno il suo essere, tanto che nella sua superbia non giunge nemmeno a pensare che per essere disfatto basterebbe soltanto che il re si accorgesse del­l’audace suo progetto per calpestarlo sotto uno dei suoi piedi, facendogli così crollare in un solo istante tutti i suoi sogni dorati, illudendosi troppo dei quali nella sua testa riscaldata dalla superbia, muoverebbe a sdegno e compassione insieme chi fosse meno orgoglioso di esso, il quale sarebbe tenuto non solo per l’essere più malvagio ed ingrato, ma ancora per il più temerario e presuntuoso. Ero appunto io, che mi vedevo, quel misero vermiciattolo ai piedi del Re divino, per cui mi sentivo riempire l’anima da tale confusione e dispiacere dell’af­fronto arrecatogli, da provare nel mio cuore lo strazio atroce sofferto da Gesù a causa della mia superbia.
Dopo ciò, Gesù mi lasciò sola, ed io continuai a considerare la bruttezza del peccato di superbia, che mi cagionò tali pene e così al vivo, che mi è impossibile esprimere a parole. Quando ebbi ben bene considerato quanto mi era stato detto da Gesù, vi tornò egli e mi fece continuare la confessione, ed io, più tremante di prima, feci l’accusa dei miei pensieri, delle mie parole, eseguiti non secondo la sua espressa Volontà, oltre ai peccati di causa [ed] omissione; e tutto fu accusato da me con tale pena ed amarezza di animo, che mi sentii come esterrefatta nella piccolezza del mio essere, per la baldanza ed audacia avuta nell’offendere quel Dio sì buono, il quale nell’atto stesso che gli arrecavo affronti, mi assisteva, mi conservava e mi alimentava; e se qualche sdegno avessi potuto notare in lui verso di me, a null’altro si riduceva che all’odio sommo che egli ha del peccato. All’opposto, la sua bontà verso di me, peccatrice, è stata sempre immensa, e tanto che giunse a scusarmi innanzi alla divina giustizia, mettendo in vista la mia incapacità e fralezza, per cui mi faceva ottenere in cambio novelle grazie e forza a meglio operare, il che era come togliere quel muro di divisione che era sorto a causa del peccato tra la mia anima e Dio. Oh, se tutti conoscessero la bontà di Dio e la bruttezza del peccato, da tutti gli uomini sarebbe tosto esiliato dalla faccia della terra; i quali, presi da forte rimorso e dolore per il peccato, o morrebbero, oppure conoscendo l’infinita bontà di Dio si getterebbero in essa, come in un mare immenso di grazie le più elette, destinate a loro bene e santificazione.
Allorché Gesù vide che per la gran pena ed amarezza del peccato non potevo più continuare, si ritirò da me, lasciandomi immersa nella considerazione del male fatto col peccato, ed in quella più profonda ancora della sua bontà, nello scusarmi presso la giustizia del Padre suo, facendomi ottenere novelle grazie. Dopo un lungo tratto, Gesù tornò di nuovo per farmi continuare l’ac­cusa, la quale, di tanto in tanto interrotta, ebbe fine dopo sette ore all’incirca. E quando l’amabilissimo Gesù mise termine alla mia accusa, smise l’aspetto di giudice e riprese quello di padre amorosissimo; e siccome mi ero ridotta sino all’estremo sfinimento di forze e di vita per il dolore provato per le offese fatte al mio Dio, e più ancora per la comprensione che il mio dolore, per quanto fosse stato grande, non era poi sufficientemente bastante a farmi dolere come mi conveniva, Gesù, per rincorarmi, mi disse: “Voglio io supplire per te, applicando all’anima tua il merito del mio dolore, sofferto là, nel­l’orto di Getsemani; solo questo può bastare a soddisfare la divina giustizia da te offesa”.
Mi parve quindi di essere più disposta a ricevere da Gesù l’assoluzione dei miei peccati; e perciò, tutta umiliata e confusa ai suoi piedi, gli dissi: “Sommo Iddio, per quanto sommo è il male che io ho fatto verso di te commettendo il peccato, altrettanto infinitamente somma ritengo la tua misericordia che mi perdona. Vorrei però che le potenze ed i sensi miei divenissero un numero infinitamente grande, e che come tante lingue lodassero ed elogiassero un osanna perenne alla tua infinita misericordia. Deh, Padre Santo, perdonami il gran torto fatto a te peccando, e rimettimi nella tua paterna grazia!”. E Gesù: “Promettimi di non più peccare, con l’al­lontanare da te ogni ombra di male, che potesse di nuovo offendermi”. “Ah, sì, prometto mille e mille volte, piuttosto morire che offendere mai più te, mio Creatore, mio Redentore e mio Salvatore, mai più, mai più”. Allora Gesù alzò la benedetta sua destra e pronunziò le parole dell’assoluzione, facendo scorrere sull’anima mia un fiume del suo preziosissimo sangue.
Dopo che Gesù ebbe lavata l’anima mia nel suo preziosissimo sangue, mercé le parole dell’assoluzione, mi sentii come rinata a nuova vita, e più che mai inondata dalla piena della sua grazia, che mi lasciò poi tale impressione, da non poterla più dimenticare. Basta dire che ogniqualvolta me ne rammento, sento dapprima come sorgere nell’anima mia un’insolita gioia, e poi corrermi un brivido per tutta la persona, al riflesso della grazia fattami dal mio Signore, la quale in tutte le sue più minute circostanze mi si affaccia continuamente alla mente, come se or ora si fosse eseguita. Ripiena quindi del passato ricordo, con tutti i suoi più minuti particolari, mi fa entrare in un profondo raccoglimento ed ansiose brame di poter corrispondere, il più che mi sia possibile, alle tante e sì singolari grazie che il Signore mi ha fatto e continua tuttora a farmi, sia per rinvigorirmi nello stato di vittima, che per ben dispormi a vivere nella sua Divina Volontà, per cui si richiede somma divina grazia e somma attività da parte mia, che essendo nulla, devo prendere il tutto da Dio, e quindi trafelare e travagliare per trasfonderlo in altri, come al par di un medico che s’impegnasse d’iniettare il sangue di un individuo sano nella vene di un ammalato, per ridonargli la sanità corporale.
Al pari di questi devo ancor io prendere da Dio la sua grazia, applicarla agli spiriti infermi, per far poi tut­to tornare a Dio. E per fare che ciò avvenisse in me, il mio amabilissimo Gesù mi trasse dapprima a sé, col far­mi prima distaccare da tutto ciò che menomamente mi distraesse da lui; indi mi ridusse allo stato di vittima perenne, disposta sempre, ogniqualvolta lo volesse, a pren­dere su di me una parte di quelle pene, dolori e sofferenze, di cui è continuamente sovraccarico il pazientissimo Gesù, sia per soddisfare la divina giustizia, già tan­to offesa dal continuo prevaricamento del genere umano, che per impedire che potesse mettere mano ai suoi più spietati flagelli. A me, poi, per rinfrancarmi delle forze perdute, mi usa grazie delle più singolari, come, fra le altre, quella della suddetta assoluzione, la quale mi è stata impartita da Gesù più volte, e nella quale ha preso ora l’aspetto d’un sacerdote che, come tale, prima mi confessava, facendomi sentire differenti effetti nel­l’anima, e dopo, terminata la confessione, si faceva conoscere qual egli era; ed ora prendeva l’aspetto del confessore, tanto che, credendo di parlare con lui, gli aprivo il mio cuore per fargli conoscere lo stato dell’anima mia, coi suoi timori, dubbi, pene, angosce e necessità, ma che poi, dalle risposte che mi dava e dalla soavità della sua voce, tramezzata, però, ora da quella del confessore ed ora dalla sua, dal tratto affabile e dagli effetti interni che io provavo, differentemente da quelli ordinari, venivo a scoprire che quelli non era altro che Gesù. Altre volte poi, mi si manifestava da principio in un modo tutto ineffabile, e mi faceva fare la confessione, sia ordinaria che straordinaria, ed infine mi assolveva. Se dovessi dire tutto quanto è passato tra Gesù e me, non solo andrei troppo per le lunghe, ma quanto che sarebbe preso per favola; perciò passo a dire altro, e che sia di più manifesto.
Ricordo che, dopo tutto quel che ho detto, Gesù mi tenne avvisata della seconda guerra che doveva avvenire tra l’Italia e l’Africa, nove mesi prima che s’ingaggiasse tra loro; ed ecco come. Il benedetto Gesù, facendomi uscire fuor di me stessa, mi trasportò dietro di sé, facendomi percorrere una lunghissima via, tutta disseminata di cadaveri umani, immersi nel proprio sangue, che a guisa di fiume inondava quella via, i quali, come Gesù mi fece vedere con mio sommo orrore, erano abbandonati ed esposti ad ogni intemperie dell’aria ed alla rapacità di animali carnivori, giacché non c’era chi si brigasse di dar loro sepoltura. Ed io allora, tutta spaventata, mi feci a domandare al mio Gesù: “Sposo santo, cosa vuol dire tutto ciò che ora mi fai vedere?”.
E Gesù mi rispose: “Sappi che nel prossimo anno vi sarà guerra. Gli uomini si sono dati ad ogni vizio ed abbandonati alle più carnali passioni per offendermi, ed io voglio fare le mie giuste vendette sulle loro medesime carni che puzzano tutte di peccato”. Io non ebbi alcun dubbio di quanto mi asseriva Gesù; ciò nonostante speravo che, nel corso dei nove mesi, gli uomini carnali avrebbero messo freno alle loro passioni, e Gesù in vista del loro ravvedimento avrebbe sospesa la preavvisata guerra. Ma che dire di tanti e tanti, che infangati nelle loro passioni, invece di ravvedersi peggioravano sempre più? Tanto che, passato quel periodo di prova accordato dal buon Gesù, si cominciò a sentirsi dapprima parlar di guerra e, subito dopo, che veramente tra l’Italia e l’Afri­ca aspramente si combatteva, con evidente danno d’am­bo le parti. Allora io, più che mai, mi offrii al buon Gesù, affinché avesse risparmiato tante vittime; ma per quanto lo pregassi ed incessantemente lo supplicassi che avesse avuto pietà di tante anime che, morendo in guerra, si sarebbero trovate al cospetto di Dio non in stato di grazia, e quindi sarebbero state precipitate nell’inferno, ma Gesù non mi diede punto ascolto; ma facendomi uscire fuori di me, l’anima mia seguendolo si trovò in un istante a Roma, in cui ascoltai la voce di tanti e tanti presuntuosi, che dicevano di essere affatto convinti che l’Italia avrebbe riportato vittoria sull’Africa…
Gesù intanto, dopo aver attraversato le vie di Roma, ed ivi ascoltato quanto ho su detto, mi fece penetrare unita a lui nell’aula del Parlamento, in cui i deputati tenevano calorose dispute, sul modo che dovessero[68] tenere per menare innanzi la guerra ed assicurarsi quindi della bramata vittoria; e si procedeva nella discussione con tanta ampollosità di parole, fanatismo e superbia, che facevano compassione a sentirli. Ma quel che mi fece più impressione fu nel sentire che costoro erano tutti settari, e che agivano sotto la pressione del demonio, a cui avevano venduto le loro anime, affin di accaparrarsi l’esito felice della guerra. Nel conoscere intanto tutto ciò, mi sentii raccapricciare, e tutta dolente esclamai: “Che uomini tristi e malvagi, in tempi più tristi di loro!”. A me sembrava che tra loro regnasse il regno di satana, giacché tutta la loro fiducia, anziché riporla in Dio e nella propria attitudine richiesta all’uopo, la riponevano tutta nel demonio, da cui si attendevano sicura vittoria. Ora dico che, mentre essi stavano immersi nelle più vive e calorose discussioni, per riunire le varie divergenze, per cui [una] tendeva ad allontanarsi sempre più dal­l’altra man mano che si discuteva tra loro, il benedetto Gesù, che senza essere veduto era in mezzo, a udire le loro infelicissime proposte, versò lacrime amarissime sul loro misero stato. Ed essi, dopo che ebbero alla men peggio tirato consiglio, ma senza Dio, sul modo pratico di procedere in guerra, come se la vittoria fosse già del­l’Italia, presuntuosi più che mai, menavano vanto della sicurezza della vittoria. Gesù allora, come se quelli stessero intenti ad ascoltarlo, disse loro in tono di minaccia: “Voi tutti vi fidate di voi stessi, ed io perciò vi umilierò, affinché possiate constatare quanto è il danno che si riporta agen­do senza invocare l’aiuto e l’intervento divino, che è l’autore d’ogni bene. Questa volta quindi la vittoria non sarà dell’Italia, ma a lei toccherà invece totale sconfitta”.
Chi può dire, ora, quanto soffrì il mio cuore a queste parole di Gesù, e i mezzi usati presso il mio amabile Gesù perché si placasse, o che almeno la guerra non andasse più oltre? Come sempre mi offrii vittima di espiazione, affinché versasse su di me le più acerbe pene e i dolori più spasimanti, a patto che risparmiasse l’Italia da un tanto flagello. Ma Gesù mi disse: “Terrò sempre duro, in modo che l’Africa avrà la vittoria sull’Italia. Solo ti accordo che l’Africa vincitrice non si riversi sulla terra italiana per continuare il combattimento, come giusto castigo che merita l’Italia, sia per la vita molto licenziosa che vive, sia per la fede già perduta, per cui non spera in Dio, ma nel diavolo”.
Il tutto già narrato, con altre circostanze, fu da me esposto all’obbedienza del confessore, il quale rispose: “Non mi pare vero che l’Italia abbia ad essere sconfitta dall’Africa, poiché l’Italia nella sua civiltà possiede ogni specie di armi offensive e difensive, per cui la vittoria dov’essere nostra anziché dell’Africa incivile, che è assolutamente priva di armi atte alla guerra”. Ma quando, purtroppo, il risultato di questa venne a confermare quanto Gesù mi aveva assicurato, questi soggiunse dicendomi: “Figlia mia, non c’è consiglio, non c’è pruden­za né forza che valga, se non è attinta da Dio”.
Potrei ora terminare la narrazione di quelle cose più rilevanti, toccatemi dall’età di sedici anni all’incirca [fino] ad oggi, se il confessore non mi avesse obbligata a mettere su carta il modo che Gesù abbia tenuto meco nel parlarmi. Dapprima dico che vari sono questi modi, ma io li riduco appena a quattro, che sono i seguenti: Il primo modo che tiene Gesù nel far apprendere dall’anima ciò che egli vuole, avviene quando fa uscire l’anima dal suo corpo, il che può avvenire in modo istantaneo, oppure insensibile. Nel primo caso l’anima esce dal suo corpo come in un baleno, ed è così repentino che il corpo si solleva come per seguire l’anima, ma poscia rimane come morto, mentre l’anima segue Gesù, percorrendo tutto l’universo, terra, mari, monti, cielo, e fin le regioni del purgatorio e nella magione eterna di Dio, seguendo però sempre la direzione che prende Gesù. Nel secondo caso, in cui l’anima esce dal corpo, è più quieto; ed infatti, pare che il corpo insensibilmente resti come assopito al cospetto di Gesù, e l’anima, nell’atto che Gesù parte, lo segue dovunque egli va.
Sia nel primo che nel secondo caso, il corpo resta impietrito e delle cose esterne non sente più nulla, ancorché si sconvolgesse tutto il mondo e le sue membra le punzecchiassero, le bruciassero e le facessero anche a pezzi. Ed in questi due casi posso asserire che mi son trovata fuori del corpo, e così lontana che dal luogo dove mi aveva trasportata Gesù vedevo il confessore che andava verso casa per farmi riavere; ed io, dagli ultimi confini della terra, dal purgatorio ed anche dal paradiso, al comando di Gesù (che voleva da me perfetta obbedienza al confessore) in un batter d’occhio mi ritrovavo nel corpo. Le prime volte però, temendo che non facessi a tempo, mi angustiavo, mi affliggevo e tutta mi affaticavo per far che mi ritrovassi nel corpo, nell’atto che il confessore mi avrebbe fatto riavere, a mezzo dell’ub­bidienza. Confesso però che mai mi son trovata a non fare a tempo a rientrare nel corpo, allorquando il confessore si è recato presso il mio letticciolo, e che se Gesù non avesse premurato l’anima mia a tornare nel corpo, sarei stata restia alla voce del confessore, poiché si trattava, nientemeno, di lasciare Gesù, mio sommo bene, per accorrere alla voce dell’ubbidienza. Perciò, nel licenziarmi da lui, gli dicevo: “Vado dal confessore, che mi chiama all’ubbidienza; ma tu, mio diletto, torna presto e non appena se ne andrà via; te ne prego, non mi fare tanto aspettare”. Ora dico che l’anima mia, in questi due casi, non ha bisogno che Gesù parli, per farsi intendere, perché da una luce che comunica al mio intelletto mi fa tosto comprendere quanto voglia imprimere in esso. Oh, quanto bene c’intendiamo, quando ci troviamo tutti e due insieme! Questo modo intellettuale di Gesù, per farsi intendere dall’anima, è rapidissimo. Basta dire che in un istante si apprendono molte e sublimi cose, più che leggendo libri interi per tutta la vita; è sì alto, poi, e sì sublime, che riuscirebbe impossibile a qualsiasi intelligenza umana esprimere a parole tutte le impressio­ni di quanto si è appreso[69] dall’anima in un istante solo. Oh, che maestro sapientissimo ed ingegnosissimo è Gesù, che in un batter d’occhio fa apprendere tante cose, quante non arriverebbero altri a farle comprendere nem­meno dopo anni ed anni di lezioni, giacché il maestro terreno non ha la potenza, non solo di esplicare tutte le sue scienze, ma neppure quella di attrarre a sé tutta l’attenzione del discepolo, né quella d’infondere nella mente altrui alcunché senza sforzo e fatica. Gesù invece ha tanta dolcezza, tanta affabilità di tratto e tanta soavità nel dire, che, appena lo scorge, l’anima si sente talmente attirata a lui, che non può non corrergli dietro con la massima velocità, per cui, senza avvedersene, si trova trasformata in lui, in modo da non discernersi l’essere suo da quello divino.
Chi potrebbe dire ciò che l’anima apprende in questo istante di trasformazione? Ci vorrebbe Gesù, o almeno un’anima che avesse subìto di queste trasformazioni mentre era in vita, e che ora si trovi in stato di perfetta gloria; giacché chi è circondato dal muro di questo corpo, ancorché avesse posseduto quella luce divina per cui si sia sentito tutto inabissato in Dio, pur possedendola, sentendosi nell’atto di rientrare nel corpo come av­volto dalle più fitte tenebre, se volesse provare a dire qualcosa gli riuscirebbe impossibile riferirla come gli è stata comunicata, ma [lo farebbe] molto rozzamente ed imperfettamente. Per darne un’idea, m’immagino un cieco nato, che un bel giorno avesse ricevuto la vista per pochi istanti, e che in brevissimo tempo avesse percorso tutto l’universo mondo, in cui velocemente avesse visto le cose più sorprendenti, sia in minerali, che vegetali ed animali, oltre all’immensa distesa del cielo tutto tempestato d’innumerevoli astri, ma che poi, dopo pochi istan­ti tornasse alla stessa cecità di prima. Ora, dico: potrebbe questi riferire ad altri ciò che vide, e con linguaggio al tutto appropriato? A quanti scherni non si assoggetterebbe, se invece di formare un abbozzo volesse descrivere più minutamente tutto ciò che fu da lui veduto appena e solo in pochi istanti?
E proprio così avviene dell’anima quando, dopo aver spaziato per cielo e terra, nel rientrare nel corpo, essendo tornata a non veder più nulla come quel povero cieco, amerebbe chiudersi nel silenzio anziché parlare, sia per la vista perduta che per il timore di spropositare. Così l’anima, rientrando nel corpo, vive gemente e sconsolata per lo stato di violenza a cui deve sottostare, poiché mentre si sente violentata a slanciarsi verso il suo sommo bene, per l’attrazione che Gesù fa all’anima, la quale non brama altro che di star unita con Dio, anziché parlare in modo disordinato di cose eccedenti la sua capacità e l’attuale suo stato, che è più infelice di colui che abbia perduto la vista corporale.
Per obbedienza dico, però, forse spropositando, che stando così le cose, vengo ora a spiegare come meglio posso il secondo modo che tiene Gesù nel parlare al­l’anima, e cioè, che stando questa nel corpo, fuori di esso vede la persona di Gesù, ora da bambino, or da giovane, ora crocifisso, ecc., e Gesù, come noi altri, dalla sua bocca mette fuori parole che sensibilmente l’anima sente giungere al suo udito, e questa a sua volta risponde a Gesù, in modo che talvolta succede una conversazione tale come la si può fare tra due persone. Ma la parola di Gesù, però, è molto misurata, tanto che, appena, egli pronunzia quattro o cinque parole, ed altre volte anche una sola, e rarissime volte [parla] a lungo; ma in quelle sì brevi parole, quanta luce non infonde nell’ani­ma! A me è sembrato vedere un piccolissimo ruscello, che poi si è disteso in un vastissimo mare. Sicché una parola di Gesù ha riportato in me tanta immensità di luce, da far sì che l’anima restasse come assorbita da quel­la luce di verità, tanto da farla come sua. Se a tutti i sapienti del mondo fosse dato ascoltare soltanto una parola di Gesù, son sicura che tutti resterebbero stupiti, confusi e muti, ed incapaci di saper che rispondere. Ora dico che con questo modo di parlare, Gesù manifesta all’anima più facilmente le sue verità, poiché avendo egli usato un linguaggio appropriato all’intelligenza di questa, lei non ha bisogno di andare in cerca di vocaboli per comunicarle ad altri, giacché può usare benissimo quelli stessi usati da Gesù. Quando invece l’anima apprende queste verità per comunicazione al tutto intellet­tuale, si trova molto impacciata nel manifestarle ad altri, perché le riesce impossibile esprimersi con la parola. Ecco perché Gesù, per adattarsi alla natura umana, per lo più fa uso della parola, perché diversamente questa [70], ripeto, non si aprirebbe con altri, stando nel dubbio di errare; e parla secondo la capacità ed il linguaggio di ciascun’anima.
Insomma, Gesù fa come un maestro dottissimo e sa­pientissimo, il quale possiede in grado superlativo tutte le scienze, e volendo impartire ad altri delle lezioni, par­lerà certamente la lingua conosciuta e parlata dall’alun­no, altrimenti la verità scientifica non sarebbe mai appresa da quello, o almeno ci sarebbe bisogno che prima gli facesse apprendere quella lingua, e rifarsi quindi da capo, e poi insegnare quella scienza che si era proposto di far imparare. Oh, quanto è buono Gesù, che pur essendo sapientissimo si adatta alla capacità di tutti, e tan­to da non sdegnare di abbassarsi a far scuola a quegli ignoranti che volessero apprendere da lui le verità necessarie per il conseguimento dell’eterna salute, e molto meno superbo[71], se le sue verità le dovesse comunicare a persone dottissime ed in modo elevato, giacché egli non ha altra mira se non che quella di far conoscere, apprezzare ed eseguire le sue verità, non volendo che alcuno ne resti privo di queste.
Il terzo modo che adopera Gesù nel far apprendere all’anima le sue verità, consiste nel partecipare a lei la stessa sua sostanza. A me sembra che avvenga come quando Iddio creò il mondo dal nulla, che ad una sola sua parola tutte le cose vennero all’esistenza, mentre ad un’altra sua onnipotente parola tutto il creato fu messo in ordine, quale ab æterno era stato da lui prefisso. Così avviene dell’anima a cui Gesù le parli parole di vita eterna; [egli] crea, nell’atto stesso che comunica le sue verità, perché volendo Gesù che l’anima s’innamori del­la sua bellezza, le dice: “Vuoi tu sapere quanto io sia bello? Per quanto il tuo occhio potesse scorrere su tutte le bellezze sparse su tutta la terra e negli stessi cieli, mai troveresti bellezza simile alla mia bellezza”.
In questo dire di Gesù, l’anima si sente come se entrasse in lei un certo che di divino, a cui si sente di aderire perché è attirata da Gesù come bellezza sopra ogni altra bellezza, ed insieme [si sente] perdere ogni attrattiva per tutte le cose belle di quaggiù, giacché per quanto belle e preziose fossero[72], messe a paragone della bellezza di Gesù, vi scorge l’infinito divario, e quindi si dà a questa[73], in questa si trasmuta, a questa sempre pensa, di questa vorrebbe sempre parlare, giacché di essa si sente tutta investita, innamorata ed anzi trasfusa; dico ancor di più, che se il Signore non operasse un miracolo, l’anima cesserebbe di vivere, facendole scoppiare il cuore di puro amore a vista della bellezza di Gesù, per volarsene tosto appresso a lui lassù nel cielo per bearsi della sua bellezza. Io stessa però, che ho provato tutte queste emozioni, con tutte le attrattive della bellezza di Gesù, non so cosa mi dico; si tenga quindi il mio detto come tanti spropositi, ma non posso però non sostenere che una impressione soprannaturale non sia rimasta in me, ed in modo tale da farmi dedurre questa verità: ogni bellezza terrena, a vista di quella del mio amabilissimo Gesù, viene ad eclissarsi, come le stelle al comparir del sole, e quindi le bellezze delle cose create, Gesù me le fa tenere come un’inezia e cosa da trastullo. Di quanto ho detto della bellezza di Gesù, altrettanto e più ancora potrei dire della purità, della carità, della bontà, della semplicità, e di tutte le altre virtù di Gesù, come pure di tutti gli attributi di Dio, giacché parlando all’anima fa entrare in essa, oltre alla parte comunicativa delle sue virtù, gli infiniti attributi della sua divinità.
Un giorno, fra gli altri, Gesù mi disse: “Vedi quanto io sono puro? Anche in te voglio questa purità”. A queste parole di Gesù, accompagnate dallo splendore candidissimo della sua purità tutta divina, sentii entrare in me tale purità, come se la purità di Gesù si fosse del tutto trasfusa in me, in modo che cominciai d’allora a vivere come se non avessi più corpo, perché mi sentivo tutta inebriata dalla sua fragranza, mi assopivo all’olez­zo suo balsamico, correva il mio spirito dietro al suo odore di paradiso, mi ridestavo alla freschezza della sua aria pregna di aromi. Il mio corpo, reso partecipe della purezza vitale dell’anima assieme alle sue potenze, si rese molto semplice per la correttezza dei suoi sensi, giacché la nausea dell’impurità s’impossessò tanto in[74] me, che se d’allora in poi avesse potuto solo lontanamente percepire qualche sensazione meno pura, involontariamente lo stomaco mi si ribellava, dando forti conati di vomito.
L’anima, insomma, a cui Dio abbia parlato della sua purità, viene a trasmutarsi in quella, e tanto che sente di non poter più vivere in sé, ma vive ed agisce in Gesù, avendo egli preso stabile dimora in lei. Perciò non posso fare a meno di dire che quanto ho detto della bellezza e purità di Gesù trasfuse in me, sono meri spropositi, giacché l’intelligenza e capacità umana sono incapaci ad esprimere con linguaggio umano ciò che non lo potrebbe nemmeno il linguaggio angelico, tanta è la sublimità di esse. Se non mi riesce, quindi, a ben esprimere del­l’impressione[75] avuta nell’ammirare la bellezza, purità, e tutte le altre virtù, così è da dirsi degli attributi divini che il mio buon Gesù di tanto in tanto ha voluto comunicare all’anima mia. Oh, quanto è desiderabile la partecipazione di esse virtù e attributi di Dio che Gesù fa al­l’anima, in modo tutto creativo, mercé la quale, l’anima si trova in possesso di quanto le è dato di apprendere, fosse pure in un batter d’occhio. In quanto a me, darei tutto ciò che sta in tutto l’uni­verso mondo, se ne fossi padrona, per avere una sola di sì elette comunicazioni, per cui l’anima si avvicina sempre più a lui[76], sublimandola all’intuitiva comprensione dei beati ed angeli del paradiso.
Il quarto modo che tiene Gesù di parlare all’anima, consiste tutto nella comunicazione dei cuori, mercé l’esercizio continuo e mai interrotto nelle sue più eroiche virtù, essendo allora l’anima sempre intenta a procurare il maggior compiacimento di Dio, fatto ospite del suo cuore. Gesù internamente, stando in riposo, ma sempre vigilante nell’intimo nascondiglio del suo[77] cuore, la richiama talvolta al suo dovere senza articolar parola, giacché essendosi l’uno e l’altra come fusi ed immedesimati insieme, gli basta un solo moto interno per farsi comprendere; ma però altre volte Gesù fa uso anche della parola, che fa giungere all’orecchio del corpo, facendole comprendere quanto egli vuole. E questo mo­do di parlare di Gesù, che fa all’anima che lo abbia reso padrone assoluto del suo cuore, succede spesso spesso avendo egli preso tutta a sé la direzione di quest’anima, per cui la sveglia se la vede assopita durante l’adem­pimento dei suoi doveri, la incita dolcemente a riprendere di buona voglia ciò che avesse potuto trascurare per rincrescimento, e tosto fa sentire la sua parola ammonitrice se la vedesse distratta, afflitta, sconsolata, oppure perdendo il tempo, mancante alla carità, ecc. E questa sua parola basta a farla rientrare subito in se stessa, per riconcentrarsi maggiormente in Dio a fare la sua Santa Volontà.
E così avrei dovuto mettere termine a[78] tutte le grazie che il mio amabilissimo Gesù ha voluto copiosamente elargire a me, ultima delle sue ancelle, nel corso di sedici anni all’incirca, dal momento che io feci proposito di fare la novena del santo Natale con nove meditazioni al giorno, concernenti i grandi misteri della sua Incarnazione. Se non che il mio confessore, trovandosi a considerare l’inizio di questo manoscritto, e proprio al punto ove io dissi: “Così io passavo la seconda ora di meditazione, e poi via via la terza sino alla nona, che tralascio per non rendermi seccante…”, questi ora mi ha ingiunto di scriverle per esteso, affinché - come egli mi dice - si venga a riempire quella lacuna già fatta contro il suo volere. E poiché mi conviene sempre ubbidire, anche contro la mia ragione, che è quella di non poter fare questo lavoro a causa della mia incapacità e distanza di tempo, che mi ha fatto quasi dimenticare quanto Gesù mi faceva praticare, senz’altro, fidente in lui, pren­do la penna in mano e dico.
Dalla seconda meditazione passai immediatamente alla terza, giacché la voce interna che sin dalla prima meditazione mi si fece sentire sensibilmente mi disse: “Figlia mia, poggia la tua testa sul seno della mia Mam­ma, e considera in esso la mia piccola umanità. Qui il mio amore per la creatura quasi mi divora; sono gli incendi, gli oceani, i mari immensi dell’amore della mia divinità, che m’inceneriscono, m’inondano, e che eccessivamente oltrepassano ogni confine, tanto da sollevarsi ovunque e sino a tutte le generazioni, dalla prima all’ul­tima creatura. E la mia piccola umanità, pur divorata in mezzo a tante fiamme d’amore, si rende ancor essa divorante nel medesimo amore. Ma sai che cosa il mio eterno amore mi voglia far divorare? Ah, sì; ben lo saprai a prova: le anime tutte! Ed allora, figlia mia, sarà contento il mio amore, quando le divorerà in sé tutte, giacché [io] essendo Dio devo operare da Dio, abbracciando in tutto e per tutto ciascun’anima che possa venire all’esistenza, poiché il mio amore non mi darebbe pace se vi escludessi qualcuna. Sì, figlia mia, guarda bene nel seno della Mamma mia; fissa il tuo sguardo nella mia umanità già concepita, e vi troverai ancora l’anima tua concepita con me, e le fiamme del mio amore che ti hanno incendiata tutta d’amore per me, ed allora faranno sosta quando ti avranno in me consumata. Oh, quanto ti ho amato, ti amo e ti amerò in eterno!”.
Al sentire Gesù, che così mi parlava, io mi sperdevo in mezzo a tanto amore e non sapevo come corrispondergli; se non che una voce interna venne a scuotermi col dirmi: “Figlia mia, ciò è nulla, in paragone di quanto si opera dal mio amore. Stringiti perciò più a me; dà le tue mani alla mia cara Mamma, affinché ti tenga viepiù stretta sul suo seno materno, e tu intanto dà un altro sguardo alla mia piccola umanità concepita nel tempo per concepire le anime per l’eternità, il che ti darà campo a considerare il quarto eccesso del mio amore, che si rende operativo”.
“Figlia mia, se tu vuoi passare dall’amore sì divorante all’amore mio operante, mi scorgerai immerso in un abisso senza fondo di sofferenze. Considera che ogni anima in me concepita mi portò il fardello dei suoi peccati, delle sue debolezze e passioni, ed il mio amore m’impose a prendere il fardello di ciascuna, per cui, dopo aver concepito in me le loro anime, concepii ancora le loro pene e le soddisfazioni che ognuna di loro doveva dare al mio celeste Padre. Perciò non deve meravigliarti se la mia passione fu concepita unitamente a me. Guarda bene nel seno della mia Mamma, e vi scorgerai quanto e come sento al vivo lo strazio di tante pene! Guarda bene la mia testolina, circondata da un serto di spine, le quali, trafiggendomi crudelmente il capo, mi fanno versare dagli occhi fiumi di cocentissime ed amarissime lacrime. Deh, muoviti tu a compassione di me con l’asciugarmi gli occhi, versanti tante lacrime, tu che hai libere le braccia per potermelo fare!
E queste spine, figlia mia, non sono altro che il serto crudele che mi formano le creature coi loro pensieri cattivi, che si affollano nelle loro menti. Oh, quanto crudelmente essi mi pungono! Oh, lunga coronazione di nove mesi! E come se questa non bastasse, mi crocifiggono mani e piedi, giacché mi fanno soddisfare la divina giustizia per loro, che percorrendo ogni via perversa e commettendo ogni ingiustizia nel traffico transitorio del­la vita, passandola[79] in ogni illecito guadagno; ed in questo stato non mi è possibile poter muovere né una mano, né un dito, né un piede; sono sempre immobile, sia per la crocifissione perenne che subisco, sia per lo spazio troppo ristretto in cui vivo. E questa lunga crocifissione la subii ancora per ben nove mesi! Sai tu, figlia mia, perché sia la coronazione di spine che la crocifissione mi si rinnovano ad ogni momento? Perché il genere umano non smette mai di macchinare disegni malvagi e compiere atti cattivi, i quali, prendendo forma di spine e chiodi, mi trafiggono con quelle le tempie e con questi ripetutamente mani e piedi”.
E così Gesù nell’affanno e nel dolore continuava a narrarmi ciò che nella sua piccola umanità soffriva di pene, dolori e martiri, nel seno materno, il che tralascio per non rendermi troppo lunga e perché non mi regge il cuore a narrare tutto ciò che il benedetto Gesù ha sofferto in esso per nostro amore. Io non sapevo far altro che abbandonarmi ad un dirotto pianto; ma tosto mi scuoteva di nuovo la sua flebile voce, dicendomi internamente al cuore: “Figlia mia, oh, quanto vorrei abbracciarti per ricambiarti l’amore penante che senti per me, ma non lo posso ancora, ché come vedi sono racchiuso in questo piccolo spazio che mi obbliga all’immobilità. Vorrei venire a te, ma ciò non mi è dato, perché non posso camminare per ora. Figlia del mio primo amore penante, vieni tu spesso spesso a me ed abbracciami, che poi, quando uscirò dal seno materno, verrò io a te e allora ti abbraccerò e starò teco”.
E mentre con la mia fantasia m’immaginavo di essere con lui nel seno della Mamma, e me lo abbracciavo e me lo stringevo forte forte al mio cuore tutto addolorato, di nuovo mi faceva sentire la sua voce, che internamente mi diceva: “Basta così per ora, figlia mia; passa piuttosto a considerare il quinto eccesso del mio amore, che, sebbene da tutti vilipeso e messo in non cale, non indietreggia mai, né fa sosta, bensì sormonta tutto e va sempre avanti”.
Sentendomi chiamare da Gesù a considerare il quin­to eccesso del suo amore, tesi l’orecchio del cuore ad ascoltare la flebile ma creatrice voce di Gesù, che internamente mi diceva: “Figlia mia, non ti discostare da me, non mi lasciare solo. Il mio amore brama essere sempre in compagnia; e questo, sappi, è un altro eccesso del mio amore, ché come la mia divinità essenzialmente for­ma l’unione più intima che si possa dare, così la mia umanità, ipostaticamente unita al mio Verbo eterno, non può naturalmente non essere portata a deliziarsi della compagnia delle creature.
Notasti che non appena fui concepito nel seno della mia Mamma, nel tempo stesso concepii alla grazia tutte le umane creature, affinché concepite in me crescessero al par di me in sapienza e verità. Ecco perché amo la loro compagnia e voglio stare in continua corrispondenza d’amore con loro, e spesso spesso comunicare ad esse l’attestato più palpitante del mio amore. Voglio continuamente essere in soave colloquio d’amore con loro, per tenerle a giorno delle mie gioie e dei miei dolori; bramo ancora far loro conoscere che son venuto dal cielo in terra, non per altro fine che per renderle pienamente felici, e quindi bramo di stare in mezzo a loro come un fratellino, per riscuotere benevolenza ed amore, per ridare a ciascuna tutti i miei beni, il mio proprio regno, a costo dei più duri sacrifizi, non escluso quello della mia morte per la loro vita. Bramo, insomma, trastullarmi con loro, col colmarle di baci e delle più soavi carezze d’amore. Ma, ahimè, sappi che in cambio del mio amore non ricevo altro che continui dolori e pene! Ed infatti, vi è chi svogliatamente ascolta la mia parola di vita eterna; chi schiva la mia compagnia; vi è chi si svincola dal mio amore, chi mi fugge, chi fa il sordo, e perciò mi riduco al silenzio; ma vi è di più, chi direttamente mi disprezza e mi oltraggia. I primi non si curano dei miei beni e del mio regno, ricambiano i miei baci e carezze con la noncuranza e dimenticanza di me, e quin­di il mio trastullo che dovrei tener [con] loro si riduce al silenzio e all’abbandono; ma i secondi, che sono i più, convertono il mio amore per loro in amarissimo pianto, che naturalmente è sfogo del cuore, che non solo non è appagato, ma bensì vilipeso, sprezzato ed oltraggiato. E dire, poi, che mentre sono in mezzo a loro, sono sempre solo! Oh, quanto mi pesa la solitudine forzata che mi procurano esse col loro abbandono, col farsi sorde anche ad una mia parola, e con l’impedirmi ogni sfogo d’amo­re! Sono sempre solitario, mesto e taciturno, perché se parlo non vengo punto ascoltato… Ah, figlia mia, supplisci tu al defraudato mio amore, col non lasciarmi mai solo in questa mia solitudine! Dammi il bene di farmi parlare col darmi ascolto, prestando il tuo orecchio ai miei insegnamenti. Sappi che io sono il maestro dei maestri, e se tu mi ascolti, oh, quante cose non apprenderai da me, e nel tempo stesso mi farai cessare dal pianto col farmi teco trastullare. Dimmi, vuoi tu trastullarti con me?”.
Ed io, dopo di essermi protestata di essergli sempre fedele, mi abbandonavo in lui, amandolo nella mia più tenera compassione verso di lui, che pur essendo tanto magnanimo da voler deliziare con se stesso la creatura, da questa viene lasciato solo, senza alcun sollievo, e nella più tetra solitudine. Ma mentre così passavo la mia quinta ora di meditazione, la voce interna del mio Gesù si faceva di nuovo sentire al cuore: “Basta, basta così; passa ora a considerare il sesto eccesso del mio amore”.
“Figlia mia, sia teco la mia intimità. Avvicinati sempre più a me, e prega la mia cara Mamma che ti faccia un po’ di posticino nel suo materno seno, affinché tu stessa possa constatare lo stato doloroso in cui mi trovo”.
Col pensiero quindi m’immaginavo che la mia Regina Mamma, a volermi attestare il suo materno e più grande affetto verso di me, mi facesse congiungere nel suo seno al dolce ed affabile Gesù, incarnato in lei, e mi raffiguravo come se fossi già nel suo seno, stretta stretta col mio amabile Gesù. Ma era tale e tanta l’oscurità che ivi regnava, che mi riusciva affatto impossibile vedere le sue fattezze, ma solo sentivo il suo infocato sospiro d’amore, mentre nel mio interno seguitava a dirmi: “Figlia mia, considera un altro eccesso del mio amore. Io sono la luce eterna, e non vi è altra luce fuor di me più splendente. Considera per poco il sole, quando è nel suo pieno splendore; eppure esso non è altro che un’om­bra della mia luce eterna. Ebbene, questa mia luce eterna per amore della creatura si eclissa interamente in me per l’assunta umanità. Vedi tu in che oscura prigione mi ha ridotto l’amore? Sì, è per amore della creatura che mi sono così confinato, ad attendere che si faccia uno spiraglio di luce; ma ho dovuto pazientare per ben nove mesi in sì fitta notte, ma notte senza stelle, senza riposo, ma sempre desto in attesa della luce del sole che ancora non mi arriva… Che pena io provo! La strettezza della prigione, che non mi dà campo di potermi menomamente muovere, mi procura indicibile affanno; la mancanza di luce, che nulla mi fa vedere ancora, mi dà tanta pena da togliermi fin anche il respiro, che ricevo languidamente per mezzo del respiro della Mamma. Ma sai tu chi mi ha tratto in questa prigione, chi mi ha tolto la luce, e chi mi fa sempre più languire nel mio respiro? È stato l’amore che sento per la creatura; sono le tenebre delle colpe delle creature, perché ogni colpa è una notte di più per me; è la durezza del cuore umano, in cui non vi entra alcun ravvedimento; è la nera ingratitudine, che come mostro infernale mi soffoca il respiro; tutti assieme mi formano un abisso, senza fondo, di oscurità, di soffocamento, di dolori inauditi. Che pena! Oh, eccesso del mio amore non corrisposto, tu mi hai fatto passare da una immensità di luce eterna in una profondità di fitte tenebre, ed in tale strettezza da farmi mancare la libertà del respiro!”.
Mentre Gesù tutto ciò mi diceva, gemeva, ma con gemiti soffocati per la ristrettezza dello spazio, ed io mi stemperavo in lacrime per la compassione, e volevo fargli un po’ di luce col mio amore, come egli richiedeva. Ma chi può dire ciò che Gesù ed io soffrivamo a vicenda, per amor delle creature? Ma in tanto dolore e pena, il mio sempre amabile Gesù fece sentire nell’interno del mio cuore la sua dolce parola: “Basta così per ora; passa piuttosto al settimo eccesso del mio amore”.
Quindi mi soggiungeva: “Figlia mia, non volermi lasciare solo in tanta solitudine ed in tanta oscurità; non voler uscire dal seno della Mamma mia, per ben considerare il settimo eccesso del mio amore.
Ascoltami: nel seno del mio celeste Padre io ero pienamente felice; non c’era bene che io non possedessi: gioia, felicità, tutto era a mia disposizione. Gli angeli, riverenti, mi prestavano culto di somma adorazione e tutti pendevano dei miei cenni. Ma l’eccesso del mio amore per il genere umano, potrei dire, mi fece cambiar fortuna. Mi spogliai di tutte le mie gioie e felicità, mi svestii di tutti i miei beni e d’ogni celestiale comodità, per vestirmi di tutte le infermità delle creature, a fine di procurar loro la mia felicità eterna, le mie gioie ed i miei contenti eterni. Questo cambio, però, sarebbe stato ben lieve per me, se non avessi trovato in loro la più mostruosa ingratitudine ed ostinata perfidia. Oh, come il mio eterno amore restò sorpreso innanzi a tanta ingratitudine! Oh, quanta pena mi dà l’ostinatezza e la perfidia dell’uomo, le quali sono per me più che spine, le più pungenti al mio cuore, che sin dal mio concepimento ebbe a soffrire inenarrabili punture, e continuerà sino al­l’ultimo momento della mia vita. Guarda, guarda bene il mio cuoricino, in quante spine si trova; osserva le ferite che gli fanno ed il sangue che a rivi sgorga da esso! Oh, che pena, e quanti dolori io sento mai!
Figlia mia, non essermi ancor tu ingrata, giacché l’ingratitudine è la pena più dura e più crudele per il tuo Gesù. L’ingratitudine è più che chiudermi in faccia la porta del cuore, per farmi restar fuori, tutto assiderato dal freddo disamorato. Eppure il mio amore, a tanta perversità del cuore umano, non si è arrestato, anzi si atteggia ad un altro amore più elevato, che mi fa divenire supplicante, gemente e supplicante per loro; e questo, fi­glia mia, è l’ottavo eccesso del mio più possente amore”.
“Figlia mia, non mi lasciar solo; continua a poggiare le tua testa sul seno della Mamma, che anche dal di fuori sentirai i miei gemiti e le mie suppliche; ma vedrai che né i miei gemiti, né le mie suppliche, moveranno a compassione del mio amore l’ingrata creatura, e mi vedrai allora, ancor piccino, stendere la mia mano come il più povero dei mendicanti e chiedere per pietà le loro anime, a titolo almeno di elemosina. Spero che in questo modo potrò attirarmi i loro affetti ed i loro cuori, assiderati dall’egoismo. Il mio amore, figlia mia, vuol vincere a qualunque costo il cuore dell’uomo, ed è perciò che vedendo [che] questi, dopo aver usato il settimo eccesso del mio amore, ne era ancor restio, facendo il sordo col non curarsi né di me, né dei miei beni, mi son deciso a spingermi più oltre. Il mio amore avrebbe dovuto arrestarsi innanzi a tanta ingratitudine; ma no, vuole uscire anche fuori dei suoi limiti, e fin dal seno materno fa giungere la mia voce supplichevole ad ogni cuore; uso i modi più insinuanti, le parole più dolci e penetranti e le preghiere più commoventi, per toccare le fibre del cuore umano e per ottenere… sai tu che cosa? Il cuore delle creature. Ad [essa] dico: ‘Figlia mia, dammi il tuo cuore, che è mio, ed io ti darò tutto ciò che vuoi ed ancor me stesso, purché mi dia in cambio il tuo cuore. Benché freddo d’amore, io lo riscalderò al contatto del mio cuore e lo farò andare in fiamme, da far distruggere in te ogni affetto che non sa di cielo. Se son disceso dal cielo per incarnarmi nel seno materno, sappi che l’ho fatto ap­punto per farti entrare nel seno del mio celeste Padre. Deh, non me lo negare, non rendere deluse le mie speranze, che per te saranno certezza d’infiniti beni’.
Ciononostante, vedendo la creatura ancor restia al mio amore, che anzi mi volse le spalle e se ne allontanò da me, ho cercato di fermarla, e coi gemiti più teneri e supplichevoli, e congiungendo le mie manine, ho cercato di scongiurarla, dicendole con voce soffocata da singhiozzi: ‘Deh, vedi, anima mia, che io non sono altro che il piccolo mendico, che null’altro ti chiede in elemosina che solo il tuo cuore? Figlia mia, possibile che non voglia tu comprendere che questo mio modo di agire non è altro che l’eccesso più grande del mio amore non corrisposto? Che il Creatore, per attirare al suo amore la creatura, prenda la forma di piccolo bambino, per non incutere timore, e s’induca a chiedere [in] elemosina il deformato suo cuore, e vedendola ricalcitrante e restia a non volerglielo dare, la prega, la supplica, geme e piange…, non ti muove a compassione? Non ram­mollisce il tuo cuore?’. Eppure, figlia mia, la creatura ragionevole pare che abbia perduto affatto l’uso di ragione, ché mentre dovrebbe restare annegata nelle fiam­me del mio divino amore, cerca invece di disfarsene, per andare in cerca dei più bestiali amori, per cui dovrà precipitare nel caos infernale, in cui a mille doppi piangerà in eterno”.
A queste parole di Gesù mi sentivo tutta intenerire e nel tempo stesso raccapricciare e rabbrividire, pensando all’umana ingratitudine, e poi alle tristissime conseguenze eterne e irreparabili. Mentre ero immersa in questa duplice considerazione, la voce del mio Gesù internamente si fece sentire nel mio cuore così: “E tu, figlia mia, non vorresti darmi il tuo cuore? Vorresti tu forse che anche per te io pianga e mi stemperi in gemiti e suppliche, affine di ottenere il possesso del tuo cuore?”. Ma mentre Gesù mi diceva tutto ciò singhiozzando, preso il mio cuore da un’ineffabile tenerezza per il non corrisposto suo amore, e tutto palpitante dal più vivo e non mai sentito amore, gli risposi: “Mio diletto Gesù, non piangere più; sì, sì che ti ridono non solo il mio cuore, ma tutta me stessa. Non esito a dartelo, ma per renderti un dono più gradito vorrei prima togliere dal freddo cuore mio, tutto ciò che non è tuo. Dammi perciò la grazia efficace per renderlo simile al tuo, affinché [tu vi] possa prendere stabile e perenne dimora”.
Dopo ciò, Gesù senz’altro aggiunse: “Figlia mia, è tempo che per ora passi più oltre. Entra a considerare il nono eccesso del mio amore”.
“L’attuale mio stato, figlia mia, si fa sempre più doloroso. Se tu mi ami, procura che il tuo sguardo sia sempre fisso in me, affinché possa ben apprendere tutto ciò che ti ho insegnato, affin di apprestare al tuo piccolo Gesù un qualche sollievo alle tante pene che soffre; fosse anche una tua parola di amore, una tua carezza o un affettuoso bacio, affinché il mio cuore abbia il dolce contento di sentirsi corrisposto con amore, che darà tregua al mio amarissimo pianto ed alle dure afflizioni che qui soffro. Senti, figlia mia, l’uomo, dopo d’avergli dato tante prove di amore mercé gli otto eccessi del mio amore, avrebbe dovuto piegarsi al contatto del vero e sublime mio amore, ma invece mi contraccambia sì malamente da farmi così passare ad un altro eccessivo amore, che per me sarà il più doloroso se non verrò corrisposto.
L’uomo sinora non si è dato per vinto, ed è perciò che all’ottavo eccesso di amore faccio seguire il nono, che consiste tutto nelle ansie, le più amorose, nei sospiri più infuocati di amore per lui, e nei desideri più ardenti di volermi poter sprigionare dal seno materno, affin di corrergli dietro, e dopo averlo fermato sulla china del male, bramo abbracciare e baciare quest’uomo ingrato del mio amore, per far che s’innamori della mia bellezza, della mia verità e dei miei beni eterni, dei quali voglio renderlo eterno possessore ad ogni costo. Questo mio inestimabile disegno riduce la mia piccola umanità, non ancor nata, ad un’agonia tale, da farmi giungere al­l’ultimo anelito della mia vita, che se non fosse stata soccorsa e sostenuta dalla mia divinità, che da lei è inseparabile per l’unione ipostatica, già a quest’ora avrebbe esalato l’ultimo suo respiro. La divinità, comunicandole continuamente dolci sorsi di novella vita, la fa resistere alla continuata agonia di nove mesi, che si direbbero mesi più di morte che di vita.
Questo, figlia mia, è il nono eccesso del mio amore, che non fu altro se non che un continuo agonizzare sin dal primo istante in cui la mia divinità entrò in questo seno materno, per prendere le spoglie umane, per ivi nascondere l’essenza della stessa mia divinità, altrimenti invece di amore incuterei timore alla creatura che vuole sposarsi al mio amore. Ma, ahimè, che lunga agonia non fu per me, quella di aspettare per ben nove mesi questa creatura! Oh, come l’amore mi soffoca e mi riduce ad un continuo morire! Ti ripeto, figlia mia, che se la mia umanità non avesse avuto dalla divinità aiuto e forza a sostenere l’amore immenso che tutto mi divora, si sarebbe purtroppo incenerita e consumata per l’amore operante, che mi ha fatto addossare l’enorme fardello delle pene dovute ad ogni creatura, insieme alle soddisfazioni richieste dalla divina giustizia e all’amore supplicante, gemente e supplicante, che cosa mai? Il cuore freddo ed insensibile delle creature. Ecco perché la mia vita nel seno materno si è resa tanto dolorosa, da non sentirmi più capace di star lontano dalla creatura. Bramo ad ogni costo di avvicinarla al mio seno, per farle sentire i miei palpiti infocati d’amore; di abbracciarla col mio più tenero e sviscerato affetto, affin di renderla padrona dei miei beni eterni... E sappi che se non venissi or ora da te sollevato, prima ancora che potessi uscire alla luce del giorno resterei affatto consumato dall’eccesso di questo mio novello amore. Guardami fisso fisso nel seno materno, e vedi come son divenuto pallido pallido; ascolta la mia voce che si rende, al par di un agonizzante, sempre più flebile; senti il palpito del mio cuore che, tanto accelerato nel suo battito, ora è quasi senza pulsazione. Guardati dal divagare lo sguardo da me, perché, osservami bene, io mi sento che adesso adesso io muoio… Sì, io muoio, e muoio di puro amore!”.
In questo mentre ancor io sentii venirmi meno la vita per amor di Gesù, e perciò si fece da entrambi profondo silenzio, silenzio sepolcrale. Il mio sangue si agghiacciò ed arrestò nelle mie vene, tanto che il mio cuore non me lo sentii più battere nel petto; il respiro mi venne meno, e tutta tremante stramazzai di peso sulla nuda terra. In quell’assopimento mortale soltanto la mia lingua balbettava: “Gesù mio..., amor mio..., vita mia..., mio tutto, non morire, che io sempre t’amerò…, mai più, mai più ti lascerò, a costo pure di qualsiasi sacrifizio. Dammi però sempre le fiamme del tuo amore, per poterti sempre più amare e consumarmi al più presto, tutta tua, di amore per te, sommo ed eterno mio bene”.
Allora sì, posso dire che mi sentii più che morta per amore del mio Gesù, il quale, già nato per questa nostra vita di morte, per farci prima assoggettare alla morte della nostra volontà e poscia a quella vera vita e vita eterna, al suo primo tocco mi fece rinvenire dall’asso­pimento in cui ero caduta, pronunziando queste soavissime parole: “Figlia, rinata per il mio amore, su, levati alla vita della mia grazia e del mio amore; corrispondimi in tutto, e come mi hai affatto compagnia con le nove considerazioni sull’eccesso del mio amore, lungo la novena della mia natività, così continua a fare altre ventiquattro considerazioni circa la mia passione e morte di croce, distribuendole nelle 24 ore della giornata, nelle quali scorgerai altri eccessi più sublimi del mio amore, e mi sarai di continuo sollievo nelle dolorosissime pene che mi vengono dalle ingrate creature; ed in vita sarai del tutto amante della mia sepoltura, ed in morte avrai l’ottima parte della mia gloria”.








J.M.J.

VOLUME 3°
Trovandomi nel solito mio stato mi son trovata fuori di me stessa, dentro di una chiesa, ed ivi c’era un sacerdote che celebrava il Divin Sacrificio; e mentre ciò face­va, piangeva amaramente e diceva: “La colonna della mia Chiesa non ha dove poggiarsi”.
Nell’atto che ciò diceva ho visto una colonna, la cui cima toccava il cielo, e al disotto di questa colonna stavano sacerdoti, vescovi, cardinali e tutte le altre dignità, che sostenevano detta colonna; ma con mia sorpresa ho fatto per guardare e ho visto che, dette persone, chi era molto debole, chi mezza marcita, chi inferma, chi piena di fango; scarsissimo era il numero di quelle che si trovavano in stato di sostenerla. Sicché questa povera colonna, tante erano le scosse che riceveva al disotto, che tentennava senza potere star ferma.
Al di sopra di detta colonna vi era il Santo Padre che, con catene d’oro e coi raggi che tramandava da tutta la sua persona, faceva quanto più poteva a sostenerla, ad incatenare ed illuminare le persone che dimoravano al disotto, benché qualcuno se ne fuggiva per avere più agio a marcire ed infangarsi, non solo, ma a legare e illuminare tutto il mondo.
Mentre ciò vedevo, quel sacerdote che celebrava la messa — sto in dubbio se fosse sacerdote oppure Nostro Signore, ma pare che fosse Gesù Cristo, ma non so dire di certo — mi ha chiamato vicino a sé e mi ha detto: “Figlia mia, vedi in che stato lacrimevole si trova la Chiesa; quelle stesse persone che dovevano sostenerla vengono meno, e con le loro opere l’abbattono, la percuotono e giungono a degradarla. L’unico rimedio è che faccia versare tanto sangue da formare un bagno, per poter lavare quel marcioso fango e sanare le loro piaghe profonde, imperocché sanati, rafforzati, abbelliti in quel sangue, possano essere strumenti abili a mantenerla stabile e ferma”.
Poi ha soggiunto: “Io ti ho chiamata per dirti: ‘Vuoi tu essere vittima e così essere come un puntello per sostenere questa colonna in tempi sì incorreggibili?
Io in principio mi son sentita correre un brivido per timore [che] ancora non avessi la forza, ma poi subito mi sono offerta ed ho pronunziato il Fiat. In questo mentre mi son trovata circondata da tanti santi, angeli e anime purganti, che con flagelli ed altri strumenti mi tormentavano; ed io sebbene in principio avvertivo un timore, poi quanto più soffrivo tanto più mi veniva la voglia di patire e gustare il patire come un dolcissimo nettare; e questo molto più ché mi ha toccato un pensiero: “Chi sa che quelle pene potessero essere mezzi come consumare la vita e così poter spiccare l’ultimo volo verso il mio sommo e unico Bene. Ma con sommo mio rammarico, dopo aver sofferto acerbe pene, ho visto che quelle pene non mi consumavano la vita. Oh, Dio, che pena che questa fragile carne mi impedisce d’unirmi col mio Bene eterno!
Dopo ciò, ho visto la sanguinosa strage che si faceva di quelle persone che stavano al di sotto della colonna. Che orribile catastrofe! Scarsissimo era il numero che non rimaneva vittima, giungevano a tale ardimento che tentavano di uccidere il Santo Padre. Ma poi pareva che quel sangue sparso, quelle sanguinose vittime straziate, erano mezzi come rendere forti quelli che rimanevano, in modo da sostenere la colonna senza farla più tentennare. Oh, che felici giorni dopo ciò spuntavano! Giorni di trionfi e di pace, la faccia della terra pareva rinnovata, la detta colonna acquistava il suo primiero lustro e splendore. Oh, giorni felici! Da lungi io vi saluto, ché tanta gloria darete alla mia Chiesa e tanto onore a quel Dio che ne è il capo!
Questa mattina il mio amabile Gesù è venuto, mi ha trasportato fuori di me stessa, dentro d’una chiesa, ed è scomparso; ed io sono rimasta sola. Ora trovandomi alla presenza del Santissimo Sacramento ho fatto la mia solita adorazione, ma mentre ciò facevo mi pareva che fossi divenuta tutt’occhi per vedere se potessi scorgere il dolce Gesù. In questo mentre l’ho visto sopra l’altare, da bambino, che mi chiamava con la sua graziosa manina. Chi può dirne il contento? Sono volata da lui, e senza pensare ad altro l’ho stretto fra le mie braccia e l’ho baciato. Ma nell’atto di far ciò, ha preso un aspetto serio, mostrava di non gradire i miei baci ed ha incominciato a respingermi. Io, ciò non curando, seguitavo e gli ho detto:
“Carino mio bello, l’altro giorno volesti tu sfogarti con me coi baci e con gli abbracci, ed io ti diedi tutta la libertà; oggi voglio teco sfogarmi anch’io; deh, dammi la libertà!” Ma lui seguitava a respingermi, e vedendo che io non cessavo è scomparso.
Chi può dire quanto son rimasta mortificata e impensierita nel trovarmi in me stessa! Ma dopo poco è ritornato, ed io, volendo chiedergli perdono delle mie impertinenze, mi ha perdonato col volersi lui sfogare con me; e mentre mi baciava mi ha detto: “Diletta del cuor mio, la mia Divinità abita in te abitualmente, e siccome tu vai inventando nuove cose per farmi deliziare con te, così io per renderti la pariglia uso nuovi modi come farti deliziare con me”.
Con ciò ho capito che è stato uno scherzo che Gesù voleva fare.
Siccome questa mattina il benedetto Gesù non ci veniva, il demonio cercava di prendere la sua forma e farsi vedere; ma io non avvertendo i soliti effetti ho incominciato a dubitare e mi son segnata con la croce, pri­ma io e poi lui[1], e il demonio vedendosi segnato tremava; subito l’ho respinto da me senza mirarlo. Dopo poco è venuto il mio caro Gesù, e temendo che fosse un’altra volta lo spirito maligno cercavo di respingerlo e d’invo­care l’aiuto di Gesù e della Regina Mamma. Ma lui, per assicurarmi che non era il demonio, mi ha detto:
“Figlia mia, la tua attenzione per rassicurarti se sono io o no, dev’essere dagli effetti interni, se si muovono a virtù o a vizi, imperciocché, siccome la mia natura è virtù, non di altro faccio eredi i miei figli che di virtù. E questo puoi anche comprenderlo sopra la[2] natura umana, che essendo carne, se avviene che fa qualche piaga, la carne si cambia in marcia, e si può dire che non è più carne; così la mia natura, se menomamente potesse ritenere in sé l’ombra del vizio cesserebbe d’essere quel Dio che è, ciò che non può mai succedere”.
Questa mattina essendo venuto l’adorabile Gesù e trasportandomi fuori di me stessa, mi ha fatto vedere strade piene di carne umana. Che carneficina spietata, fa orrore a pensarlo! Poi mi ha fatto vedere che succedeva una cosa nell’aria, e molti ne morivano all’improvviso, e questo lo vidi pure dal mese di marzo.
Io ho incominciato, secondo il solito, a pregarlo che si placasse e che risparmiasse le sue stesse immagini da supplizi sì crudeli, da guerre sì sanguinose; e siccome teneva la corona di spine gliel’ho tolta per mettermela io, e ciò per placarlo maggiormente. Ma con mio sommo rammarico ho visto che le spine rimanevano quasi tutte spezzate nella sua santissima testa, sicché pochissimo rimaneva a me da soffrire. Gesù si mostrava severo, senza quasi darmi retta; mi ha trasportata di nuovo nel letto, e siccome io mi trovavo con le braccia in croce soffrendo i dolori della crocifissione che lui stesso mi aveva prima partecipato, ha preso le mie braccia e me le ha unite insieme, legandole con una cordicella di oro. Io non badando che cosa volesse ciò significare, per spezzare quell’aria severa che teneva gli ho detto:
“Dolcissimo amor mio, ti offro questi movimenti del mio corpo che voi stesso mi avete fatto, e tutti gli altri che posso fare io, per il solo fine di piacervi e glorificar­vi. Ah, sì! Vorrei che anche i movimenti delle palpebre dei miei occhi, delle mie labbra e di tutta me stessa, fossero fatti al solo fine di piacere a voi solo. Fate, o buon Gesù, che tutte le mie ossa, i miei nervi, risuonassero fra loro ed a chiare voci vi attestassero il mio amore”.
E lui mi ha detto: “Tutto ciò che si fa per il solo fine di piacermi, risplende innanzi a me d’una maniera tale da attirare i miei sguardi divini, e mi piacciono tanto che a quelle azioni, fossero anche un muovere di ciglia, ne do il valore come se fossero fatte da me. Invece quelle altre azioni in sé stesse buone ed anche grandi, fatte non per me solo, sono come quell’oro infangato e pieno di ruggine, che non risplende, ed io non mi benigno neppure di guardarle”.
Ed io: “Ah, Signore, quanto è facile che la polvere imbratti le nostre azioni!”
E lui: “Alla polvere non bisogna badare, perché si scuote, ma quello che bisogna badare è all’intenzione”.
Ora mentre ciò si diceva, Gesù si occupava a legarmi le braccia; io gli ho detto: “Deh, Signore, che fate?”
E lui: “Faccio questo, ché tu stando in quella posizione della crocifissione mi vieni a placare, ed io siccome voglio castigare le genti te le sto legando”.
E detto ciò è scomparso.
Dopo aver passato parecchi giorni in contrasti con Gesù, che io volevo essere sciolta, e lui che non voleva, or si faceva vedere che dormiva, or mi imponeva silenzio, finalmente questa mattina, mentre l’ho visto, vedevo il confessore che assolutamente mi comandava che mi facessi sciogliere da Gesù. E questo più d’una volta; ma Gesù non dava retta. Io però, costretta dall’ubbi­dienza, gli ho detto: “Mio amabile Gesù, quando mai vi siete opposto all’ubbidienza? Non sono io che voglio essere sciolta, è il confessore che vuole che mi facciate soffrire la crocifissione; perciò arrendetevi a questa virtù tanto a voi prediletta, che inanella la vostra vita e che formò l’ultimo anello congiungendo tutto in uno: il sacrificio della croce”.
E Gesù: “Tu proprio mi vuoi fare violenza toccandomi quell’anello che congiunse la Divinità e l’umanità, e formò un solo anello, qual è l’ubbidienza”.
E mentre ciò diceva ha preso l’aspetto di crocifisso, e quasi forzato dalla potestà sacerdotale mi ha partecipato i dolori della crocifissione. Sia sempre benedetto il Signore e sia il tutto a gloria sua! Così pare che sono stata sciolta.
Trovandomi nel solito mio stato, mi sono trovata fuori di me stessa e mi pareva che girassi la terra. Oh, come era inondata d’ogni sorta di iniquità! Fa orrore a pensarlo! Ora mentre giravo, sono giunta ad un punto ed ho trovato un sacerdote di santa vita, e ad un altro punto una vergine di vita intemerata e santa. Ci siamo uniti tutti e tre ed abbiamo preso il discorso sui tanti castighi che il Signore sta facendo e tanti altri che tiene preparati. Io ho detto loro: “E voi che fate? Vi siete forse conformati alla divina giustizia?”
E quelli: “Vedendo la stretta necessità di questi tristi tempi e che l’uomo non si arrenderebbe né se uscisse un apostolo né se il Signore inviasse un altro San Vincenzo Ferrer, che con i miracoli e segni portentosi lo potesse indurre alla conversione, anzi l’uomo è giunto a tale ostinazione e ad una specie di pazzia che la stessa forza dei miracoli li renderebbe più increduli, onde, investiti da questa strettissima necessità, per il bene loro e per arrestare questo mare marcioso che inonda la faccia della terra e per gloria del nostro Dio, tanto oltraggiato, ci sia­mo conformati alla giustizia. Solo stiamo pregando e offrendoci vittime, per fare che questi castighi riuscissero per la conversione dei popoli. E tu che fai? Non ti sei con­formata con noi?”
Ed io: “Oh, no! Non posso, ché l’ubbidienza non vuole, sebbene Gesù vuole che mi uniformassi, ma siccome l’ubbidienza deve prevalere su tutto, mi conviene stare sempre in contrasto con Gesù benedetto, cosa che molto mi affligge”.
E quelli: “Quando è ubbidienza, sicuro che non bisogna aderire”.
Dopo ciò, trovandomi in me stessa, quando ho appena visto il carissimo Gesù, ed io volevo sapere di quali parti fossero quel sacerdote e quella vergine, e lui mi ha detto che erano del Perù.
Questa mattina l’amabile Gesù mio è venuto e mi ha trasportata fuori di me stessa, e vedevo come se dovesse dal cielo smuoversi una cosa e toccare la terra. Sono restata tanto spaventata che ho gridato, e gli ho detto:
“Deh, deh, Signore, che fai? Quanta ruina succederà, se ciò succede! Mi dici che mi vuoi bene e mi vuoi far prendere paura? Mai visto! Non lo fare; no, no! Non puoi farlo, che io non lo voglio”.
E Gesù, tutto compassionandomi mi ha detto: “Figlia mia, non aver timore; e poi, quando mai vuoi tu che io faccia niente? Non devo farti vedere niente quando castigo le genti, altrimenti mi leghi dappertutto. Ebbene fortificherò il tuo cuore e farò spuntare da esso come un tronco da poter mantenere fermo ciò che tu vedi, e poi verserò in te tante grazie in modo da potermi nutrire io ed i miei figli”.
In questo mentre è uscito da dentro il mio cuore come un tronco, ed alla cima come due rami a modo di forca, che sollevandosi in aria, [uno] prendeva in mezzo ciò che stava per smuoversi [e] così restava fermo, solo, ad un punto lontano; l’altro pareva che toccava la terra. Dopo mi son trovata in me stessa e l’ho pregato[3] che si placasse, e pareva piuttosto che si arrendesse, tanto che mi ha partecipato i dolori della croce; ed è scomparso.
Questa mattina il mio adorabile Gesù pareva irrequieto; non faceva altro che andare e venire, or si tratteneva con me, or, quasi tirato dal suo ardentissimo amore verso le creature, andava a vedere ciò che facevano, e tutto si condoleva di ciò che soffrivano come se lui stesso, e non loro, fosse preso da quelle sofferenze. Parecchie volte ho visto il confessore che con la sua potestà sacerdotale costringeva Gesù a farmi soffrire le sue pene per poter placarlo; e lui, mentre pareva che non voleva essere placato, dopo si mostrava grato, ringraziava di cuore chi si occupava a mantenere il suo braccio sdegnato; ed or mi partecipava una sofferenza ed or un’al­tra. Oh, come era tenero e commovente vederlo in questo stato! Faceva spezzare il cuore per compassione. Parecchie volte mi ha detto:
“Conformati alla mia giustizia che più non posso. Ah, l’uomo è troppo ingrato e quasi mi costringe da tutte le parti a castigarlo; me li strappa lui stesso dalle mie mani i castighi. Se tu sapessi quanto soffro nel fare uso della mia giustizia! Ma è l’uomo stesso che mi fa violenza. Ahi, se non avessi fatto altro che comperare a prez­zo di sangue la sua libertà, pure mi doveva essere riconoscente[4], ma quello per farmi maggior torto va inventando nuovi modi come rendere inutile il mio sborso”.
E mentre ciò diceva, piangeva amaramente. Ed io per consolarlo gli ho detto: “Dolce mio Bene, non vi affliggete; veggo che la vostra afflizione è più che[5] vi sentite costretto di castigare le genti. Ah, no, non sarà mai! Se voi siete tutto per me, io voglio essere tutta per voi, quindi sopra di me manderete i flagelli; qui c’è la vittima, sempre pronta ed a vostra disposizione. Potete farmi soffrire ciò che volete, e così resterà la vostra giustizia in qualche modo placata e voi sollevato nell’afflizione che prendete a veder soffrire le creature. È stata sempre questa la vostra intenzione: di non conformarmi alla giu­stizia perché soffrendo l’uomo soffrirete[6] più voi che lui stesso”.
Mentre stavo ciò dicendo, è venuta la nostra Mamma Regina ed io mi son ricordata che, avendo domandato al confessore l’ubbidienza di conformarmi alla giustizia, mi aveva detto che domandassi alla Vergine Santissima se voleva che mi uniformassi. Gliel’ho detto e lei mi ha detto: “No, no, ma prega figlia mia; e in questi giorni cerca per quanto puoi di tenerlo insieme [con te] e di placarlo, che molti castighi stanno preparati”.
Continua l’amabile Gesù mio a farsi vedere afflitto. Questa mattina insieme con lui è venuta la nostra Regina Mamma e mi pareva che lei me lo portasse affinché l’avessi placato e pregato, insieme con lei, che avesse fatto soffrire me per risparmiare le genti; e mi ha detto che se in questi giorni passati non mi avesse interposta e il confessore non avesse fatto uso della potestà sacerdotale a concorrere con le sue intenzioni di farmi soffrire, molte catastrofi sarebbero successe.
In questo mentre ho visto il confessore ed io subito ho pregato, per lui, Gesù e la Regina Madre; e Gesù tutto benignità ha detto: “A misura che si prenderà cura dei miei interessi, col pregarmi ed anche con l’impegnarsi di rinnovare l’intenzione di farti soffrire a scopo di risparmiare le genti, prenderò cura di lui e lo risparmierò. Io sarei pronto a fare questo patto con lui”.
Dopo ciò ho fatto per guardare il mio dolce ed unico Bene, ed ho visto che nelle sue mani teneva due fulmini; in una conteneva come allestito un terremoto forte ed una guerra; nell’altra, tante specie di morti all’improv­viso e malattie contagiose. Io l’ho cominciato a pregare che sopra di me versasse quei fulmini e quasi li volevo togliere dalle sue mani, ma lui per non farmi giungere a questo ha cominciato ad allontanarsi da me; ed io cercavo di seguirlo e perciò mi son trovata fuori di me stessa.
Gesù mi è scomparso ed io son rimasta sola. Or trovandomi sola ho girato un poco, e mi son trovata in parti dove in questa stagione fanno la mietitura. Pareva che là succedevano fracassi di guerre, ed io volevo andare per aiutare quelle povere genti; ma i demoni mi impedivano d’andare dove stavano succedendo e per succedere tali cose, e mi battevano acciò non potessi aiutare, ed anche impedire i loro artifizi, ed hanno usata tanta forza da farmi retrocedere indietro.
Continua il mio adorabile Gesù a venire; e siccome la mia mente, prima di venire[7] [Gesù], stava pensando a certe cose che negli anni passati Gesù mi aveva detto e che non tanto ricordo bene, lui, quasi per ricordarmi, mi ha detto:
“Figlia mia, la superbia rode la grazia; nei cuori dei superbi non v’è altro che un vuoto tutto pieno di fumo che produce la cecità. La superbia non fa altro che rendere sé stesso un idolo; sicché l’anima superbiosa, in sé non ha il suo Dio; col peccato ha cercato di distruggerlo nel suo cuore, ed alzando l’altare nel suo cuore, vi si mette sopra e adora sé stessa”.
O Dio, che mostro abominevole è questo vizio! A me sembra che se l’anima sta attenta a non farla entrare in sé, è libera da tutti gli altri vizi; ma se per sua sventura si lascia dominare da essa, siccome madre mostruosa e cattiva, le partorirà tutti i suoi figli discoli, quali sono gli altri peccati. Ah, Signore, tenetela da me lontano!
Tutto il piacere dell’anima dev’essere nel rimirarsi in Gesù.
Questa mattina il mio dilettissimo Gesù, appena venuto, mi ha detto: “Figlia mia, tutto il tuo piacere dev’es­sere nel rimirarti in me, e se ciò farai sempre, ritrarrai in te tutte le mie qualità, la mia fisionomia, i miei stessi lineamenti, ed io, in contraccambio, tutto il mio gusto e sommo contento sarà nel dilettarmi di rimirarmi in te”.
Detto ciò è scomparso ed io stavo ruminando nella mia mente le parole già dette. Tutto all’improvviso è ritornato, mettendomi la sua mano in capo, rivolgendomi la faccia verso di lui ha soggiunto: “Oggi voglio dilettarmi un poco col rimirarmi in te”.
Un brivido mi è corso per tutta la vita, uno spavento da sentirmi morire, perché vedevo che mi guardava fissa fissa volendosi dilettare nei miei pensieri, sguardi, parole ed in tutto il resto, col rimirarsi in me. “Oh, Dio, sono oggetto io di far prendere diletto o di amareggiarvi?”, andavo ripetendo nel mio interno.
In questo mentre è venuta la nostra cara Mamma Regina in mio aiuto, portando una veste bianchissima fra le mani, e tutta amabilità mi ha detto: “Figlia mia, non temere, voglio io stessa supplire per te vestendoti della mia innocenza così mio Figlio, rimirandosi in te, possa trovare il maggior diletto che si possa trovare in umana creatura”.
Onde mi vestì con quella veste, e mi offriva al mio caro bene Gesù dicendogli: “Accettatela per riguardo mio, o caro Figlio, e dilettatevi in essa”.
Così mi è passato ogni timore, e Gesù si dilettava in me ed io in lui.
Questa mattina il mio dolce Gesù è venuto e mi ha trasportata fuori di me stessa. Ora, siccome l’ho veduto tutto ripieno d’amarezza, l’ho pregato e ripregato che la riversasse in me; ma per quanto ho potuto pregare non mi è riuscito di ottenere che versasse in me le sue amarezze, solo che, siccome mi avvicinavo alla sua bocca per ricevere le sue amarezze, ci[8] veniva un alito amaro. Mentre io ciò facevo, vedevo un sacerdote che moriva, ma non ho conosciuto bene chi fosse perché pareva l’altra intenzione di pregare per un sacerdote infermo, ma non scorgendolo per quello[9], mi son confusa se fosse quello o qualche altro. Onde ho detto a Gesù: “Signore, che fai? Non vedi tu quanta scarsezza di sacerdoti vi è a Corato, che vuoi toglierci degli altri?”
E Gesù, non dandomi retta e minacciando con la mano, diceva: “Li distruggerò, li distruggerò di più”.
Trovandomi molto sofferente, l’amabile mio Gesù è venuto e mi ha messo il braccio da dietro il collo in atto di sostenermi. Ora stando a lui vicina ho incominciato a fare le mie solite adorazioni a tutte le sue sante membra, incominciando dalla sua sacratissima testa. Nell’atto che ciò facevo mi ha detto: “Diletta mia, ho sete; fammi dissetare nel tuo amore che più non posso trattenermi”.
E prendendo aspetto di bambino si è menato fra le mie braccia e si è messo a succhiare; pareva che ci pren­deva un gusto graditissimo e ne restava tutto ristorato e dissetato. Dopo ciò, volendo quasi scherzare con me, con una lancia che teneva in mano mi passava il cuore da banda a banda. Io sentivo acerbissimo dolore, ma oh, come ero contenta di soffrire, specialmente ché erano le stesse mani del mio solo ed unico Bene che mi davano da patire! E l’incitavo a farmi maggiore strazio, tanto era il gusto e la dolcezza che vi sentivo. Gesù benedetto per rendermi più contenta mi ha strappato il cuore prendendolo fra le sue mani, e con quella stessa lancia lo ha aperto metà e metà, ed ha trovato una croce risplendente e bianchissima. L’ha presa tra le sue mani compiacendosi grandemente e mi ha detto: “Questa croce l’ha prodotta l’amore e la purità con cui tu soffri. Mi compiaccio tanto del modo con cui tu soffri che non solo io, ma chiamo il Padre e lo Spirito Santo a compiacersi meco”.
In un istante ho fatto per guardare ed ho visto Tre Persone che circondandomi si dilettavano nel guardare questa croce. Io però, lamentandomi con loro, ho detto: “Grande Iddio, troppo scarso è il mio patire; non son contenta della sola croce, ma voglio ancora le spine ed i chiodi, e se non lo merito, perché indegna e peccatrice, voi certo potete darmi le disposizioni per ciò meritare”.
E Gesù dandomi un raggio di luce intellettuale mi ha fatto capire che voleva che io facessi la confessione delle mie colpe. Mi sentivo quasi atterrare innanzi alle Tre Divine Persone, ma l’umanità di Nostro Signore m’ispirava fiducia, sicché pure a lui rivolgendomi ho detto il Confiteor e dopo ho incominciato a fare la confessione delle mie colpe.
Ora mentre mi trovavo tutta immersa nelle mie miserie, una voce è uscita da mezzo a loro che diceva: “Ti perdoniamo, e tu non più peccare”. Io mi aspettavo di ricevere l’assoluzione di Nostro Signore, ma nel meglio è scomparso. Poco dopo è ritornato crocifisso e mi ha partecipato i dolori della croce.
Questa mattina il mio caro Gesù non veniva. Dopo molti stenti, quando appena l’ho visto[10]; ed io lamentandomi con lui della sua tardanza gli ho detto: “Signore benedetto, come così tardi? Vi siete forse dimenticato che non posso stare senza di voi? Ho forse perduto la vostra grazia, che non ci venite?”
E lui interrompendo il mio dire lamentevole, mi ha detto: “Figlia mia, sai tu che cosa fa la mia grazia? La mia grazia rende felice l’anima dei beati comprensori e rende felice l’anima dei viatori, con questa sola differen­za, che i comprensori beandosi e deliziandosi, e i viatori lavorando e mettendola a traffico. Sicché chi possiede la grazia ritiene in sé stessa il paradiso, perché la grazia non è altro che possedere me stesso, ed essendo io solo l’oggetto incantevole che incanta tutto il paradiso, che forma tutti i contenti dei beati, l’anima possedendo la grazia, dovunque si trova possiede il suo paradiso”.
Il mio diletto Gesù è venuto tutto affabilità. Mi pareva come un intimo amico che fa tante cerimonie all’al­tro amico per attestargli il suo amore. Le prime parole che mi ha detto sono state: “Diletta mia, se tu sapessi quanto ti amo! Mi sento tirato grandemente ad amarti. Gli stessi miei indugi nel venire, mi sforzano e sono nuove cause di farmi venire a colmarti di nuove grazie e carismi celesti. Se tu potessi comprendere quanto ti amo, il tuo amore paragonato col mio appena lo scorgeresti”.
Ed io: “Mio dolce Gesù, è vero ciò che dite, ma anche io sento che vi amo assai; e voi dite che il mio amore paragonato al vostro appena si scorge, questo è perché il vostro potere è senza limiti ed il mio è limitato; e per tanto posso fare, per quanto da voi stesso mi vien dato. È tanto vero ciò, che quando mi viene la volontà di più soffrire per maggiormente attestarvi il mio amore, se voi non me le concedete le pene, non sta in mio potere il soffrire e son costretta a rassegnarmi anche in questo ed essere quell’essere inutile che da me sono stata sempre. Invece a voi stava in vostro potere lo stesso patire, ed in qualche[11] modo volete manifestarmi il vostro amore, già lo potete fare. Diletto mio, datemi a me il potere e poi vi farò vedere quanto so fare per amor vostro, perché quella misura che mi date, quella stessa misura vi darò”.
Lui ascoltava con sommo piacere il mio dire spropositato, e quasi volendomi mettere a prova mi ha tra­sportata fuori di me stessa, vicino ad un luogo profondo, pieno di fuoco liquido e tenebroso; metteva orrore e spa­vento al solo vederlo. Gesù mi ha detto: “Qui v’è purgatorio e molte anime ci sono ammassate in questo fuoco. Andrai tu in questo luogo a soffrire per liberare quelle anime che piacciono a me; e questo lo farai per amor mio”.
Io subito, sebbene un po’ tremando, gli ho detto: “Tutto per amor vostro, son pronta; ma ci dovete venire voi insieme, altrimenti se mi lasciate non vi fate più trovare e poi mi fate piangere ben bene”.
E lui: “Se vengo io insieme, qual sarebbe il tuo purgatorio? Quelle pene, con la mia presenza, per te si cambierebbero in gioie ed in contenti”.
Ed io: “Sola non ci voglio andare; e poi mentre andremo in quel fuoco, voi vi starete dietro le mie spalle, così non vi vedo e verrò a soffrire”.
Così sono andata in quel luogo ripieno di dense tenebre, e lui che mi seguiva da dietro; ed io per timore ancora [che] mi lasciasse, gli ho preso le mani, tenendole strette alle mie spalle. Giunta laggiù, chi può dire le pene che soffrivano quelle anime? Sono certo inenarrabili a persone vestite d’umana carne. Onde andando io in quel fuoco, esso distruggevasi e si diradavano le tenebre, e molte [anime] ne uscivano ed altre ne restavano sollevate. Dopo esser stati circa un quarto d’ora, ne siamo usciti, e Gesù tutto si lamentava.
Io subito ho detto: “Ditemi, mio Bene, perché vi lamentate? Cara mia vita, sono stata io forse la causa, perché non ho voluto andare sola in quel luogo di pene? Ditemi, ditemi; avete sofferto molto nel veder quelle anime soffrire? Che cosa vi sentite?”
E Gesù: “Diletta mia, mi sento tutto ripieno d’amarezze, tanto che non potendole più contenere sto per traboccarle sopra la terra”.
Ed io: “No, no, mio dolce amore, le verserete in me, non è vero?”
Ed avvicinandomi alla bocca[12] ha versato un liquore amarissimo, in tanta abbondanza che non potevo contenerlo, e pregavo lui stesso che mi desse la forza a sostenerlo, altrimenti ciò che non avevo fatto fare a Nostro Signore l’avrei fatto io, a[13] versarlo sopra la terra, e questo mi rincresceva molto a farlo. Pare però che mi ha dato la forza, sebbene erano tante le sofferenze che mi sentivo venir meno. Ma Gesù prendendomi fra le sue braccia mi sosteneva e mi diceva: “Per te bisogna cedere per forza; ti rendi tanto importuna che mi sento quasi necessitato a contentarti”.
Continua il mio adorabile Gesù a venire, e questa volta lo vedevo in atto quando stava alla colonna. Gesù slegandosi si gettava nelle mie braccia per essere da me compatito. Io me l’ho stretto ed ho incominciato ad aggiustargli i capelli, tutti aggrumiti di sangue, ad asciugargli e [gli] occhi e il volto, ed insieme lo baciavo e facevo diversi atti di riparazione. Quando sono giunta alle mani e gli ho tolto la catena, con somma meraviglia ho visto che il capo era di Nostro Signore ma le membra erano di tante altre persone, specialmente religiose.
Oh, quante membra infette che davano più tenebre che luce! Nel lato sinistro ci stavano quelli che davano più da soffrire a Gesù. Si vedevano membra inferme, ripiene di piaghe verminose e profonde; altre che appena restavano attaccate per un nervo a quel corpo. Oh, come si doleva e vacillava quel capo divino sopra quelle membra! Al lato destro poi si vedevano quelli che erano più buoni, cioè membra sane, risplendenti, coperte di fiori e di rugiada celeste, profumate di olezzanti odori; e tra queste membra si[14] scorgeva qualcuna che mandava un profumo oscuro. Questo capo divino sopra queste membra molto veniva a soffrire. È vero che vi erano delle membra risplendenti, che quasi si rassomigliavano alla luce di quel capo, che lo ricreavano e gli davano grandissima gloria, ma erano in più gran numero le membra infette. Gesù aprendo la sua dolcissima bocca, mi ha detto:
“Figlia mia, quanti dolori mi danno queste membra! Questo corpo che tu vedi è il corpo mistico della mia Chiesa, di cui mi glorio di essere il capo; ma quanto strazio crudele fanno queste membra in questo corpo! Pare che si aizzino tra loro a chi più possa darmi tormento”.
Ha detto altre cose, che non tanto ricordo bene, su questo corpo; perciò faccio punto.
Trovandomi molto afflitta su certe cose che non è qui lecito il dirle, l’amabile Gesù, volendomi sollevare nella mia afflizione, è venuto in un aspetto tutto nuovo. Mi pareva vestito di color celeste, tutto ornato di campanellini piccoli d’oro che, toccandosi fra loro, risuonavano di un suono non mai udito. All’aspetto di Gesù ed al grazioso suono mi son sentita incantare e sollevare nella mia afflizione, che come fumo si dipartiva da me. Io sarei rimasta lì in silenzio, tanto mi sentivo attonite e stupite le potenze dell’animo mio, se il benedetto Gesù non avesse rotto il mio silenzio col dirmi:
“Figlia a me diletta, tutti questi campanellini sono tante voci che ti parlano del mio amore e che chiamano te ad amarmi. Ora lasciami vedere quanti campanelli tieni tu che mi parlano del tuo amore e che chiamano me ad amarti”.
Ed io tutta piena di rossore gli ho detto: “Deh, Signore, che dite? Io non ho niente, non ho altro che i soli difetti”.
Allora Gesù compatendo la mia miseria ha ripreso a dirmi: “Tu non hai niente, è vero; ebbene voglio ornarti io coi miei stessi campanelli, acciò [tu] possa aver tante voci come chiamarmi e come mostrarmi il tuo amore”.
Così pareva che con una fascia ornata di questi campanellini mi cingesse la vita. Dopo ciò, io son rimasta in silenzio e lui ha soggiunto: “Oggi ho piacere di trattenermi con te, dimmi qualche cosa”.
Ed io: “Voi sapete che tutto il mio contento è di stare insieme con voi, ed avendo voi ho tutto; onde possedendo voi mi pare che non ho che altro desiderare né che dire”.
E Gesù: “Fammi sentire la tua voce che ricrea il mio udito; conversiamo un poco insieme. Io ti ho parlato tante volte della croce. Oggi fammi sentire parlare te della croce”.
Io mi sentivo tutta confusa, non sapevo che dire; ma lui mandandomi un raggio di luce intellettuale, per contentarlo ho incominciato a dire: “Diletto mio, chi vi può dire che cosa è la croce e che fa la croce? Solo la vostra bocca può degnamente parlare della sublimità della croce. Ma giacché lo volete che parli, io pure lo faccio.
La croce sofferta da voi, Gesù Cristo, mi liberò dalla schiavitù del demonio e mi sposò alla Divinità con nodo indissolubile; la croce è feconda e mi[15] partorisce la grazia; la croce è luce e mi disinganna del temporale e mi svela l’eterno; la croce è fuoco e tutto ciò che non è Dio mette in cenere, fino a vuotarmi il cuore di un minimo filo d’erba che possa starci. La croce è moneta di inestimabile prezzo e se io avrò, sposo santo, la fortuna di possederla, mi arricchirò di monete eterne fino a rendermi la più ricca del paradiso, perché la moneta che corre in cielo è la croce sofferta in terra. La croce poi fa conoscere me stessa, non solo, ma mi dà la conoscenza di Dio. La croce m’innesta tutte le virtù. La croce è nobile cattedra dell’Increata Sapienza, che m’insegna le dottrine più alte, sottili e sublimi. Sicché la sola croce mi svelerà i misteri più nascosti, le cose più recondite, la perfezione più perfetta, nascosta ai più dotti e sapienti del mondo. La croce è qual acqua benefica che mi purifica, non solo, ma mi somministra il nutrimento alle virtù, me le fa crescere, ed allora mi lascia, quando mi riconduce all’eterna vita. La croce è qual rugiada celeste che mi conserva ed abbellisce il bel giglio della purità. La croce e l’alimento della speranza. La croce è la fiaccola della fede operante. La croce è qual legno solido che conserva e fa mantenere sempre acceso il fuoco della carità. La croce è qual legno asciutto che fa svanire e mettere in fuga tutti i fumi di superbia e di vanagloria, e produce nell’anima l’umile viola dell’umiltà. La croce è l’arma più potente che offende i demoni e mi difende da tutti i loro artigli. Sicché l’anima che possiede la croce è d’invidia e d’ammirazione agli stessi angeli e santi, di rabbia e di sdegno ai demoni. La croce è il mio paradiso in terra, di modo che se il paradiso di là, dei beati, sono i godimenti, il paradiso di qua sono i patimenti. La croce è la catena d’oro purissimo che mi congiunge con voi, mio sommo Bene, e forma l’unione più intima che dar si possa, fino a far scomparire l’essere mio, e mi tramuta in voi, mio oggetto amato, tanto da sentirmi perduta in voi e viva della stessa vita”.
Dopo che ebbi detto questo, non so se sono spropositi, l’amabile mio Gesù nel sentirmi tutto si compiaceva e preso da entusiasmo d’amore tutta mi baciava, e mi ha detto:
“Brava, brava la mia diletta, hai detto bene. L’amo­re mio è fuoco, ma non come il fuoco terreno che dovunque penetra, rende sterile e mette tutto in cenere. Il mio fuoco è fecondo e solo sterilisce tutto ciò che non è virtù, ma [per] il resto dà vita a tutto e vi fa germogliare i bei fiori, fa produrre i più squisiti frutti e lo rende il più delizioso giardino celeste. La croce è tanto potente e le ho comunicato tanta grazia, da renderla più efficace degli stessi sacramenti, e questo perché nel ricevere il sacramento del mio corpo ci vogliono le disposizioni ed il libero concorso dell’anima per ricevere le mie grazie, che[16] molte volte possono mancare, ma la croce ha virtù di disporre l’anima alla grazia”.
Dopo lungo silenzio, questa mattina l’amabile mio Gesù, interrompendolo, mi ha detto: “Io sono il ricettacolo delle anime pure”.
Ed io in queste due parole ebbi luce intellettuale che mi faceva comprendere molte cose sulla purità, ma poco o niente so ridurre a parole di ciò che sento nell’intel­letto. Ma l’onorevolissima signora obbedienza vuol che scriva qualche cosa anche spropositando, e per contentare lei sola dico i miei spropositi sulla purità.
Mi pareva che la purità fosse la gemma più nobile che l’anima può possedere. L’anima che possiede la purità è investita di candida luce, in modo che Iddio benedetto rimirandola ritrova la sua stessa immagine; si sente tirato ad amarla, tanto che giunge ad innamorarsi di lei, ed è preso da tanto amore che le dà per ricetto il suo purissimo cuore, perché solo ciò che è puro e mondissimo entra in Dio; niente entra macchiato in quel seno purissimo.
L’anima che possiede la purità ritiene in sé il suo primiero splendore che Dio le ha dato nel crearla. Niente è in lei deturpato, snobilitato, ma come regina che aspira alle nozze del Re celeste si conserva la sua nobiltà, fino a tanto che questo nobile fiore viene trapiantato nei giardini celesti. Oh, come questo fiore verginale è fragrante di distinto odore! Sempre s’innalza sopra tutti gli altri fiori ed anche sopra gli stessi angeli, come spicca di svariata bellezza! Sicché tutti sono presi da stima e d’amore, e libero gli danno il passo, fino a farlo giungere allo sposo divino, in modo che il primo posto intorno a Nostro Signore è di questi nobili fiori. Onde Nostro Signore si diletta grandemente di passeggiare in mezzo a questi gigli che profumano la terra ed il cielo, e molto più si compiace d’essere circondato da questi gigli, che essendone egli il primo nobile giglio ed il modello, è l’esemplare di tutti gli altri.
Oh, come è bello vedere un’anima vergine! Il suo cuore non dà altro alito che di purità e di candore; non è neppure ombrata d’altro amore che non è Dio. Anche il suo corpo spira odore di purità; tutto è puro in lei; pura nei passi, pura nell’operare, nel parlare, nel guardare, anche nel muoversi; sicché al solo vederla si sente la fragranza e vi si scorge un’anima vergine davvero. Quali carismi, quali grazie, quale l’amore scambievole, gli stra­tagemmi amorosi tra quest’anima e lo sposo Gesù! Solo chi li prova può dire qualche cosa, che neppure tutto si può narrare. Ed io non mi sento di[17] dovere di parlare su questo punto, perciò faccio silenzio e passo innanzi.
Questa mattina il mio adorabile Gesù non veniva. Dopo molto aspettare e riaspettare, quando appena, quasi come un lampo che sfugge, parecchie volte si è fatto vedere; ma mi pareva vedere piuttosto una luce, che Gesù, ed in questa luce una voce che diceva, la prima volta che è venuta: “Io ti attiro ad amarmi in tre modi: a forza di benefizi, a forza di simpatie ed a forza di persuasioni”.
Chi può dire quante cose comprendevo in queste tre parole? Mi pareva che Gesù benedetto, per attirarsi il mio amore ed anche quello delle altre creature, fa piovere benefizi a pro nostro, e vedendo che questa pioggia benefica non giunge al punto di guadagnarsi il nostro amore, giunge a rendersi simpatico. E qual è questa sim­patia? Sono le sue pene, sofferte per amor nostro, fino a morire diluviante sangue sopra una croce, dove si rese tanto simpatico che innamorò di sé i suoi stessi carnefici ed i suoi più fieri nemici. Di più, per attirarci maggiormente e rendere più forte e stabile il nostro amore, ci ha lasciato la luce dei suoi santissimi esempi unita alla sua celeste dottrina, che come luce ci diradano le tenebre di questa vita e ci conducono all’eterna salvezza.
La seconda volta che è venuto mi ha detto: “Io mi manifesto all’anima in tre modi: con la potenza, con la notizia e con l’amore. La potenza è il Padre, la notizia è il Verbo, l’amore è lo Spirito Santo”.
Oh, quante altre cose comprendevo! Ma troppo scarso è quello che so manifestare. Mi pareva che con la potenza Dio si manifesta all’anima in tutto il creato; dal primo all’ultimo essere viene manifestata l’onnipotenza di Dio. Il cielo, le stelle e tutti gli altri esseri ci parlano, sebbene in muto linguaggio, di un Ente Supremo, di un Essere Increato, della sua onnipotenza, perché l’uomo più scienziato, con tutta la sua scienza non può giungere a creare il più vil moscerino; e questo ci dice che ci deve essere un Essere Increato, potentissimo, che ha tutto creato e dà vita e sussistenza a tutti gli esseri. Oh, come tutto l’universo a chiare note ed a caratteri incancellabili ci parla di Dio e della sua onnipotenza! Sicché chi non lo vede è cieco e cieco volontario. Con la notizia mi pareva che Gesù benedetto, nello scendere dal cielo, venisse in persona sulla terra a darci notizia di ciò che è a noi invisibile; ed in quanti modi non si manifestò egli? Credo che ognuno da sé comprenda tutto il resto, perciò non mi dilungo a dire.
Dopo aver passati parecchi giorni quasi di privazione totale del mio sommo ed unico bene, accompagnati da una durezza di cuore, senza poter neppure piangere la mia gran perdita, sebbene offrivo a Dio anche quella durezza dicendogli: “Signore, accettatela come sacrifizio; voi solo potete rammollire questo cuore sì duro”, finalmente, dopo lungo penare, è venuta la mia cara Mamma Regina portando nel suo grembo il celeste bambino ravvolto in un pannolino, tutto tremante; me l’ha dato fra le mie braccia dicendomi: “Figlia mia, riscaldalo coi tuoi affetti, che mio Figlio nacque in estrema povertà, in totale abbandono degli uomini ed in somma mortificazione”.
Oh, come era carino, con quella sua celeste beltà! L’ho preso fra le mie braccia e me l’ho stretto per riscaldarlo, perché era quasi intirizzito dal freddo, non avendo altra cosa che lo copriva che un solo pannolino.
Dopo averlo riscaldato per quanto ho potuto, il mio tenero bambinello, snodando le sue purpuree labbra, mi ha detto: “Mi prometti tu d’essere sempre vittima per amor mio, come io lo sono per amor tuo?”
Ed io: “Sì, tesoretto mio, te lo prometto”.
E lui: “Non son contento della parola, ne voglio un giuramento, ed anche una sottoscrizione col tuo sangue”.
Ed io: “Se vuole l’ubbidienza, lo farò”.
E lui pareva tutto contento ed ha soggiunto: “Il mio cuore, da che nacqui, lo tenni sempre offerto in sacrifizio per glorificare il Padre, per la conversione dei peccatori e per le persone che mi circondavano e che più mi furono fedeli compagne nelle mie pene. Così io voglio che il tuo cuore stia in continua attitudine, offerto in ispirito di sacrifizio per questi tre fini”.
Mentre ciò diceva, la Regina Mamma voleva il bambino per ristorarlo col suo latte dolcissimo. L’ho restituito e lei ha messo fuori la sua mammella per metterla in bocca al divino bambino; ed io, furba, volendo fare uno scherzo, ho messo la mia bocca a succhiare, ho tirato poche gocce; e nell’atto che ciò facevo mi sono scomparsi, lasciandomi contenta e scontenta. Sia tutto a gloria di Dio ed a confusione di questa misera peccatrice.
Continua a farsi vedere ad ombra ed a lampo. Mentre mi trovavo in un mare d’amarezza, in un istante mi si è fatto vedere dicendomi: “La carità dev’essere come un ammanto che deve coprire tutte le tue azioni, in modo che tutto deve rilucere di perfetta carità. Che significa quel dispiacerti quando non soffri? Che la tua carità non è perfetta, perché il soffrire per amor mio e il non soffrire per amor mio, senza la tua volontà, è tutto lo stesso”.
Ed è scomparso lasciandomi più amareggiata di prima, volendo toccare un tasto troppo per me delicato e che lui stesso mi ha infuso. Onde, dopo aver versato amare lagrime sullo stato mio miserabile e sopra l’as­senza del mio adorabile Gesù, è ritornato e mi ha detto: “Con le anime giuste mi porto con giustizia, anzi ricompensandole duplicatamente per la loro giustizia col favorirle delle grazie più grandi e col parlare loro di parole giuste e di santità”.
Io però mi trovavo tanto confusa e cattiva che non ardivo di dire una sola parola; anzi continuavo a versare lacrime sulla mia miseria. E Gesù volendomi infondere fiducia ha messo la sua mano sotto la mia testa per sollevarla, ché non mi reggeva, ed ha soggiunto: “Non temere, io sono lo scudo dei crociati e tribolati”. Ed è scomparso.
Questa mattina il mio adorabile Gesù, quando appena l’ho visto, e siccome l’ubbidienza mi aveva detto che pregassi per una persona, perciò quando Gesù è venuto gliel’ho raccomandato e lui mi ha detto:
“L’umiliazione non solo si deve accettare, ma anche amare, tanto da masticarla come un cibo, e siccome quando un cibo è amaro, quanto più si mastica, tanto più si sente l’amarezza, così l’umiliazione ben masticata fa nascere la mortificazione; e queste sono due potentissimi mezzi, cioè l’umiliazione e la mortificazione, per uscire da certi intoppi ed ottenere quelle grazie che si vogliono. Mentre pare nocevole all’umana natura, come il cibo amaro pare che voglia recare piuttosto male che be­ne, così l’umiliazione e la mortificazione, ma no. Quanto il ferro è più battuto sopra l’incudine, tanto più sfavilla fuoco e resta purgato; così l’anima, quanto più è umiliata e battuta sopra l’incudine della mortificazione, tanto più sfavilla scintille di fuoco celeste e resta purgata se veramente vuol camminare la via del bene; se poi è falsa succede tutto al contrario”.
Trovandomi molto afflitta per la privazione del mio sommo ed unico Bene, dopo molto aspettare e riaspettare finalmente l’ho visto uscire da dentro il mio cuore che piangeva e mi faceva comprendere quanto patì e si umiliò nella circoncisione. Oh, quanto mi faceva pena! Mi sentivo assorbita in quell’amarezza, e il benedetto bambinello compatendo il mio miserabile stato mi ha detto:
“Quanto più l’anima si umilia e conosce sé stessa, tanto più si accosta alla verità e, trovandosi nella verità, cerca di spingersi nella via delle virtù da cui si vede molto lontana; e se si vede che si trova nella via delle virtù, scorge subito il molto che le resta da fare, perché le virtù non hanno termine, sono infinite come sono io. Onde l’anima, trovandosi nella verità, cerca sempre di perfezionarsi, ma mai giungerà a vedersi perfetta. E questo le serve e farà che l’anima stia continuamente lavorando, sforzandosi per maggiormente perfezionarsi, senza perdere il tempo in oziosità; ed io compiacendomi di questo lavoro, man mano la vado ritoccando per dipingere in lei la mia rassomiglianza. Ecco perciò volli essere circonciso, per dare un esempio di grandissima umiltà che fece stordire gli stessi angeli del cielo”.
Continuo a vedermi tutta piena di miserie, non solo, ma anche inquieta. Mi pareva che tutto il mio interno si fosse messo in allarme per la perdita di Gesù. Andavo pensando tra me che i miei grandi peccati mi avevano meritato che il mio adorabile Gesù mi avesse lasciato e quindi non dovevo più rivederlo. Oh, che morte crudele è questo pensiero per me, anzi più spietato di qualunque morte! Non più vedere Gesù! Non più sentire la soavità della sua voce, perdere colui da cui la mia vita dipende e da cui mi viene ogni mio bene! Come poter vivere senza di lui? Ah, per me tutto è finito se perdo Gesù! Con questi pensieri mi sentivo un’agonia di morte, tutto l’interno sossopra, che voleva Gesù. E lui in un lampo di luce si è manifestato all’anima mia, dicendomi:
“Pace, pace, non volerti turbare. Come un fiore odorosissimo profuma il luogo dove si mette, così la pace riempie di Dio l’anima che la possiede”. E come lampo è sfuggito.
Ah, Signore, quanto siete buono con questa peccatrice! E vi dico pure in confidenza: quanto siete singolare, che nientemeno devo perdere voi e neppure volete che mi turbi e mi inquieti, e se ciò faccio mi fate capire che io stessa mi allontano da voi perché con la pace mi riempio di Dio e col turbarmi mi riempio di tentazioni diaboliche. Oh, mio dolce Gesù, quanta pazienza ci vuole con voi! Perché qualunque cosa mi succede, neppure posso inquietarmi né turbarmi, ma volete che me ne stia in perfetta calma e pace.
Trovandomi nel solito mio stato, mi son sentita uscire fuori di me stessa ed ho trovato l’adorabile Gesù mio; ma oh, quanto mi vedevo piena di peccati innanzi alla sua presenza! Nel mio interno mi sentivo un forte desiderio di fare la mia confessione a Nostro Signore; quindi, a lui rivolgendomi, ho incominciato a dire le mie colpe, e Gesù mi ascoltava. Quando ho finito di dire, rivolgendosi a me con un volto pieno di mestizia mi ha detto:
“Figlia mia, il peccato è un abbraccio velenoso e mortifero all’anima, non solo, ma come pure a tutte le virtù che nell’anima si trovano; se è grave. Se poi è veniale è un abbraccio feritore che rende l’anima debole ed inferma, ed insieme con essa si infermano le virtù che aveva acquistato. Che arma micidiale è il peccato! Solo il peccato può ferire e dar morte all’anima. Nessun’altra cosa può nuocerle, nessun’altra cosa la rende innanzi a me obbrobriosa, odiosa, che il solo peccato”.
Mentre diceva ciò, io comprendevo la bruttezza del peccato e sentivo tale una pena che non so neppure esprimerla. E Gesù vedendomi tutta compenetrata ha alzato la benedetta destra ed ha pronunziato le parole del­l’assoluzione. Dopo poi ha soggiunto: “Come il peccato ferisce e dà morta all’anima, così il sacramento della confessione dà la vita e la risana dalle ferite e restituisce il vigore alle virtù; e questo più o meno secondo le disposizioni dell’anima. Così opera la virtù del sacramento”.
Mi pareva che l’anima mia avesse ricevuto nuova vita, non scorgevo più quel fastidio di prima, dopo che Gesù mi diede l’assoluzione. Sia sempre ringraziato e glorificato il Signore!
Questa mattina ho fatta la comunione ed essendomi trovata insieme con Gesù, ci stava la Mamma Regina; ed oh, meraviglia! Guardavo la Madre e vedevo il cuore di lei trasmutato in Gesù bambino; guardavo il Figlio e vedevo nel cuore del bambino la Madre. In questo mentre mi son ricordata che oggi era l’Epifania ed io, ad esempio dei Santi Magi, dovevo offrire qualche cosa al bambino Gesù, ma mi vedevo che non avevo niente che dargli.
Allora vedendo la mia miseria mi è venuto il pensiero di offrire per mirra il mio corpo con tutte le sofferenze dei dodici anni che ero stata nel letto, pronta a soffrire ed a starvi quant’altro tempo a lui piacesse; per oro, la pena che sento quando mi priva della sua presenza, che è la cosa più penosa e dolorosa per me; per incenso, le mie povere preghiere unite a quelle della Regina Mam­ma acciocché fossero più accettevoli al bambino Gesù. Onde ne ho fatto l’offerta con tutta la confidenza che il bambino avesse tutto accettato. Gesù pareva che con molto gusto accettasse le mie povere offerte, ma quello che più gustava era la confidenza con cui l’avevo offerto, onde mi ha detto:
“La confidenza ha due braccia, con uno si abbraccia alla mia umanità e della mia umanità se ne serve come scala per salire alla mia Divinità; con l’altro si abbraccia alla Divinità ed a torrenti vi attinge le grazie celesti, sicché l’anima vi resta tutta inondata dell’Essere Divino. Quando l’anima è confidente, è certa di ottenere ciò che domanda. Io mi faccio legare le braccia, le faccio fare ciò che vuole, la faccio penetrare più dentro il mio cuore e da essa stessa faccio prendere quello che mi ha domandato. Se ciò non facessi, mi sentirei in uno stato di violenza”.
Mentre ciò diceva, dal petto del bambino e da quello della Madre uscivano tanti ruscelli di liquore, ma non so dire proprio come si chiamava quello che dico liquore, che tutta m’inondavano l’anima. La Regina Madre è scomparsa.
Dopo ciò, insieme col bambino siamo usciti fuori nella volta dei cieli; il suo grazioso volto lo vedevo mesto. Ho detto tra me: “Forse vorrà le carezze della Regina Mamma”. Allora me lo sono stretto fortemente al cuore e Gesù bambino ha preso un aspetto giulivo. Chi può dire ciò che passava tra me e Gesù? Non ho lingua a saperlo manifestare né vocaboli per poterlo descrivere.
Stavo pensando tra me: “Chi sa quanti spropositi, quanti errori contengono queste cose che scrivo!”
In questo mentre mi son sentita perdere i sensi ed è venuto il benedetto Gesù e mi ha detto: “Figlia mia, anche gli errori gioveranno, e questo a far conoscere che non c’è nessun artifizio da parte tua né che tu sei qualche dottore, che se ciò fosse, tu stessa avresti avvertito dove erravi. Questo pure farà risplendere di più che sono io che ti parlo, vedendo la cosa alla semplice; ma però ti assicuro che non troveranno l’ombra del vizio e cosa che non dica virtù; perché mentre tu scrivi ti sto io stesso guidando la mano; al più potranno trovare cosa che a primo aspetto parrà errore, ma se la rimireranno ben bene, vi troveranno la verità”.
Detto ciò è scomparso. Ma dopo qualche ora di tempo è ritornato ed io mi sentivo tutta titubante ed impensierita sulle parole che mi aveva detto, e lui ha soggiunto:
“Il mio retaggio è la fermezza e la stabilità, non sono soggetto a mutamento alcuno, e l’anima quanto più si avvicina a me e si inoltra nella via della virtù, tanto più si sente ferma e stabile nell’operare il bene; e quanto più sta da me lontana, tanto più sarà soggetta a mutarsi ed a traballare ora al bene ed ora al male”.
Trovandomi nel solito mio stato, l’amabile mio Gesù è venuto in uno stato compassionevole. Teneva le mani legate strettamente ed il volto coperto di sputi, e parecchie persone che lo schiaffeggiavano orribilmente. E lui se ne stava quieto, placido, senza fare un motto e muovere un lamento; neppure un muovere di ciglia, per far vedere che lui voleva soffrire quegli oltraggi, e questo non solo esternamente, ma anche internamente. Che spettacolo commovente, da fare spezzare i cuori più duri! Quante cose diceva quel volto con quegli sputi pendenti, imbrattato di fango! Io mi sentivo inorridire, tremavo, mi vedevo tutta superbia innanzi a Gesù. Mentre stava in quest’aspetto lui mi ha detto:
“Figlia mia, i soli piccolini si lasciano maneggiare come si vuole; non quelli che sono piccoli di ragione umana, ma quelli che sono piccoli di ragione divina. Io posso dire che sono umile, che nell’uomo ciò che si dice umiltà, piuttosto si deve dire conoscenza di sé stesso, e chi non conosce sé stesso cammina già nella falsità”.
Per qualche minuto Gesù ha fatto silenzio ed io me ne stavo a contemplarlo. Mentre ciò io facevo ho visto una mano che portava una luce, che frugando nel mio interno, nei più intimi nascondigli, voleva vedere se fosse in me la conoscenza di me stessa e l’amore alle umiliazioni e alle confusioni ed agli obbrobri. Quella luce trovava un vuoto nel mio interno ed io pur lo vedevo che doveva essere riempito di umiliazioni e confusioni, ad esempio del benedetto Gesù. Oh, quante cose mi faceva comprendere quella luce e quel volto santo che mi stava innanzi! Dicevo tra me:
“Un Dio per amor mio umiliato e confuso, ed io peccatrice senza di queste divise! Un Dio stabile, fermo nel sopportare tante ingiurie, tanto che non si muove un tantino per scuotersi da quegli sputi fetenti! Ah, mi si fa manifesto il suo interno innanzi a Dio, il suo esterno innanzi agli uomini, e vedo che se egli volesse respingere ogni patire, ogni oltraggio, di tutto resterebbe libero. Ma vedo che non le catene lo legano, ma la sua stabile Volontà che a qualunque costo vuol salvare il genere umano. Ed io, ed io? Dove sono le mie umiliazioni? Dove la fermezza, la costanza nell’operare il bene per amor del mio Gesù e del mio prossimo? Ahi, che vittime differenti siamo io e Gesù! Ahi, che non ci conformiamo affatto!”
Mentre il mio piccolo cervello si perdeva in queste considerazioni, il mio adorabile Gesù mi ha detto: “Solo la mia umanità fu ripiena di obbrobri e di umiliazioni, tanto da traboccarne fuori; ecco perciò innanzi alle mie virtù trema il cielo e la terra, e le anime che mi amano si servono della mia umanità come scala per salire e lambire qualche gocciolina delle mie virtù. Dimmi un po’: dinnanzi alla mia umiltà dove è la tua? Solo io posso gloriarmi di possedere la vera umiltà.
La mia Divinità unita alla mia umanità poteva operare prodigi in ogni passo, con le parole ed opere, ed invece volontariamente mi restringevo nel cerchio della mia umanità e mi mostravo il più povero e giungevo a confondermi cogli stessi peccatori. L’opera della Redenzione in pochissimo tempo potevo operarla ed anche per una sola parola; ma volli per il corso di tanti anni, con tanti stenti e patimenti, fare mie le miserie dell’uo­mo; volli esercitarmi in tante diverse azioni per fare che l’uomo fosse tutto rinnovato, divinizzato anche nelle mi­nime opere, perché esercitate da me che ero Dio ed uomo, ricevevano uno splendore nuovo e restavano con l’impronta di opere divine.
La mia Divinità nascosta nella mia umanità, [volle] scendere a tante bassezze, assoggettarsi al corso delle azioni umane, mentre con un solo atto di Volontà avrei potuto creare infiniti mondi, [volle] sentire le miserie, le debolezze altrui, come fossero di essa mia umanità, e [volle] vedere questa, coperta di tutti i peccati degli uomini innanzi alla divina giustizia e che ne dovevo pagare il fio col prezzo di pene inaudite e con lo sborso di tutto il mio sangue. Così esercitavo continui atti di profonda umiltà, ed eroica. Eccoti o figlia la diversità grandissima della mia umiltà con l’umiltà delle creature che innanzi alla mia appena è un’ombra; anche quella di tutti i miei santi, perché la creatura è sempre creatura e non conosce quanto pesa la colpa come lo conosco io; sia pure che anime eroiche, sul mio esempio si sono offerte a soffrire le pene altrui, ma queste non son diverse da quelle delle altre creature; non son cose nuove per loro perché son formate dalla stessa creta. Poi il solo pensare che quelle pene sono causa di nuovi acquisti e che glorificano Iddio è un grande onore per loro. Oltre di ciò la creatura è ristretta nel cerchio dove Iddio l’ha messa né può uscire da quei limiti ond’[18]è stata circuita da Dio. Oh, se stesse in loro potere il fare e il disfare, quant’al­tre cose non farebbero! Ognuno giungerebbe alle stelle.
Ma la mia umanità divinizzata non aveva limiti, ma volontariamente si restringeva in sé stessa e questo era un intrecciare tutte le mie opere di eroica umiltà. Era stata questa la causa di tutti i mali che inondano la terra, cioè la mancanza di umiltà; ed io con l’esercizio di questa virtù dovevo attirare dalla divina giustizia tutti i beni. Ah, ché non si partono dal mio trono rescritti di grazia se non per mezzo dell’umiltà! Né alcun biglietto può essere da me ricevuto se non contiene la firma dell’umiltà. Nessuna preghiera ascoltano le mie orecchie e muove a compassione il mio cuore, se non è profumata dall’olez­zo dell’umiltà. Se la creatura non giunge a distruggere quel germe d’onore, di stima, e questo si distrugge col giungere ad amare di essere disprezzata, umiliata, confusa, sentirà un intreccio di spine intorno al cuore, avvertirà un vuoto nel suo cuore che le darà sempre fastidio e la renderà molto dissimile dalla mia santissima umanità. E se non giunge ad amare le umiliazioni, al più potrà qualche poco conoscere se stessa, ma non risplenderà innanzi a me vestita della bella e simpatica veste dell’umiltà”.
Chi può dire quante cose comprendevo su questa virtù e la differenza tra il conoscere sé stessa e l’umiltà? Mi pareva di toccare con mano la distinzione di queste due virtù, ma non ho parola come spiegarmi. Per dire qualche cosa mi avvalgo di un’idea, per esempio: un povero conosce che è povero, ed anche a persone che non lo conoscono e che forse possono credere che possiede qualche cosa manifesta schiettamente la sua povertà. Si può dire che conosce sé stesso e dice la verità, e per questo viene più amato, muove gli altri a compassione del suo misero stato e tutti l’aiutano. Tale è il conoscere sé stesso. Se poi quel povero, vergognandosi di manifestare la sua povertà menasse vanto che lui è ricco, mentre tutti sanno che lui non tiene neppure le vesti come coprirsi e si muore di fame, che avviene? Tutti lo disprezzano, nessuno l’aiuta ed addiviene soggetto di burla e di ridicolaggine a chiunque lo conosce; ed il misero, andando di male in peggio, finisce col perire. Tale è la superbia innanzi a Dio ed anche innanzi agli uomini. Ed ecco che chi non conosce sé stesso già esce dalla verità e precipita nella via della falsità.
Seguitando questo esempio ne viene di conseguenza un’altra forma di umiltà eroica che prende pure il merito della conoscenza di sé stesso. Figuriamoci un ricco il quale nato fra gli agi e le ricchezze conosce bene di essere tale, di possedere ogni sorta di beni temporali, ma considerando le profonde umiliazioni alle quali si assog­gettò Nostro Signore Gesù Cristo per nostro amore, si innamora della santa umiltà, abbandona le ricchezze e tutti gli agi, si spoglia delle sue nobili vesti, si copre di miseri cenci, vive sconosciuto, a nessuno manifesta chi egli sia, si confonde coi più poveri, vive coi poveri come se fosse loro pari, fa le sue delizie i disprezzi e le confusioni[19]. Allora in costui si trova ciò che avviene nei santi, i quali tanto più si umiliano per quanto più conoscono che il Signore li colma delle sue grazie e dei suoi doni contro ogni loro merito.
Tanto nel primo esempio dei due poveri detti avanti, quanto in questo ricco, si vede come la conoscenza di sé stesso senza l’umiltà nuoce e a nulla giova, ma quanto genera l’umiltà è preziosissimo. Ah, sì! L’umiltà chiama la grazia, l’umiltà spezza le catene più forti, l’umiltà supera qualunque muro di divisione tra l’anima e Dio e a lui la ritorna. L’umiltà è la piccola pianta, ma sempre verde e fiorita, non soggetta ad essere rosa dai vermi, né i venti, la grandine, il caldo potranno portarle nocumento né farla menomamente appassire. L’umiltà, sebbene è la più piccola pianta, pure manda fuori rami altissimi che penetrano fino nel cielo e si intrecciano intorno al cuore di Nostro Signore; e solo i rami che escono da questa piccola pianta hanno libera entrata in quel cuore adorabile. L’umiltà è l’àncora della pace nelle tempeste delle onde di questa vita. L’umiltà è sale che condisce tutte le virtù e preserva l’anima dalla corruzione del peccato. L’umiltà è l’erbetta che spunta sulla via battuta dai viandanti; l’umiltà mentre è calpestata scomparisce, ma subito si vede spuntare più bella di prima. L’umiltà è qual innesto gentile che ingentilisce la pianta selvatica. L’umiltà è il tramonto della colpa. L’umiltà è la moneta della grazia. L’umiltà è qual luna che ci guida nelle tenebre della notte di questa vita. L’umiltà è come quello scaltro negoziante che sa ben trafficare le sue ricchezze, non ne fa sciupio neppure d’un centesimo della grazia che gli vien data. L’umiltà è la chiave della porta del cielo, sicché nessuno può entrarvi se non si tiene ben custodita questa chiave.
Finalmente, altrimenti non la finisco più ed andrei troppo per le lunghe, l’umiltà è il sorriso di Dio e di tutto l’empireo, ed il pianto di tutto l’inferno.
Questa mattina il mio adorabile Gesù andava e ritornava, ma sempre in silenzio; dopo mi son sentita uscire fuori di me stessa, e Gesù me lo sentivo da tergo che diceva:
“In molti non c’è più rettitudine, i cattivi dicono: ‘Fino a tanto che le cose staranno in questo modo, non potremo avere nessuna riuscita ai nostri intenti; affettiamo virtù, fingiamoci retti, mostriamoci veri amici esternamente, che così sarà più facile tessere le nostre reti e tirarli nell’inganno, e quando usciremo fuori per predarli e far loro del male, ognuno credendoci amici, l’avremo a mano salvo[20] nelle nostre mani’. Vedi un po’ dove giunge l’astuzia dell’uomo!”
Dopo ciò il benedetto Gesù, volendo un atto di riparazione speciale, pareva che mi troncasse la vita offrendomi alla divina giustizia. Nell’atto che ciò faceva, io credevo che Gesù mi facesse passare da questa vita, onde ho detto: “Signore non voglio venire nel cielo senza le vostre divise; prima crocifiggetemi e poi portatemi”.
Così mi ha trapassato coi chiodi le mani e i piedi, e mentre ciò faceva, con mio sommo rammarico lui è scomparso ed io mi son trovata in me stessa. Ho detto tra me: “Qui sto ancora! Ahi, quante volte me la fate, mio caro Gesù, ed avete un’arte a parte a saperla fare[21], che mi fate credere che devo morire, quindi io me la rido del mondo, delle pene, me la rido di voi stesso, che è finito il tempo di starci separati, non ci saranno più intervalli di separazione; ma appena incomincia il riso, che trovandomi[22] un’altra volta legata nei ceppi del muro di questo fragile corpo, dimenticando di avere incomin­ciato a ridere, continuo il mio pianto, i gemiti, i sospiri della mia separazione con voi. Ah, Signore, fate presto a venire, che mi sento violentata!”
Dopo aver passato giorni amarissimi di privazione, il mio povero cuore lottava tra il timore d’averlo perduto e la speranza, chi sa potessi di nuovo rivederlo. Oh, Dio, che guerra sanguinolenta ha dovuto sostenere questo povero mio cuore! Era tanta la pena che or si agghiacciava ed or era premuto come sotto un torchio e gocciolava sangue. Mentre mi trovavo in questo stato mi son sentita vicino il mio dolce Gesù, che togliendomi un velo che mi impediva di vederlo, finalmente ho potuto vederlo. Subito gli ho detto: “Ah, Signore, non mi vuoi più bene!”
E lui: “Sì, sì, quel che ti raccomando è la corrispondenza alla mia grazia, e per essere fedele devi essere come quell’eco che risuona dentro un vuoto, che non appena [si] incomincia ad emettere la voce, subito senza il minimo indugio si sente rimbombare l’eco appresso. Così tu non appena incominci a ricevere la mia grazia, senza neppure aspettare che la compisca di dare, subito incomincia l’eco della tua corrispondenza”.
Continuo a restare quasi priva del mio dolce Gesù, la mia vita vien meno per la pena; mi sento un tedio, una noia, una stanchezza della vita! Andavo dicendo nel mio interno: “Oh, come si è prolungato il mio esilio! Oh, qual felicità sarebbe la mia se potessi sciogliere i legami di questo corpo e così l’anima prenderebbe libero il volo verso il mio sommo Bene!”
Un pensiero mi ha detto: “E se tu vai all’inferno?” Ed io per non chiamare il demonio a combattermi, subito mi sono sbrigata col dire: “Ebbene, anche dall’inferno manderò i miei sospiri al mio dolce Gesù, anche lì voglio amarlo”.
Mentre mi trovavo in questi pensieri ed altri, che sarebbe troppo lunga la storia il ridirli tutti, l’amabile Gesù per poco tempo si è fatto vedere, ma in un aspetto serio, e mi ha detto: “Non è arrivato ancora il tuo tempo”.
Poi con una luce intellettuale mi faceva comprendere che nell’anima tutto dev’essere ordinato. L’anima possiede tanti piccoli appartamenti dove ogni virtù pren­de il suo posto, sebbene si può dire che una sola virtù contiene in sé tutte le altre, e che l’anima possedendone una sola, viene ad essere corredata da tutte le altre virtù; ma con tutto ciò sono tutte distinte fra loro, tanto che ognuna vi tiene il suo posto nell’anima; ed ecco che tutte le virtù hanno il loro principio dal mistero della Sacrosanta Trinità, che mentre è Uno sono Tre distintamente, e mentre sono Tre è Uno. Comprendevo pure che questi appartamenti nell’anima, o son pieni di virtù o del vizio opposto a quella virtù, e se non c’è né la virtù né il vizio, restano vuoti. A me pareva come una casa che contiene tante stanze tutte vuote, o pure quelle stanze, chi piene di serpi, chi di fango, chi ripiena di qualche mobile pieno di polvere, chi oscura. Ah, Signore, solo voi potete mettere in ordine la povera anima mia!
Continua ancora lo stesso. Questa mattina [Gesù] mi ha trasportato fuori di me stessa, dopo tanto tempo pare che ho visto Gesù con chiarezza; ma mi vedevo tanto cattiva che non ardivo dire una sola parola; ci guardavamo ma in silenzio. In quegli sguardi a vicenda comprendevo che il mio buon Gesù era ripieno di amarezze, ma non ardivo dire: “Versatele in me”. Lui stesso si è avvicinato a me ed ha incominciato a versarle ed io, non potendo contenerle, come ricevevo le gettavo per terra. Lui mi ha detto: “Che fai? Non vuoi partecipare più alle mie amarezze? Non vuoi darmi più sollievo nelle mie pene?”
Ed io: “Signore, non è la mia volontà, non so io stessa che cosa mi è avvenuto; mi sento tanto ripiena che non ho dove contenerle. Solo un vostro prodigio può più allargare il mio interno e così potrò ricevere le vostre amarezze”.
Allora Gesù mi ha segnato con un segno grande di croce ed ha versato di nuovo; così pare che ho potuto contenerle le sue amarissime amarezze, e dopo ha soggiunto: “Figlia mia, la mortificazione è come il fuoco che fa disseccare tutti gli umori, così la mortificazione dissecca tutti gli umori cattivi che ci sono nell’anima e la inonda d’un umore santificante, in modo da far germogliare le più belle virtù”.
Dopo esser [Gesù] venuto parecchie volte, ma sempre in silenzio, ed io mi sentivo un vuoto ed una pena, ché non sentivo la voce dolcissima del mio dolce Gesù; e lui ritornando, quasi per contentarmi, mi ha detto: “La grazia è la vita dell’anima. Come al corpo dà vita l’ani­ma, così la grazia dà vita all’anima; ma non basta al corpo, per aver vita, aver l’anima solamente, ma abbisogna ancora di un cibo come nutrirsi e crescere a debita statura. Così [al]l’anima non basta aver la grazia per aver vita, ma ci vuole un cibo per nutrirla e condurla a debita statura. E qual è questo cibo? È la corrispondenza, sicché la grazia e la corrispondenza formano quella catena inanellata che la conducono in cielo; ed a misura che l’anima corrisponde, la grazia viene formando gli anelli di questa catena”.
Poi ha soggiunto: “Qual è il passaporto per entrare nel regno della grazia? È l’umiltà. L’anima, guardando sempre il suo nulla e scorgendosi non essere altro che polvere, che vento, tutta la sua fiducia la rimetterà nella grazia, tanto da renderla padrona, e la grazia prendendo padronanza su tutta l’anima la conduce per il sentiero di tutte le virtù e la fa giungere all’apice della perfezione”.
Che cosa è l’anima senza la grazia? Mi pareva il corpo senza l’anima, che diventa puzzolente e fa scaturire vermi e marciume da tutte le parti, tanto da rendersi oggetto d’orrore alla stessa vista umana. Così l’anima senza la grazia si rende tanto abominevole da fare orrore alla vista non degli uomini, ma di quel Dio tre volte santo. Ah, Signore, liberatemi da tanta sciagura e dal mostro abominevole del peccato!
Trovandomi in uno stato pieno di scoraggiamento, specialmente per la privazione del mio sommo Bene, questa mattina, facendosi vedere quando appena, mi ha detto: “Lo scoraggiamento è un umore infettivo che infetta i più bei fiori ed i più graditi frutti e penetra fin al fondo della radice, in modo che quell’umore infettante, invadendo tutto l’albero, lo rende appassito, squallido, e se non vi [si] pone rimedio con l’innaffiarlo con l’umore contrario, siccome quell’umore cattivo si è introdotto fin nella radice, dissecca la radice e fa cadere l’albero per terra. Così succede all’anima che s’imbeve di quel­l’umore infettivo dello scoraggiamento”.
Con tutto ciò io mi sentivo ancor scoraggiata, tutta rannicchiata in me stessa e mi scorgevo tanto cattiva che non ardivo slanciarmi verso il dolce Gesù. La mia mente era occupata [dal pensiero] che per me era inutile di più sperare[23] come prima le continue visite di lui, le sue grazie, i suoi carismi; tutto per me era finito. E lui quasi sgridandomi ha soggiunto: “Che fai? Che fai? Non sai tu che la sconfidenza rende l’anima moribonda? Che pensando che deve morire non pensa più a nulla, né ad acquistare né a mettere a traffico la grazia né ad abbellirsi di più né quasi a porvi rimedio ai suoi malori; non pensa altro [se non] che per lei è finito; e non solo rende l’ani­ma moribonda, ma tutte le virtù la sconfidenza le rende vicine a spirare”.
Ah, Signore, m’immagino di vedere questo spettro della sconfidenza squallido, macilente, pauroso, tutto tre­mante, e tutta la sua maestria, non con altro congegno, ma con la paura, conduce le anime alla tomba. Ma quel ch’è più [è] che questo spettro non si mostra nemico, che l’anima può schernirsi della sua paura, ma si mostra amico e s’infiltra tanto segretamente nell’anima che se l’anima non sta attenta, parendole amico fedele che agonizza insieme e giunge a morire insieme, difficilmente si saprà liberare dalla sua artificiosa maestria.
Continuando lo stesso stato ma con un po’ di coraggio di più, ma non libera perfettamente, il mio carissimo Gesù nel venire mi ha detto:
“Figlia mia, delle volte l’anima sente un incontro in qualche virtù, e l’anima facendosi forza supera quel­l’incontro; allora la virtù resta più risplendente e più radicata nell’anima. Ma l’anima deve stare attenta per evitare ch’essa stessa somministri la funicella per farsi legare dalla sconfidenza; e questo lo farà col dilatare il suo cuore nella fiducia, sebbene permane sempre nel circolo della verità, che è la conoscenza del proprio nulla”.
Trovandomi in uno stato d’abbandono da parte del mio adorabile Gesù, il mio povero cuore me lo sentivo per il dolore premere come sotto un torchio. Oh, Dio, che pena inenarrabile!
Mentre mi trovavo in questo stato, quasi ad[24] ombra, ho visto il mio caro Bene, ma non chiaro, solo ho visto chiaro una mano che mi pareva che portava una lampada e mi ungeva la parte del cuore esacerbata al sommo dal dolore della sua privazione, ed in questo mentre ho sentito una voce che diceva:
“La verità è luce che portò il Verbo sulla terra. Come il sole illumina, vivifica e feconda la terra, così la luce della verità dà vita, luce, e rende feconde le anime di virtù. Sebbene molte nubi, quali sono le iniquità degli uomini, offuscano questa luce di verità, con tutto ciò non lascio, da dietro le nubi, di mandare barlumi di luce vivificante onde riscaldare le anime; e se queste nubi sono nubi d’imperfezione e difetti involontari, questa luce squarciandole col suo calore, le fa svanire e liberamente s’introduce nell’anima”.
Onde comprendevo che l’anima deve stare attenta a non cadere anche nell’ombra del difetto volontario, che sono quelle nubi pericolose che impediscono l’entrata alla luce divina.
Questa mattina dopo aver fatta la comunione ho visto il mio adorabile Gesù, ma tutto cambiato di aspetto. Mi pareva serio, tutto ritenutezza, in atto di rimproverarmi. Che cambiamento straziante! Il mio povero cuore, anziché venire sollevato me lo sentivo più oppresso, più trafitto, alla presenza così insolita di Gesù. Eppure mi sentivo tutto il bisogno di un sollievo, per le pene sofferte nei giorni passati, della sua privazione, che mi pareva che vivessi, ma agonizzante ed in continua violenza. Ma Gesù benedetto volendo rimproverarmi che andavo cercando sollievo alla sua presenza, mentre non dovevo cercare altro che patire, mi ha detto:
“Come la calce ha virtù di concuocere gli oggetti che vi si menano dentro, così la mortificazione ha virtù di cuocere tutte le imperfezioni e difetti che si trovano nell’anima, e giunge a tanto che spiritualizza anche il corpo, e come cerchio vi si pone d’intorno e vi suggella tutte le virtù. Fino a tanto che la mortificazione non ti concuoce ben bene l’anima come il corpo, fino a disfarlo, non può suggellare perfettamente in te il marchio della mia crocifissione”.
Dopo ciò, non so dire bene chi fosse, ma mi pareva che fosse un angelo, mi ha trapassato le mani ed i piedi, e Gesù con una lancia che usciva dal suo cuore mi ha trapassato il mio con estremo dolore ed è scomparso lasciandomi più afflitta di prima. Oh, come comprendevo bene la necessità della mortificazione, mia inseparabile amica, e che in me non esisteva neppure l’ombra d’ami­cizia con la mortificazione! Ah, Signore, legatemi con voi, con indissolubile amicizia con questa buona amica, che da me non so mostrarmi che tutta rustichezza, e quella non vedendosi da me accolta con buon viso, mi usa tutti i riguardi, mi va sempre risparmiando, temendo che le abbia a voltare le spalle del tutto, e mai compie con me il suo bello e maestoso lavorio; poiché, stante che stiamo un po’ lontane, non giungono le sue mani prodigiose fino a me in modo da potermi lavorare e presentarmi a voi come opera degna delle sue santissime mani.
Continua quasi sempre lo stesso. Questa mattina, dopo avermi rinnovate le pene della crocifissione, [Gesu] mi ha detto:
“La mortificazione deve essere il respiro dell’anima. Come al corpo è necessaria la respirazione, e dall’aria buona o cattiva che si respira così resta infettata o purificata, come pure dalla respirazione si conosce se è sano o infermo l’interno dell’uomo, se tutte le parti vitali vanno d’accordo, così l’anima, se respira l’aria della mor­tificazione, tutto starà in lei purificato, tutti i suoi sensi suoneranno di uno stesso suono concordante, il suo interno rimanderà un respiro balsamico, salutare, forti­ficante. Se poi non respira l’aria della mortificazione, tutto sarà discordante nell’anima, manderà un respiro puzzolente, stomachevole; mentre sta per domare una passione, un’altra si sfrena. Insomma la sua vita non sarà altro che un giuoco di fanciullo”.
Mi pareva di vedere la mortificazione come uno strumento musicale, che se le corde sono tutte buone e forti produce un suono armonioso e gradito; se poi le corde non sono buone, ora bisogna aggiustare una, ora accordarne un’altra, onde tutto il tempo lo [si] impiega ad aggiustare, ma mai a suonare; al più se si proverà di suonarlo, ne uscirà un suono discordante e sgradito, quindi non si farà mai niente di buono.
Questa mattina il mio adorabile Gesù è venuto e mi ha trasportata fuori di me stessa. Ci vedevo molta gente tutta in movimento, ma non so dire certo, come una guerra oppure rivoluzione, ed a Nostro Signore non faceva altro che intrecciare corone di spine, tanto che mentre me ne stavo tutta attenta a toglierne una, un’altra più dolorosa ne conficcavano. Ah, sì, pareva proprio che il nostro secolo andrà rinomato per la superbia! La più grande sventura è il perdere la testa, perché perduta che uno abbia la testa con il cervello, tutte le altre membra si rendono inabili o si rendono nemiche di sé stesso e degli altri, quindi ne avviene che la persona dà una rotta a tutti gli altri vizi. Il mio paziente Gesù tollerava tutte quelle corone di spine, ed io appena avevo tempo di toglierle, onde si è voltato a loro e ha detto: “Chi nella guerra, chi nelle carceri e chi ai terremoti; pochi ne rimarrete. La superbia ha formato il corso delle azioni della vostra vita e la superbia vi darà la morte”.
Dopo ciò il benedetto Gesù mi ha tirato da mezzo a quella gente, e, facendosi bambino lo portavo nelle mie braccia per farlo riposare, ed ha soggiunto: “Figlia, la mia vita l’ebbi dal cuore, distintamente dagli altri; ecco perciò una ragione perché son tutto cuore per le anime e perché son portato a volere il cuore e non tollero neppure un’ombra di ciò che non è mio; onde fra te e me voglio tutto distintamente per me, e quello che concederai alle creature non sarà altro che il trabocco del nostro amore”.
Continua il mio benigno Gesù a venire. Dopo aver fatta la comunione, mi ha rinnovato le pene della crocifissione ed io son rimasta tanto intirizzita che mi sentivo bisogno di sollievo, ma non ardivo chiederlo.
Dopo poco è ritornato da bambino e tutta mi abbracciava e dalle sue labbra correva un latte ed io ho bevuto a larghi sorsi quel latte dolcissimo dalle sue purissime labbra. Ora mentre ciò facevo, mi ha detto:
“Io sono il fiore dell’Eden celeste ed è tanto il profumo che vi spando, che al mio olezzo vi resta attirato tutto l’empireo; e siccome io sono il lume che manda luce a tutti, tanto da tenerli inabissati nella luce, tutti i miei santi attingono da me le loro piccole lucerne, onde non c’è luce nel cielo che non è stata attinta da questo lume”.
Ah, sì, non c’è neppure odore di virtù senza Gesù, e non c’è luce ancorché si andasse nel più alto dei cieli, senza Gesù!
Questa mattina il mio amabile Gesù ha incominciato a fare i suoi soliti indugi. Sia sempre benedetto, che comincia sempre da capo. Davvero che ci vuole una pazienza di santo a sopportarlo e bisogna aver [a] che fare con Gesù per vedere che pazienza ci vuole! Chi non lo prova non può crederlo, ed è quasi impossibile non avere qualche piccolo cruccio con lui.
Onde, dopo aver pazientato ad aspettarlo e riaspettarlo, finalmente è venuto e mi ha detto: “Figlia mia, il dono della purità non è dono naturale, ma è grazia conseguita, e questo si ottiene col rendersi simpatico, e l’anima si rende tale con la mortificazione e coi patimenti. Oh, come si rende simpatica l’anima mortificata e sofferente! Oh, come è speciosa! Ed io vi prendo tale simpatia da impazzire per essa, e tutto ciò che vuole le dono. Tu, quando sei priva di me, per amor mio soffri la mia privazione ch’è la pena più dolorosa per te, ed io prenderò più simpatia di prima e ti concederò nuovi doni”.
Questa mattina, dopo aver perduto quasi la speranza che il benedetto Gesù venisse, tutto all’improvviso è venuto e mi ha rinnovato le pene della sua crocifissione, e mi ha detto: “Il tempo è giunto, il fine s’appressa, ma l’ora è incerta”.
Ed io, senza approfondire il significato delle parole che diceva, son rimasta in dubbio se devo attribuirlo o alla completa crocifissione oppure ai castighi, e gli ho detto: “Signore, quanto temo il mio stato che non fosse Volontà di Dio!”
E lui: “Il segno più certo per conoscere se è Volontà mia uno stato, è quando uno si sente la forza a sostenere quello stato”.
Ed io: “Se fosse tua volontà non succederebbe questo cambiamento che voi non ci venite come prima”.
E lui: “Quando una persona si sente famigliare in una famiglia, non si usano tutte quelle cerimonie, quei riguardi che si usavano prima, quando si sentiva estranea. Così faccio io; ma con ciò non è segno che è volontà di quella famiglia che non la vogliono tenere con loro, né che non l’amano meglio di prima. Perciò statti quieta, lascia fare a me, non volerti crivellare il cervello, funestare la pace del cuore. A tempo opportuno conoscerai il mio operato”.
Questa mattina mi trovavo tutta timore; credevo che tutto era fantasia ossia demonio che voleva illudermi. Onde tutto ciò che vedevo, disprezzavo e mi dispiacevo. Vedevo il confessore che metteva l’intenzione che Gesù mi rinnovasse i dolori della crocifissione, ed io cercavo di resistere. Il benedetto Gesù in principio mi tollerava, ma siccome il confessore replicava l’intenzione, allora Gesù mi ha detto: “Figlia mia, davvero che questa volta mancheremo all’ubbidienza?! Non sai tu che l’ubbidien­za deve suggellare l’anima e che l’ubbidienza deve rendere l’anima come molle cera, in modo che il confessore può dare quella forma che vuole?”
Così non curando le mie resistenze, mi ha partecipato i dolori della crocifissione; ed io non potendo più resistere al comando di Gesù e del confessore, giacché non volevo cedere per il timore che non fosse Gesù, con tutto ciò ho dovuto soccombere sotto il peso dei dolori. Sia sempre benedetto e tutto sia per glorificarlo in tutto e sempre!
Dopo aver passati parecchi giorni di privazione [di Gesù], al più veniva qualche volta ad ombra e sfuggiva, sentivo tale pena che mi struggevo in lagrime. Il benedetto Gesù avendo compassione del mio dolore è venuto e tutta mia guardava e riguardava e poi mi ha detto:
“Figlia mia, non temere, che non ti lascio; ma però quando tu sei senza la mia presenza non voglio che ti disanimi, anzi da oggi innanzi, quando sei priva di me, voglio che prendi la mia Volontà e in quella ti bei, amandomi e glorificandomi nella mia Volontà e tenendo la mia Volontà come fosse la mia stessa persona. Facendo così, tu mi terrai nelle stesse tue mani. Che cosa forma la beatitudine del paradiso? Certo la mia Divinità. Or chi formerà la beatitudine dei miei cari sulla terra? Con certezza la mia Volontà. Questa non ti potrà mai sfuggire. L’avrai sempre in tuo possesso e se tu starai nel circolo della mia Volontà, ivi proverai le gioie ineffabili e i piaceri più puri. L’anima, non uscendo mai dal circolo della mia Volontà, si rende nobile, doviziosa, e tutte le sue operazioni ripercuotono nel centro del sole divino come i raggi del sole ripercuotono sulla superficie della terra, e non ne esce neppure una[25] fuori dal centro che è Dio. L’anima che fa la mia Volontà è la sola nobile mia regina, che si nutrisce dal mio alito perché il suo cibo e le sue bevande non le prende che dalla mia Volontà; e nutrendosi della mia Volontà tutta santa, nelle sue vene scorrerà un sangue purissimo, il suo alito spirerà un profumo olezzante, che tutto mi ricrea perché prodotto dal mio stesso alito. Perciò non voglio altro da te [se non] che formi la tua beatitudine nel giro della mia Volontà, senza mai uscirne neppure per un breve istante”.
Mentre ciò diceva, nel mio interno vi sentivo un allarme ed un timore che il parlare di Gesù indicava che non doveva venire e che io dovevo quietarmi nella sua Volontà. Oh, Dio, che pena mortale! Che strettezze di cuore! Ma Gesù sempre benigno ha soggiunto: “Come posso lasciarti se tu sei vittima? Allora non ci verrò, quando tu cesserai d’essere vittima; ma finché sarai vittima mi sentirò sempre tirato a venire”.
Così pare che son restata quieta, ma mi sento come circondata dall’adorabile Volontà di Dio in modo che non trovo nessuna apertura da dove uscirne. Spero che mi voglia tenere sempre in questo cerchio che mi congiunge tutta a Dio.
Essendomi tutta abbandonata nell’amabile Volontà di Nostro Signore, io mi vedevo tutta circondata dal mio dolce Gesù da fuori e da dentro. Con l’essermi abbandonata in lui, nel suo Divino Volere, mi vedevo come se il mio essere fosse divenuto trasparente, e dovunque mi rivolgevo vedevo il mio sommo Bene. Ma quello che mi faceva meraviglia era che, mentre mi vedevo circondata da dentro e da fuori da Gesù, così io, il mio povero essere, la mia volontà, circondava Gesù come dentro di un circolo in modo che lui non trovava l’apertura come potersene uscire, perché la mia volontà unita alla sua lo teneva incatenato, senza che mi potesse sfuggire. Oh, ammirabile segreto della Volontà del mio Signore, indescrivibile è la felicità che da te viene!
Ora, mentre mi trovavo in questo stato, il benedetto Gesù mi ha detto: “Figlia mia, nell’anima tutta trasformata nel mio Volere, io vi trovo un dolce riposo. Quel­l’anima diviene per me come quelle sedie o letti morbidi e soffici che non danno nessuna molestia a chi vuole riposarsi, anzi, ancorché siano persone stanche ed addolorate ad usarli, è tanta la morbidezza ed il piacere che prendono nel riposarsi su di essi, che nel risvegliarsi si trovano forti e sane. Tale è per me l’anima conformata al mio Volere, ed io in ricompensa mi faccio legare dalla sua volontà e vi faccio splendere il sole divino come nel pieno meriggio”.
Detto ciò è scomparso. Dopo poi, avendo fatta la santa comunione, è ritornato e mi ha trasportato fuori di me stessa; ci vedevo molta gente e Gesù mi diceva: “Dì loro, dì loro che grande è il male che fanno col mormorarsi l’un l’altro, perché attirano la mia indignazione, e questo con giustizia, vedendo che mentre sono soggetti alle stesse miserie e debolezze, non fanno altro che alzar tribunale uno contro l’altro. Se così fanno tra loro, che farò io, che sono santo e puro, con loro? Invece se con carità si giudicano e si compatiscono l’uno con l’altro, così mi sento tirato ad usare misericordia con loro”.
Gesù lo diceva a me ed io lo ripetevo a quella gente; e dopo ci siamo ritirati.
Questa mattina, avendo fatta la santa comunione, il mio dolce Gesù si faceva vedere crocifisso, ed internamente mi sentivo tirata a specchiarmi in lui per potermi a lui rassomigliare, e Gesù si specchiava in me per tirarmi alla sua rassomiglianza. Mentre così faceva, io mi sentivo infondere in me i dolori del mio crocifisso Signore, che con tutta bontà mi ha detto:
“Il tuo alimento voglio che sia il patire, non come solo patire ma come frutto della mia Volontà. Il bacio più sincero che lega più forte la nostra amicizia è l’unione dei nostri voleri ed il nodo indissolubile che ci stringerà in continui abbracciamenti sarà il continuo patire”.
Mentre ciò diceva il benedetto Gesù si è schiodato e ha preso la sua croce e la distendeva nell’interno del mio corpo, ed io vi rimanevo pur tanto distesa che mi sentivo slogare le ossa. Di più una mano, ma non so dire [per] certo di chi era, mi trapassava le mani ed i piedi; e Gesù, che stava seduto sulla croce che stava distesa nel mio interno, tutto si compiaceva del mio patire e di colui che mi trapassava le mani, ed ha soggiunto: “Adesso mi posso riposare tranquillamente; non ho da prendermi neppure il fastidio di crocifiggerti perché l’ubbidienza vuole operare tutto essa, ed io liberamente ti lascio nelle mani dell’ubbidienza”.
E sfuggendo da sopra la croce, si è messo sopra il mio cuore per riposarsi. Chi può dire quanto sono rimasta sofferente stando in quella posizione? Dopo essere stata lungo tempo, Gesù non si sbrigava di sollevarmi come le altre volte per farmi ritornare nello stato natu­rale. Quella mano che mi aveva messo sulla croce non la vedevo più; lo dicevo a Gesù e [lui] mi rispondeva: “Chi ti ha messo sulla croce? Sono stato forse io? È stata l’ubbidienza; e l’ubbidienza ti deve togliere”.
Pare che questa volta aveva voglia di scherzare, ed a somma grazia ho ottenuto che mi liberasse il benedetto Gesù.
Questa mattina trovandomi fuori di me stessa ho do­vuto girare e rigirare per trovare il benedetto Gesù. Per fortuna sono entrata dentro una chiesa e l’ho trovato sopra un altare dove si celebrava il Divin Sacrifizio; subito son corsa e me lo sono abbracciato dicendogli: “Finalmente vi ho trovato; mi avete fatto tanto girare, fino a stancarmi, e voi state qui”.
E lui guardandomi serio, non con la solita sua benignità, mi ha detto: “Questa mattina mi sento molto amareggiato e mi sento tutta la necessità di mettere mano ai castighi per sgravarmi”.
Ed io subito ho risposto: “Caro mio, non è niente, rimedieremo subito. Verserete in me le vostre amarezze e così resterete sgravato, non è vero?”
E lui condiscendendo al mio dire ha versato in me le sue amarezze. Dopo poi, tutta stringendomi a lui, come se si fosse liberato da un grave peso ha soggiunto:
“L’anima conformata al mio Volere si sa tanto infiltrare nella mia potenza che giunge a legarmi tutto ed a suo piacere mi disarma come vuole. Ah, tu, tu, quante volte mi leghi!” E mentre così diceva, ha preso il suo solito aspetto dolce e benigno.
Trovandomi un po’ turbata sopra un argomento, la mia mente voleva andare vagando per assicurarsi sulla mia turbazione e così restarmene in pace. Ma il benedetto Gesù volendomi contraddire il mio volere, m’impe­-diva che potessi vedere ciò che volevo, e siccome io insistevo di voler vedere mi ha detto: “Perché vuoi andare vagando? Non sai tu che chi esce dalla mia Volontà esce dalla luce e si confina nelle tenebre?”
E volendomi quasi distrarre da ciò che io volevo, mi ha trasportata fuori di me stessa e cambiando discorso ha soggiunto: “Vedi un po’ quanto mi sono ingrati gli uomini! Come la luce del sole riempie tutta la terra da un punto all’altro ‑ in modo che non vi è terra che non gode il benefizio della sua luce, non vi è persona che può lamentarsi d’essere priva dei suoi benefici influssi, tanto vero che il sole investendo tutto l’universo per poter dare luce a tutti, lo prende come in sua mano, solo può lamentarsi di non godere della sua luce chi sfuggendo dalla sua mano va a nascondersi in luoghi tenebrosi; eppure il sole continuando il suo caritatevole uffizio, lascia da mezzo le sue dita mandargli[26] qualche spiraglio di luce ‑ così la mia grazia è un’immagine del sole, che dappertutto inonda le genti: poveri, ricchi, ignoranti e dotti, cristiani ed infedeli. Nessuno, nessuno può dire d’esserne privo, perché la luce della verità e l’influsso della mia grazia riempie la terra al pari del sole nel suo pieno meriggio.
Ma qual è la mia pena nel vedere le genti che traversando questa luce ad occhi chiusi ed affrontando la mia grazia col torrente pestifero delle loro iniquità, fuor­viando da questa luce, volontariamente vivono in luoghi tenebrosi, in mezzo a nemici crudeli! Essi[27] sono esposti a mille pericoli, perché non avendo la luce non possono conoscere chiaramente se si trovano in mezzo ad amici o nemici, e sfuggire dai pericoli che li circondano.
Ah, se il sole avesse ragione e dagli uomini si potesse[28] fare questo affronto alla sua luce, e taluni, giungendo a tale ingratitudine che per indispettire e non vedere il suo chiarore, si caverebbero[29] gli occhi e così restano[30] più sicuri di vivere nelle tenebre, ah, il sole invece di mandare luce manderebbe lamenti e lacrime di do­lore, da mettere sossopra tutta la natura! Eppure ciò che si avrebbe orrore di rendere alla luce naturale, gli uomini giungono a tale eccesso da affrontare in tal modo la mia grazia; ma la mia grazia sempre benigna con loro, in mezzo alle stesse tenebre ed alla follia della loro cecità, manda sempre barlumi di luce, perché la mia grazia mai lascia nessuno, ma l’uomo volontariamente se ne esce da essa, e la grazia, non avendola [l’uomo] in sé, cerca di seguirlo coi barlumi della sua luce”.
Mentre ciò diceva, il dolce Gesù era estremamente afflitto ed io facevo per quanto potevo, per consolarlo, pregandolo di versare in me le sue amaritudini. E lui ha soggiunto: “Compatisci se ti son causa di afflizione, perché di tanto in tanto mi sento tutta la necessità di sfogare in parole il mio dolore sull’ingratitudine degli uomini, con le anime mie dilette, per muovere i loro cuori a ripararmi in tanto eccesso ed a compassione degli stessi uomini”.
Ed io: “Signore, quello che vorrei è che non mi risparmiate di partecipare alle vostre pene”. E volendo io stessa più dire, è scomparso ed io sono ritornata in me stessa.
Questa mattina, avendo fatto la santa comunione, vedevo il mio caro Gesù da bambino con una lancia in mano in atto di volermi trapassare il cuore; e siccome avevo detto una cosa al confessore, Gesù volendomi rimproverare mi ha detto: “Tu vuoi causare il patire ed io voglio che incominci una nuova vita di sofferenze e di ubbidienza”.
E mentre ciò diceva, mi ha trapassato il cuore con la lancia e poi ha soggiunto:
“Come il fuoco arde secondo le legna che vi si mettono [e] così tiene maggiore attività nel bruciare e consumare gli oggetti che vi si menano dentro, e per quanto è maggiore il fuoco altrettanto è maggiore il calore e la luce che contiene, così l’ubbidienza, per quanto è maggiore, altrettanto l’anima si rende abile a distruggere ciò che è materiale, e l’ubbidienza come a molle cera le dà la forma che vuole”.
Continua quasi sempre lo stesso. Questa mattina vedevo il buon Gesù più afflitto del solito, minacciando una mortalità di gente, e vedevo in certi paesi che molti ne morivano. Dopo son passata dal purgatorio, e conoscendo un’amica defunta l’ho interrogata su varie cose sopra il mio stato, specialmente se è Volontà di Dio il mio stato, se è vero che è Gesù che viene oppure il demonio, “perché ‑ le ho detto ‑ siccome tu ti trovi innanzi alla verità e conosci con chiarezza senza che ti puoi ingannare, puoi dirmi la verità dei fatti miei”.
Ed essa mi ha detto: “Non temere. È Volontà di Dio il tuo stato e Gesù ti vuole bene assai, perciò si benigna manifestarsi teco”.
Ed io proponendole alcuni dubbi l’ho pregata che si benignasse di vedere innanzi alla luce della Verità se erano veri o falsi e mi facesse la carità di venirmelo a dire, e se ciò facesse, io in ricompensa le farei celebrare una messa in suo suffragio. Ed essa ha soggiunto: “Se vuole il Signore, perché noi stiamo tanto immersi in Dio che non possiamo neppure muovere le ciglia se non abbiamo da lui il concorso. Noi abitiamo in Dio come una persona abitasse in un altro corpo, che tanto può pensare, parlare, guardare, operare, camminare, per quanto le vien dato da quel corpo che la circonda da fuori; perché a noi non è come a voi che avete il libero arbitrio, la propria volontà; per noi ogni volontà si può dire cessata, la nostra volontà è solo la Volontà di Dio. Di quella viviamo, in quella troviamo tutto il nostro contento ed essa forma tutto il nostro bene e la nostra gloria”.
E mostrando un contento indicibile di questa Volontà di Dio, ci siamo separate.
Avendomi il confessore data l’ubbidienza di pregare il Signore di manifestarmi il modo come fare per tirare gli animi al cattolicesimo e per togliere tanta miscredenza, io ho pregato parecchi giorni ed il Signore si benignava di manifestarsi su questo punto. Finalmente questa mattina mi son trovata fuori di me stessa, trasportata dentro un giardino, e mi pareva che fosse il giardino della Chiesa, ed ivi erano tanti sacerdoti e altre dignità che disputavano sopra questo soggetto, e mentre disputavano usciva un cane di smisurata grossezza e fortezza, che la maggior parte restavano tanto impauriti e spossati che giungevano a farsi morsicare da quella bestia, e dopo si ritiravano vigliacchi dall’impresa. Solo, quel cane inferocito non aveva forza di mordere quei soli che avevano come centro Gesù nel proprio cuore, che quindi veniva a formare il centro di tutte le loro azioni, pensieri e desideri. Ah, sì, Gesù formava il suggello di queste persone, e quella bestia restava tanto debole che non aveva forza neppure di fiatare.
Ora mentre disputavano io mi sentivo Gesù da dietro le spalle che diceva: “Tutte le altre società conoscono chi appartiene al loro partito, solo la mia Chiesa non conosce chi sono i suoi figli.
Il primo passo è conoscere chi sono coloro che le appartengono, e questi li possiate[31] conoscere con lo stabilire un giorno una riunione in cui li inviterete, che chi è cattolico v’intervenisse al luogo ben destinato per tale riunione, ed ivi con l’aiuto dei cattolici secolari stabilire quello che conviene fare. Il secondo passo [è] di obbligare alla confessione quei cattolici che v’intervengono, cosa principale che rinnova l’uomo e forma i veri cattolici, e questo, non solo a quelli che si trovano presenti, ma obbligare chi è padrone che obbligasse i suoi sudditi alla confessione, e quando non giungono con le buone, anche col rimandarli dal loro servizio. Quando ogni sacerdote avrà formato il gruppo dei suoi cattolici, allora potranno inoltrarsi ad altri passi superiori, perché il riconoscere l’opportunità del tempo come[32] inoltrarsi nei partiti, e la prudenza nell’esporsi, è come la potazione degli alberi che fa produrre grossi e stagionati frutti. Ma se l’albero non è potato, vi fa sì una bella pompa di primole[33] e di fiori, ma appena cade una brina, soffia un vento, non avendo l’albero umore sufficiente e forza onde sostenere tanti fiori per ricambiarli in frutti, avviene che i fiori se ne cadono e lui vi rimane spogliato. Così succede nelle cose di religione; prima dovete formarvi un corpo di cattolici conveniente da poter fare fronte agli altri partiti, e poi potete giungere ad inoltrarvi negli altri partiti per formarne uno solo”.
Detto ciò non l’ho sentito più e senza neppure vederlo mi son trovata in me stessa. Chi può dire la mia pena per non aver visto il benedetto Gesù per tutto il giorno, e le lacrime che ho dovuto versare?
Continuando a non venire [Gesù], io mi struggevo in dolore e mi sentivo una febbre da dare in delirio. Ora, siccome il confessore è venuto a celebrare il Divin Sacrifizio, ho fatto la comunione, ma non vedevo secondo il solito il mio caro Gesù. Onde ho incominciato a dire i miei spropositi: “Dimmi mio Bene perché non ti fai ve­dere? Questa volta pare a me che non ti abbia dato occasione per sottrarti! Come, alla buona alla buona mi lasci? Ahi, neppure gli amici di questa terra agiscono in questo modo! Quando devono star lontani almeno si dicono addio, e tu neppure a dirmi addio? Come, così si fa? Perdonami se così parlo; è la febbre che fa dare in delirio e mi fa giungere alla follia”.
Chi può dire tutti gli spropositi che gli ho detto? Sarebbe un voler perder tempo. Ora, mentre stavo delirando e piangendo, Gesù ora faceva vedere una mano, ora un braccio. Quando ho visto il confessore che mi dava l’ubbidienza di soffrire la crocifissione, e Gesù come costretto dall’ubbidienza si ha fatto vedere, ed io subito a lui: “Perché non ti facevi vedere?”
E lui mostrando un aspetto severo ha detto: “È niente, è niente, è che voglio castigare la terra, ed io anche a stare in buono con una sola creatura, mi sento disarmato e non ho forza a metter mano ai castighi; perché col farmi vedere tu incominci a dire, se vedi che devo mandare castighi: ‘Versate a me, fate soffrire me’, ed io mi sento vincere da te e mai metto mano ai castighi, e gli uomini non fanno altro che imbaldanzire di più”.
Or, continuando il confessore a replicare l’ubbi­dienza di farmi soffrire la crocifissione, Gesù si mostrava molto lento a farmi fare questa ubbidienza, non come le altre volte, che subito voleva che mi sottomettessi, e ha detto a me: “E tu, che vuoi fare?”
Ed io: “Signore, quello che voi volete”.
Allora volgendosi al confessore con aspetto serio, gli ha detto: “Anche tu vuoi legarmi col darle queste ubbidienze di farmela soffrire?”
E mentre ciò diceva, ha incominciato a parteciparmi i dolori della croce, e dopo mostrandosi placato ha versato le sue amarezze, e poi ha soggiunto: “Il confessore dove sta?”
Ed io: “Signore, non so dove è andato. È certo che non lo vedo più con noi”.
E lui: “Lo voglio, che siccome lui ha ristorato me, così io voglio ristorare lui”.
Questa mattina il benedetto Gesù mi faceva vedere il Santo Padre con le ali aperte, che andava in cerca dei suoi figli per raccoglierli sotto le sue ali; e sentivo i suoi lamenti che diceva: “Figli miei, quante volte ho cercato di radunarvi sotto le mie ali, e voi mi sfuggite! Deh, ascoltate i miei lamenti ed abbiate compassione del mio dolore!”
E mentre ciò diceva, piangeva amaramente, e pareva che non erano i soli secolari che si scostavano dal Papa ma anche i sacerdoti, e questi davano più dolore al Santo Padre. Quanta pena faceva, vedere il Papa in questa posizione!
Dopo ciò ho visto Gesù che faceva eco ai lamenti del Santo Padre e soggiungeva: “Fra quelli che sono rimasti fedeli, alcuni vivono a sé, non hanno lo zelo di esporsi per la mia gloria e per il bene delle anime, altri sono trattenuti da vari timori, altri dicono, propongono, promettono, ma non vengono ai fatti”.
Detto ciò è scomparso. Dopo poco è ritornato ed io mi sentivo tutta annientata in me stessa alla presenza di Gesù, e lui vedendomi annichilita mi ha detto:
“Figlia mia, quanto più ti abbassi in te stessa tanto più mi sento tirato ad abbassarmi verso di te ed empirti della mia grazia. Ecco perciò che l’umiltà è foriera della luce”.
Avendo fatta la santa comunione vedevo il mio dolce Gesù che m’invitava ad uscire fuori con lui, con patto, però, che se dovevo andare insieme dove vedevo che Gesù era costretto per i peccati a mandare castighi, non dovevo contrastare con lui perché non li mandasse; con questa condizione siamo usciti, girando la terra.
Prima ho incominciato a vedere non tanto lontano da noi, specialmente in certi punti, tutto disseccato. Onde a lui rivolta ho detto: “Signore, come farà questa povera gente se le mancherà il cibo per nutrirsi? Deh, voi tutto potete; come lo avete fatto disseccare, così fatelo rinverdire”. E siccome teneva la corona di spine, ho disteso la mano dicendogli: “Mio Bene, che cosa vi ha fatto questa gente? Forse vi ha messa questa corona di spine? Ebbene datela a me, così resterete placato e le darete il cibo per non farli perire”. E togliendogliela l’ho premuta sulla mia testa.
Mentre ciò facevo Gesù mi ha detto: “Si vede che non posso portarti, perché portare te e non poter far niente è lo stesso”.
Ed io: “Signore, non ho fatto niente; perdonatemi, se conoscete che ho fatto male, ma deh, portatemi insieme con voi!”
E lui: “Il tuo modo d’agire mi lega dappertutto”.
Ed io: “Non sono io che faccio così, siete voi stesso che mi fate operare in questo modo, perché trovandomi con voi vedo che le cose tutte sono vostre, e se io non prendessi cura delle vostre cose mi pare che verrei a non curare voi stesso. Perciò dovete perdonarmi se agisco in questo modo, che per amor vostro lo faccio, e non dovete allontanarmi per questo”.
Dopo abbiamo continuato a girare. Io facevo quanto potevo a non dirgli niente per non dargli occasione che mi facesse ritirare, e perdere la sua amabile presenza; ma dove non potevo incominciavo a contrastare. Giunti ad un punto dell’Italia, stavano facendo un combinato che[34] doveva venire un gran dissesto, ma non ho capito che cosa fosse, perché avendo incominciato a dire: “Signore, non permettete! Povera gente, come faranno?”, vedendo Gesù che io mi affannavo e volevo impedir­glielo, mi ha detto con impero: “Ritirati, ritirati!”, e togliendosi una cinta di chiodi, di spilli, che teneva incarnati nel suo corpo, che lo faceva molto soffrire, ha soggiunto: “Ritirati e portati questa cinta con te, che mi darai molto sollievo”.
Ed io: “Sì, me la metterò in vece vostra, ma lasciatemi stare con voi”.
E lui: “No, ritirati!”
E l’ha detto con tale impero che, non potendo resistere, in un istante mi son trovata in me stessa e non ho potuto capire che cosa fosse il combinato.
Questa mattina il mio adorabile Gesù, nell’atto di venire mi ha detto: “Come il sole è la luce del mondo, così il Verbo di Dio nell’incarnarsi divenne la luce delle anime; e come il sole materiale dà luce in generale ed a ciascuno in particolare, tanto che ognuno lo può godere come se fosse suo, così il Verbo mentre dà luce in generale è sole per ciascuno in particolare; tanto vero che questo sole divino ognuno lo può tener con sé come se fosse solo”.
Chi può dire quello che comprendevo su questa luce, e i benefici effetti che ridondano nelle anime che tengono questo sole come se fosse loro proprio? Mi pareva che l’anima possedendo questa luce mette in fuga le tenebre dello spirito, come il sole materiale con lo spuntare sul nostro orizzonte mette in fuga le tenebre della notte. Questa luce divina, se l’anima è fredda la riscalda, se è nuda di virtù la rende feconda; se inondata dal morbo pestifero della tiepidezza, col suo calore assorbe quell’umore cattivo. In una parola, per non andare troppo per le lunghe, questo sole divino, introducendo[la] nel centro della sua sfera ricopre l’anima con tutti i suoi raggi e giunge a trasformare l’anima nella sua stessa luce.
Dopo ciò, siccome io mi sentivo tutta affranta, Gesù, volendomi ristorare, mi ha detto: “Questa mattina voglio dilettarmi con te”, ed ha incominciato a fare i suoi soliti stratagemmi amorosi.
Dopo aspettare e riaspettare, il mio dolce Gesù si faceva vedere da dentro il cuore. Mi pareva di vedere un sole che spandeva i raggi, e guardando nel centro di questo sole vi scorgevo il volto di Nostro Signore; ma quello che mi ha fatto stupire è che vedevo nel mio cuore tante donzelle vestite di bianco con corona in testa, che attorniavano questo sole divino, nutrendosi di questi raggi che spandeva questo sole. Oh, come erano belle, modeste, umili, e tutte intente a bearsi in Gesù! Onde non conoscendo il significato di ciò, con un po’ di timore ho chiesto a Gesù di farmi sapere chi erano quelle donzelle, e Gesù mi ha detto: “Queste donzelle erano le tue passioni, che ora con la mia grazia ho cambiato in tante virtù che mi fanno nobile corteggio. Stanno tutte a mia disposizione, ed io in ricompensa le vado nutrendo con la mia continua grazia”.
Ah, Signore, eppure mi sento tanto cattiva che mi vergogno di me stessa!
Questa mattina ho dovuto molto soffrire per l’assen­za del mio caro Gesù, ma però ha ricompensato le mie pene col soddisfare il mio desiderio di voler sapere una cosa che da molto tempo bramavo. Onde dopo aver girato e rigirato in cerca di Gesù, or lo chiamavo con la preghiera, or con le lacrime, or col canto, chi sa potesse restar ferito dalla mia voce e così farsi trovare; ma tutto indarno. Ho replicato i gemiti, a chiunque trovavo domandavo di lui.
Finalmente, quando il mio cuore si sentiva crepare e che non ne potevo più, l’ho trovato, ma lo vedevo di tergo, e ricordandomi di una resistenza che gli feci, che dirò nel libro del confessore, gli ho chiesto perdono, e così pare che ci siamo messi d’accordo, tanto che lui stesso mi ha domandato che cosa volessi, ed io gli ho detto: “Compiacetevi di farmi conoscere la vostra Volontà sul mio stato, specialmente che cosa devo fare quando mi trovo con poche sofferenze e voi non venite, e se venite è quasi ad ombra. Onde non vedendo voi, i miei sensi me li sento in me stessa, e trovandomi in questa posizione mi sento come se ci mettessi del mio e non fosse necessario aspettare la venuta del confessore per uscire da quello stato”.
E Gesù: “O soffri o non soffri, o vengo o non vengo, il tuo stato è sempre di vittima; molto più che questa è la mia Volontà e la tua, ed io giudico non secondo le opere che si fanno, ma secondo la volontà con cui si opera”.
Ed io: “Signore mio, va bene come dite, ma mi pare che sto[35] inutile e si perde molto tempo, e mi sento un fastidio, un timore; e poi far venire il confessore, mi tormenta l’anima che non fosse Volontà vostra”.
E lui: “Pensi tu che fosse peccato il far venire il confessore?”
Ed io: “No, ma temo che non fosse tua Volontà”.
E lui: “Del peccato devi fuggire anche l’ombra, ma del resto non devi darti pensiero”.
Ed io: “Se non fosse tua Volontà a che pro starci?”
E lui: “Oh, mi pare che la figlia mia vuole sfuggire lo stato di vittima, non è vero?”
Ed io, tutta arrossendo, ho detto: “No, Signore, dico questo per quando qualche volta non mi fate soffrire e voi non venite; del[36] resto fatemi soffrire ed io non mi darò nessun pensiero”.
E Gesù: “E a me pare che vuoi sfuggire. Poi, sai tu quando ho riservato di venire a comunicarti le mie pene, se [al]la prima, [al]la seconda, [al]la terza o anche [al]l’ul­tima ora? Onde, distraendoti da me e sforzandoti ad uscire ti occuperai in altro, ed io venendo non ti troverò preparata e prenderò la mia volta e me ne andrò altrove”.
Ed io tutta spaventata: “Non sia mai, o Signore! Non voglio altro sapere che la vostra Santissima Volontà”.
E lui: “Statti calma ed aspetta il confessore”. Detto ciò è scomparso.
Pare che mi sento sgravata da un gran peso, da questo parlare di Gesù; ma con tutto ciò non è scemata in me la pena dolorosa [di] quando Gesù mi priva di lui.
Avendo questa mattina fatto la santa comunione, mi trovavo in un mare di amarezze, ché non vedevo il mio sommo bene Gesù. Tutto il mio interno me lo sentivo messo in allarme, quando in un istante si è fatto vedere e mi ha detto, quasi rimproverandomi:
“Non sai tu che il non abbandonarsi in me è un volere usurpare i diritti della mia divinità, facendomi un grande affronto? Perciò abbandonati, quieta il tuo interno tutto in me e troverai la pace, e trovando la pace troverai me stesso”.
Detto ciò, come lampo è scomparso senza farsi più vedere. Ah, Signore, tenetemi voi tutta abbandonata e ben stretta nelle vostre braccia, in modo che non possa mai sfuggire, altrimenti farò sempre delle scappatine!
Continua il benedetto Gesù a non venire. Oh, Dio, che pena indicibile è la sua privazione! Cercavo quanto più potevo di starmene in pace e tutta abbandonata in lui, ma che! Il mio povero cuore non ne poteva più; facevo quanto più potevo per calmarlo e dicevo: “Cuor mio, aspettiamo un altro poco, chi sa [se] viene. Usiamo qualche stratagemma per tirarlo a venire”.
Onde rivolta a lui gli dicevo: “Signore venite, l’ora si fa tarda, e voi non venite ancora? Questa mattina cerco quanto posso a starmi quieta, eppure non vi fate trovare? Signore, vi offro il martirio della vostra privazione come attestato d’amore e come farvi un presente per attirarvi a venire. È vero che non son degna, ché senza di voi mi sento mancare la vita”. E siccome non veniva gli dicevo: “Signore, o venite o vi stancherò col mio dire, e quando vi sarete stancato, neppure allora ci dovrete venire?”
Ma chi può dire tutti i miei spropositi? Gliene dicevo tanti che andrei troppo per le lunghe se volessi dire tutto. Dopo ciò, quando appena ho veduto il mio dolce Gesù che si muoveva dentro il mio interno, come se si risvegliasse da un sonno, onde si è fatto vedere più chiaro, e trasportandomi fuori di me stessa mi ha detto:
“Come l’uccello quando deve volare batte le ali, così l’anima [che è] mia, ai voli dei desideri batte le ali dell’umiltà, ed in quei battiti manda una calamita che mi attira, in modo che mentre lei prende il suo volo per venire a me, io prendo il mio per andare a lei”.
Ah, Signore, si vede che mi manca la calamita del­l’umiltà! Se io nel mio cammino spandessi ovunque la calamita dell’umiltà, non stenterei tanto ad aspettare e riaspettare la tua venuta!
Dopo aver passati giorni amari e di privazione e di rimproveri del benedetto Gesù per le mie ingratitudini e resistenze al suo Volere ed alle sue grazie, questa mattina mi ha detto:
“Figlia mia, il passaporto per entrare nella beatitudine che l’anima può possedere su questa terra, deve essere firmato con tre firme, e queste sono: la rassegnazione, l’umiltà e l’ubbidienza. La rassegnazione perfetta al mio Volere è cera che liquefa i nostri voleri[37] e ne forma uno solo, è zucchero e miele, ma per ogni resistenza al mio Volere la cera si disunisce, lo zucchero si rende amaro ed il miele si converte in veleno. Or non basta essere rassegnata, ma l’anima deve essere convinta che il maggior bene per sé ed il maggior modo di glorificarmi è il far sempre la mia Volontà. Ecco la necessità della firma dell’umiltà, perché l’umiltà produce questa conoscenza. Ma chi nobilita queste due virtù, chi le fortifica, chi le rende perseveranti, chi le incatena insieme in modo da non potersi separare, chi le incorona? L’ubbidienza!
Ah, sì, l’ubbidienza, distruggendo affatto il proprio volere e tutto ciò che è materiale, spiritualizza tutto, e come corona si pone intorno. Onde la rassegnazione e l’umiltà senza l’ubbidienza saranno soggette ad instabilità, ma con l’ubbidienza saranno fisse e stabili. Ed ecco la stretta necessità della firma dell’ubbidienza, per fare che questo passaporto possa correre, per passare al regno della beatitudine spirituale che l’anima può godere di qua. Senza queste tre firme, il passaporto non avrà valore e l’anima sarà sempre respinta dal regno della be­atitudine e sarà costretta a stare nel regno dell’inquietu­dine, dei timori e dei pericoli, e per sua disgrazia avrà per dio il proprio io, e quest’io sarà corteggiato dalla superbia e dalla ribellione”.
Dopo ciò mi ha trasportato fuori di me stessa, dentro un giardino che pareva che fosse il giardino della Chiesa, in cui vedevo che fuorviavano da cinque a sei persone, sacerdoti e secolari, che unendosi coi nemici della Chiesa muovevano una rivoluzione. Che pena faceva vedere Gesù benedetto piangere il triste stato di queste persone! Poi ho guardato nell’aria e vedevo una nube d’acqua ripiena di pezzi di ghiaccio grossi che cadevano sopra la terra. Oh, quanto strazio facevano sopra i raccolti e sopra l’umanità! Ma però spero che voglia placarsi. Onde più afflitta di prima son ritornata in me stessa.
Continua il mio amabile Gesù a venire, quando appena e ad[38] ombra, ed anche a[39] venire non dice niente. Questa mattina, poi, dopo avermi rinnovato i dolori della croce per ben due volte, guardandomi con tenerezza mentre stavo soffrendo lo spasimo delle trafitture dei chiodi mi ha detto:
“La croce è uno specchio dove l’anima rimira la Divinità, e rimirandosi ne ritrae i lineamenti, la rassomiglianza più consimile a Dio. La croce non solo si deve amare, desiderare, ma farsene un onore, una gloria della stessa croce. Questo è operare da Dio e diventare come Dio per partecipazione, perché solo io mi gloriai della croce e me ne feci un onore del patire e l’amai tanto che in tutta la mia vita non volli stare un momento senza la croce”.
Chi può dire ciò che comprendevo della croce e da questo parlare del benedetto Gesù? Ma mi sento muta d’esprimerlo con le parole. Ah, Signore, vi prego a tenermi sempre confitta in croce, affinché avendo sempre dinanzi questo specchio divino, possa tergere tutte le mie macchie ed abbellirmi sempre più a vostra somiglianza!
Trovandomi nello stesso stato, anzi, con un poco di timore per cosa mia particolare, il mio dolce Gesù nel venire mi ha detto: “... E sono i vasi sacri ed è necessario di tanto in tanto spolverarli. I vostri corpi sono tanti vasi sacri in cui vi faccio la mia dimora, perciò è necessario che vi faccia di tanto in tanto delle spolveratine, cioè che li visiti con qualche tribolazione, per fare che io vi stia sempre con più decoro. Perciò statti calma”.
Dopo ciò, avendo fatta la santa comunione ed egli avendomi rinnovati i dolori della crocifissione, ha soggiunto: “Figlia mia, quanto è preziosa la croce! Vedi un po’: il sacramento del mio corpo, nel darsi all’anima, la unisce con me, la trasmuta fino a diventare una stessa cosa con me, ma col consumarsi delle specie si disunisce l’unione realmente contratta; ma la croce no, [essa] prende Iddio e l’unisce con l’anima per sempre e con maggiore sicurezza lei si pone come suggello. Dunque la croce suggella Iddio nell’anima, in modo che non c’è mai separazione tra Dio e l’anima crocifissa”.
Questa mattina, trovandomi fuori di me stessa vedevo il mio dolce Gesù che soffriva molto, ed io l’ho pregato che mi facesse parte delle sue pene, e lui mi ha detto: “Anche tu soffri, piuttosto io mi metto nel tuo posto e tu fammi l’ufficio d’infermiera”.
Così pareva che Gesù si mettesse nel mio letto, ed io in piedi accanto a lui; incominciavo a rialzargli la testa e ad una ad una gli toglievo le spine che stavano conficcate nel suo benedetto capo. Poi sono andata al suo corpo ed ho visitato tutte le sue piaghe, le[40] asciugavo il sangue e le baciavo; ma non avevo come ungerle per mitigare lo spasimo, quando ho visto che dal mio petto usciva un olio, ed io lo prendevo ed ungevo le piaghe di Gesù; ma facevo ciò con un certo timore, ché non capivo che cosa significasse quell’olio che usciva da me. Ma Gesù benedetto mi ha fatto capire che la rassegnazione al Divino Volere è olio che, mentre unge e mitiga le nostre pene, nel medesimo tempo è olio che unge e mitiga lo spasimo delle piaghe di Gesù. Onde, dopo essere stata per un buon pezzo di tempo a far quest’uf­fizio al mio caro Gesù, mi è scomparso ed io son ritornata in me stessa.
Trovandomi fuori di me stessa, e non trovando il mio dolce Gesù, ho dovuto girare molto per andare in cerca di lui; alla fine l’ho trovato in braccio alla Regina Mamma, ma però neppure mi guardava. Chi può dire la pena del mio povero cuore nel vedere che Gesù non si curava di me!
Dopo ho guardato nel suo petto e teneva una piccola perla tanto risplendente che investiva l’umanità santissima di Nostro Signore, di luce. Onde volendo sapere il significato, ho domandato a Gesù che cosa fosse quella perla, che mentre pare così piccola spande tanta luce. E Gesù:
“La purità del tuo patire, che ancorché piccolo, [ep]pure perché soffri per solo amor mio ed ancora saresti pronta a soffrire altro se io te lo concedessi, ecco[41] la causa di tanta luce. Figlia mia, la purità nell’operare è tanto grande che chi opera per il solo fine di piacermi non fa altro che mandare luce in tutto il suo operare; chi non opera rettamente, anche il bene non fa altro che spandere tenebre”.
Quindi ho visto nel petto di Nostro Signore che teneva uno specchio tersissimo, e pareva che chi camminava rettamente restava tutta assorbita in quello specchio, chi no, restava fuori, senza che potessero ricevere nessuna impronta dell’immagine del benedetto Gesù. Ah, Signore, tenetemi tutta assorbita in questo specchio divino acciò nessun’altra ombra d’intenzione io abbia nel mio operare.
Questa mattina, avendo fatta la santa comunione, mi pareva che il confessore mettesse l’intenzione di farmi soffrire la crocifissione, e all’istante ho visto l’angelo custode che mi distendeva sulla croce per farmela soffrire.
Dopo ciò ho visto il mio dolce Gesù che tutta mi compativa, e mi ha detto: “Il tuo refrigerio sono io, il mio refrigerio è il tuo patire”. E mostrava un contento indicibile del mio patire, e del confessore che con l’ub­bidienza che mi aveva dato di soffrire gli aveva procurato quel sollievo. Poi ha soggiunto: “Siccome il sacramento dell’Eucaristia è frutto della croce, perciò mi sento più disposto a concederti il patire quando ricevi il mio corpo, perché vedendo te patire, mi pare che non misticamente, ma realmente continua in te la mia passione a pro delle anime, e questo è per me un grande sollievo, perché raccolgo il vero frutto della mia croce e dell’Eu­caristia”.
Dopo ciò ha detto: “Finora è stata l’ubbidienza che ti ha fatto soffrire; vuoi tu che [io] mi diverta un poco col rinnovarti di nuovo la crocifissione di propria mia mano?”
Ed io, sebbene mi sentivo molto sofferente ed ancor freschi i dolori della croce: “Rinnovatemi — ho detto — Signore, son nelle vostre mani, fate di me ciò che volete”.
Allora Gesù tutto contento ha incominciato a conficcarmi di nuovo i chiodi nelle mani e nei piedi; vi sentivo tale intensità di dolore che non so io stessa come sono rimasta viva, ma io però ero contenta perché con­tentavo Gesù. Onde, dopo che mi ha ribattuto i chiodi, mettendosi a me vicino a incominciato a dire: “Quanto sei bella! Ma quanto più cresce la tua bellezza nel tuo patire! Oh, come mi sei cara! I miei occhi restano feriti nel guardarti, ché scorgono in te la mia stessa immagine”.
E diceva tante altre cose, che sarebbe inutile il dirle, prima perché sono cattiva, secondo ché non vedendomi quale il Signore mi dice, mi sento una confusione ed un rossore nel dire queste cose; onde spero che il Signore mi farà veramente buona e bella, ed allora scemando il mio rossore potrò descrivere il tutto. Ma per ora faccio punto.
Avendo fatta la santa comunione, il mio dolce Gesù si è fatto vedere tutto affabilità, e siccome pareva che il confessore mettesse l’intenzione della crocifissione, la mia natura ne sentiva quasi una ripugnanza a sottomettersi. Il mio dolce Gesù per rincorarmi mi ha detto:
“Figlia mia, se l’Eucaristia è caparra della futura glo­ria, la croce è sborso come comprarla. Se l’Eucaristia è seme che impedisce la corruzione, ed è come quelle erbe aromatiche che ungendosi i cadaveri non ne restano corrotti, e dona l’immortalità all’anima e al corpo, la croce li abbellisce ed è tanto potente che se c’è contrazione di debiti essa se ne fa mallevadrice, con maggior sicurezza si fa restituire la scrittura del debito contratto, e dopo che ha soddisfatto ogni debito forma all’anima il trono più sfolgorante nella futura gloria. Ah, sì, la croce e l’Eucaristia si avvicendano insieme e una spera[42] più potentemente dell’altra”.
Poi ha soggiunto: “La croce è il mio letto fiorito, non perché non soffrivo atroci spasimi, ma perché per mezzo della croce partorivo tante anime alla grazia, vedevo spuntare tanti bei fiori che producevano tanti frutti celesti; quindi vedendo tanto bene, tenevo a mia delizia quel letto di dolore e mi dilettavo della croce e del patire. Anche tu, figlia mia, prendi come delizie le pene e dilettati di starti crocifissa nella mia croce. No, no, non voglio che tema il patire, quasi volessi operare da infingarda. Su, coraggio! Opera da valorosa e disponiti da te stessa al patire”.
Mentre così diceva, vedevo il mio buon angelo custode che stava preparato per crocifiggermi; ed io da me stessa ho disteso le braccia e l’angelo mi crocifiggeva. Godeva il buon Gesù del mio patire, e quanto ne ero contenta io, dacché potevo dar gusto a Gesù, [pur essendo] un’anima così miserabile. Mi pareva che fosse un grande onore per me il patire per amor suo.
Questa mattina mi son trovata fuori di me stessa e vedevo tutto il cielo cosparso di croci: chi[43] piccole, chi grandi, chi mezzane; chi più grande più dava splendore. Era un incanto dolcissimo il vedere tante croci che abbellivano il firmamento, più risplendenti del sole. Dopo ciò pareva che si aprisse il cielo, e si vedeva e sentiva la festa che si faceva dai beati alla croce. Chi più aveva sofferto era più festeggiato in questo giorno. Si distinguevano in modo speciale i martiri e chi aveva sofferto di nascosto. Oh, in quel beato soggiorno si stimava la croce e chi più aveva sofferto.
Mentre ciò vedevo, una voce ha risuonato per tutto l’empireo, che diceva: “Se il Signore non mandasse le croci sopra la terra, sarebbe come quel padre che non ha amore per i propri figli, che invece di volerli vedere onorati e ricchi, li vuol vedere poveri e disonorati”.
Il resto che vidi di questa festa, non ho parole come esprimerlo; me lo sento in me ma non so metterlo fuori, perciò faccio silenzio.
Dopo aver passati giorni di privazione, non solo, ma di turbazione ancora, questa mattina trovandomi più turbata sul misero mio stato, l’adorabile Gesù nel venire mi ha detto: “Tu con lo starti inquieta hai turbato il mio dolce riposo. Ah, sì, non mi fai più riposare”.
Chi può dire quanto son rimasta mortificata nel sentire d’aver tolto il riposo a Gesù Cristo! Con tutto ciò per qualche ora mi son quietata, ma dopo mi son trovata più inquieta di prima, che io stessa non so questa volta dove andrò a finire. Dopo quelle due parole che ha detto Gesù, mi son trovata fuori di me stessa, e guardando nella volta dei cieli vi scorgevo tre soli: uno pareva che si posasse all’oriente, l’altro all’occidente, il terzo a mezzogiorno. Era tanto lo splendore dei raggi che tramandavano, che si univano l’uno con l’altro in modo che formavano uno solo. Mi pareva di vedere il mistero della Santissima Trinità, e l’uomo formato con le tre potenze ad immagine di essa. Comprendevo pure che chi stava in quella luce, restava trasformata la memoria nel Padre, l’intelletto nel Figlio, la volontà nello Spirito Santo. Quante cose comprendevo! Ma non so manifestarlo.
Continua lo stesso stato e forse anche peggio, sebbene faccio quanto posso a starmi quieta senza turbarmi perché così vuole l’ubbidienza, ma con tutto ciò non lascio di sentirne il peso dell’abbandono che mi preme e giunge fino a schiacciarmi. O Dio, che stato è codesto? Ditemi almeno, dove vi ho offeso? Qual ne è la causa? Ah, Signore, se volete continuare in questo modo, credo che non potrò più aver resistenza!
Onde, quando appena si è fatto vedere mettendomi una mano sotto il mento in atto di compatirmi, e mi ha detto:
“Povera figlia, come ti sei ridotta!” E facendomi parte delle sue pene, come lampo è scomparso, lasciandomi più afflitta di prima come se non fosse venuto; anzi mi sento come se non fosse venuto da tanto tempo e vi provo tale afflizione, che vivo e il mio vivere è un continuo agonizzare. Ah, Signore, porgetemi aiuto e non mi lasciate in abbandono, sebbene lo merito.
Continua lo stesso stato di privazione e di abbandono. Onde trovandomi fuori di me stessa, vedevo un’inon­dazione d’acqua mista con grandine e pareva che varie città ne restassero inondate con tale[44] danno. Mentre ciò vedevo mi trovavo in grande costernazione, perché volevo impedire quell’inondazione, ma siccome mi trovavo sola, molto più che non avevo meco Gesù, quindi le mie povere braccia me le sentivo deboli per poter ciò fare. Onde con mia sorpresa ho veduto venire (mi pareva che fosse dall’America) una vergine e, lei da un punto ed io dall’altro, ci siamo riuscite ad impedire in gran parte il flagello che ci minacciava.
Dopo ciò, essendoci riunite insieme, scorgevo quella vergine con le insegne della passione, coronata con corona di spine, come pure mi trovavo io; e una persona che mi pareva che fosse un angelo diceva: “Oh, potenza delle anime vittime! Ciò che non è dato a noi angeli di fare, con le loro sofferenze possono far loro. Oh, se gli uomini sapessero il bene [che viene] da loro, perché stanno per il bene pubblico e particolare, non farebbero altro che implorare da Dio che si moltiplicasse[ro] queste anime sulla terra!”
Dopo ciò, avendoci detto[45] che ci raccomandassimo a vicenda al Signore, ci siamo separate.
Trovandomi ancor priva dell’adorabile Gesù mio, al più [vedevo] qualche ombra. Oh, quanto mi costa amaro! Quante lacrime mi conviene versare! Questa mattina, dopo aver aspettato e ricercato, l’ho trovato accanto a me tutto afflitto con la corona di spine che gli trafiggeva la testa; gliel’ho tolta pian piano e l’ho messa sulla mia. Oh, quanto mi vedevo cattiva innanzi alla sua presenza! Non avevo forza di dire una sola parola.
Gesù avendo di me compassione mi ha detto: “Fatti cuore, non temere, cerca di riempire il tuo interno di me e d’impregnarlo di tutte le virtù fino a traboccarne fuori, e quando giungerai a farne il trabocco, allora ti porterò nel cielo e finiranno tutte le tue privazioni”.
Dopo ciò, prendendo un’aria afflitta ha soggiunto: “Figlia mia, prega, perché stanno preparati tre distinti giorni, l’uno lontano dall’altro, di tempeste, grandine e fulmini, inondazioni che faranno gran danno agli uomini ed alle piante”.
Detto ciò è scomparso lasciandomi un po’ più sollevata nello stato in cui mi trovo, ma con un pensiero: “Chi sa quando farò questo trabocco fuori? E se non lo faccio mai, mi converrà forse starmene sempre lontana da lui”.
Trovandomi fuori di me stessa, mi pareva che fosse notte e vedevo tutto l’universo, tutto l’ordine della natura, il cielo stellato, il silenzio notturno; insomma mi pareva che tutto avesse un significato. Mentre ciò vedevo, mi pareva vedere Nostro Signore che prendendo la parola su ciò che vedevo ha detto:
“Tutta la natura invita ad un riposo, ma qual è il vero riposo? È il riposo interno, il silenzio di tutto ciò che non è Dio. Vedi le stelle scintillanti di luce temperata, non abbagliante come il sole, il sonno, il silenzio di tutta la natura, degli uomini e fin degli animali, che tutti cercano un luogo, una tana dove starsene in silenzio e riposarsi dalla stanchezza della vita. Se ciò è necessario per il corpo, molto più per l’anima. È necessario riposarsi nel suo proprio centro che è Dio. Ma per potersi riposare in Dio è necessario il silenzio interno, come al corpo è necessario il silenzio esteriore per potersi placidamente addormentare. Ma qual è questo silenzio interiore? È di far zittire le proprie passioni col tenerle a posto, di imporre silenzio ai desideri, alle inclinazioni, agli affetti, insomma, a tutto ciò che non chiama Dio.
Or qual è il mezzo per giungere l’uomo a ciò? L’unico mezzo ed assolutamente necessario è di disfare il proprio essere secondo la natura, ridurlo al nulla come un nulla era prima che fosse creato; e quando avrà ridotto al nulla il suo essere, riprenderlo in Dio. Figlia mia, tutte le cose dal nulla hanno principio. Questa stessa macchina dell’universo che tu rimiri con tanto ordine, se prima di crearla fosse stata ripiena d’altre cose, non avrei potuto mettere la mia mano creatrice per farla con tanta maestria e renderla tanto splendida ed ornata; al più avrei potuto disfare tutto ciò che ci poteva essere, e poi rifarla come a me piaceva. Ma siamo sempre lì, che tutte le mie opere dal nulla hanno principio, e quando c’è mischianza di altre cose non è decoroso della mia Maestà scendere ed operare nell’anima; ma quando l’anima si riduce al nulla e risale a me e prende il suo essere nel mio, allora io vi opero da quel Dio che sono, e l’anima vi trova il vero riposo. Eccoti che tutte le virtù dal­l’umiltà e dall’annientamento di sé stesso hanno principio”.
Chi può dire quanto comprendevo su ciò che mi diceva il benedetto Gesù? Oh, come felice sarebbe l’ani­ma mia se potessi giungere a disfare il mio povero essere per poter ricevere dal mio Dio il suo Essere Divino! Oh, come mi nobiliterei, come resterei santificata! Ma quale sciocchezza è la mia? dove mi abbia[46] il cervello se ancor non lo faccio? Che miseria umana che, invece di cercare il suo vero bene e di prendere il suo volo in alto, si contenta di arrampicarsi per terra e di vivere nel fango e nel marciume!
Dopo ciò il mio diletto Gesù mi [ha] trasportata dentro un giardino, dove era molta gente che si preparava ad assistere ad una festa, ma solo quelli che ricevevano una divisa vi potevano assistere, ed erano pochi quelli che ricevevano questa divisa. Venne a me gran voglia di riceverla, e tanto ho fatto che ho ottenuto l’intento. Onde giunta al punto dove si riceveva, una matrona veneranda, prima mi ha vestita di bianco, poi mi ha messo una tracolla celeste da cui pendeva una medaglia improntata del volto di Gesù, e che mentre era volto, era insieme specchio, che rimirandolo si scorgeva[no] le più piccole macchie, che l’anima con l’aiuto di una luce che veniva da dentro quel volto facilmente si poteva togliere. Mi pareva che quella medaglia racchiudesse un senso misterioso. Dopo ha preso un manto d’oro finissimo e tutta mi ha coperta. Mi pareva che così tutta vestita potessi gareggiare con le vergini comprensorie[47]. Mentre ciò succedeva, Gesù mi ha detto: “Figlia mia, ritorniamo a vedere ciò che fanno gli uomini; basta che sei[48] vestita, [e] quando sarà la festa allora ti porterò ad assistere”.
Così, dopo aver girato un poco, mi ha trasportato al mio posto.
Questa mattina il mio adorabile Gesù non veniva; onde dopo molto aspettare è venuto, e carezzandomi mi ha detto: “Figlia mia, sai tu qual è la mia mira su di te e lo stato che voglio da te?”
E soffermandosi un poco ha soggiunto: “La mira che ho [su] di te non è di cose prodigiose e di tante cose che potrei operare su di te per mostrare l’opera mia, ma la mia mira è di assorbirti nella mia Volontà e di farne una sola [con la tua] e di lasciare di te un esemplare perfetto di uniformità del tuo col mio Volere. Ma ciò è lo stato più sublime, è il prodigio più grande, è il miracolo dei miracoli che di te intendo fare. Figlia mia, per giungere perfettamente a fare uno il nostro Volere, l’anima deve rendersi invisibile, deve imitare me, che mentre riempio il mondo col tenerlo assorbito in me e col non restare assorbito in esso, mi rendo invisibile, ché da nessuno mi lascio vedere.
Ciò significa che non c’è nessuna materia in me, ma tutto è purissimo Spirito; e se nella mia umanità assunta presi la materia, fu per rassomigliarmi in tutto all’uomo e dargli un esemplare perfettissimo [di] come spiritualizzare questa stessa materia. Onde l’anima deve tutto in sé spiritualizzare e giungere a rendersi come se fosse un puro spirito, e la materia in lei più non esistesse, quasi fosse sparita e resa invisibile per poter formare facilmente una la tua con la mia Volontà, perché ciò che è invisibile può essere assorbito in un altro oggetto. Di due oggetti, dei quali si vuol formare uno solo, è necessario che uno perda la propria forma, altrimenti mai si giungerebbe a formare un solo essere. Quale fortuna sarebbe la tua se, distruggendo te stessa fino a renderti invisibile, potessi ricevere una forma tutta divina! Anzi tu, col restare assorbita in me ed io in te formando un solo essere, verresti a ritenere in te la fonte divina; e siccome la mia Volontà contiene ogni bene che ci può mai essere, verresti a ritenere tutti i beni, tutti i doni, tutte le grazie, e non avresti a cercarli altrove, ma in te stessa.
E se le virtù non hanno confine, stando nella mia Volontà, secondo che[49] la creatura può giungere troverà il suo[50] termine, perché la mia Volontà fa giungere ad acquistare le virtù più eroiche e più sublimi, che la creatura non può sorpassare. È tanta l’altezza della perfezione dell’anima disfatta nel mio Volere, che giunge ad operare come Dio; e questo non è meraviglia, perché siccome non vive più la sua volontà in essa, ma la Volontà di Dio medesimo, cessa ogni stupore se vivendo con questa Volontà possiede la potenza, la sapienza, la san­tità e tutte le altre virtù che contiene lo stesso Dio. Basta dirti, per fare che tu t’innamori e cooperi quanto puoi da parte tua per giungere a tanto, che l’anima che giunge a vivere del solo mio Volere è regina di tutte le regine ed il suo trono è tanto alto che giunge fino al trono del­l’Eterno; ed entra nei segreti dell’Augustissima Triade e partecipa all’amore reciproco del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Oh, come tutti gli angeli ed i santi la onorano, gli uomini l’ammirano ed i demoni la temono scorgendo in lei l’Essere Divino!”
Ah, Signore, quando mi farete giungere a questo? Perché da me niente posso.
Or chi può dire ciò che il Signore infondeva in me con luce intellettuale su questa uniformità di voleri! È tanta l’altezza dei concetti, che la mia lingua non bene [in]dirizzata non ha parole come esprimerlo. Appena ho potuto dire questo poco, sebbene spropositando, di ciò che il Signore con luce vivissima mi fece comprendere.
Trovandomi molto afflitta per la privazione del mio adorabile Gesù, al più si faceva vedere ad ombra ed a lampo, sento proprio che non posso tirare più innanzi se lui vuole continuare più oltre. Onde trovandomi nel som­mo dell’afflizione, per un poco si è fatto vedere tutto stanco, come se avesse bisogno di un ristoro, e menando le sue braccia al mio collo mi ha detto:
“Diletta mia, portami dei fiori e circondami tutto, che mi sento languire d’amore. Figlia mia, l’odoroso profumo dei tuoi fiori mi sarà di ristoro e vi porrà un rimedio ai miei mali, che[51] languisco e vengo meno”.
Ed io subito ho soggiunto: “E voi, diletto mio Gesù, datemi dei frutti, che l’ozio e lo scarso patire aumentano talmente il mio languire, che vengo meno fino a sentirmi morire. Ed allora non solo dei fiori, ma potrò darvi dei frutti per poter maggiormente ristorare il vostro languire”.
E Gesù ha ripreso il suo dire e mi ha detto: “Oh, come ci combiniamo bene! Non è vero? Pare che il tuo volere è uno col mio”.
Per un momento pare che sono rimasta sollevata, come se volesse cessare lo stato in cui mi trovavo; ma dopo poco mi son trovata immersa nello stesso letargo di prima, priva del mio sommo Bene, abbandonata e sola.
Questa mattina, sentendomi più che mai afflitta per la privazione del mio sommo Bene, quando appena mi si è fatto vedere e mi ha detto:
“Come un vento impetuoso investe le persone e penetra fin nelle viscere in modo da scuotere tutta la persona, così il mio amore e la mia grazia, impennandosi sulle ali dei venti, investe e penetra nel cuore, nella mente e nelle più intime parti dell’uomo. Con tutto ciò, l’uomo ingrato respinge la mia grazia e mi offende. Qual non è il mio acerbo dolore!”
Io però me ne stavo tutta confusa ed annientata in me stessa e non ardivo di dire una parola. Solo pensavo: “Come è che non viene? Ed anche a venire[52], non lo veggo chiaro; pare che ho perduto la chiarezza. Chi sa se lo vedrò svelato il suo bel volto come prima?” Mentre così pensavo, il mio benigno Gesù ha soggiunto: “Figlia mia, perché temi se il tuo stato è in excelsis per l’unione dei nostri voleri?”
E volendomi rincorare e compatire lo stato mio doloroso, mi ha detto: “Tu sei il mio novello Giobbe. Non ti opprimere [in modo] soverchio se non mi vedi con chiarezza. Te lo dissi fin dall’altro giorno che non ci vengo secondo il solito, ché voglio castigare le genti; e se tu mi vedessi con chiarezza verresti a comprendere con chiarezza ciò che io sto facendo, ed il tuo cuore siccome ha ricevuto l’innesto del mio, quindi conosco io quello che tu verresti a soffrire, come sta soffrendo il mio cuore ché mi veggo costretto a castigare le mie creature. Anche per risparmiarti queste pene non mi faccio vedere con chiarezza”.
Chi può dire la trafittura che ha lasciato al mio povero cuore! Ah, Signore, datemi la forza a sostenere il dolore!
Continuando a stare nello stesso stato, mi sentivo tutta oppressa ed avevo tutta la necessità di un sostegno per poter sopportare la privazione del mio sommo Bene. Il benedetto Gesù, avendo di me compassione, per qualche minuto ha mostrato il suo volto da dentro il mio cuore, però non con chiarezza, e facendo sentire la sua soavissima voce mi ha detto: “Coraggio, figlia mia, un altro poco lasciami finire di castigare, che dopo ci verrò come prima”.
Mentre così diceva, nella mia mente gli ho domandato: “Quali sono i castighi che hai incominciato a mandare?”
E lui ha soggiunto: “La pioggia continuata è più che grandine [per ciò] che sta facendo, e vi porterà delle tristi conseguenze sopra le genti”.
Detto ciò è scomparso, ed io mi son trovata fuori di me stessa, dentro un giardino, e da lì dentro vi vedevo i raccolti disseccati nelle vigne; e dentro di me andavo dicendo: “Povere genti, povere genti, come faranno?”
Mentre così dicevo, dentro quel giardino vi era un ragazzino che piangeva e gridava tanto forte che assordava cielo e terra, ma nessuno aveva di lui compassione, sebbene lo sentivano tutti che così piangeva, tanto che non si brigavano di lui e lo lasciavano abbandonato a solo. Un pensiero mi è balenato: “Chi sa che non fosse Gesù?” Ma non ne son rimasta certa. Onde avvicinandomi a lui ho detto: “Che hai che piangi, bambino caro? Vuoi venire insieme con me, giacché tutti ti hanno lasciato in preda alle lacrime ed al dolore che tanto ti opprime, che ti fa gridare così forte?”
Ma che! Chi poteva quietarlo? Appena con singulti ha risposto che sì, se ne voleva venire. Onde l’ho preso per mano per condurlo insieme con me, e nell’atto stesso di ciò fare mi son trovata in me stessa.
Trovandomi nello stesso stato, questa mattina per qualche poco[53] ho visto il mio adorabile Gesù che se ne stava dentro il mio cuore che dormiva; ed il suo sonno attirava l’anima mia ad assonnarmi insieme con lui, tanto che mi sentivo tutte le interiori potenze tutte addormentate, senza più agire. Delle volte mi sforzavo di uscire da quel sonno, ma non potevo; quando per poco si è destato il benedetto Gesù ed ha mandato tre volte il suo alito dentro di me, e mi pareva che lui restasse tutto assorbito in me. Dopo mi pareva che Gesù se li attirasse un’altra volta dentro di sé, quei tre aliti che mi aveva mandato, ed io mi son trovata tutta trasformata in lui. Chi può dire ciò che succedeva in me, da questi tre soffi divini? Oh, l’unione inseparabile tra me e Gesù, non ho parole da esprimerlo!
Dopo ciò mi pare che mi son potuta destare, e Gesù rompendo il silenzio mi ha detto: “Figlia mia, ho guardato e riguardato, ho cercato e ricercato scorrendo per tutta la terra, ma in te ho fissato i miei sguardi ed ho trovato le mie compiacenze, e ti ho eletta tra mille”.
Poi volgendosi a certe persone che vedeva, li ha ripresi col dir loro: “La mancanza di stima della persona altrui è mancanza di vera umiltà cristiana e di dolcezza, perché uno spirito umile e dolce sa rispettare tutti ed interpreta sempre bene i fatti altrui”.
Detto ciò è scomparso senza che io avessi potuto dirgli una parola. Sia sempre benedetto che così vuole, e sia tutto per sua gloria.
Siccome continuava il mio adorabile Gesù a non farsi vedere con chiarezza, questa mattina, avendo fatta la santa comunione, il confessore ha messo l’intenzione della crocifissione. Mentre mi trovavo in quelle sofferenze, il benedetto Gesù quasi tirato dalle mie pene si è mostrato con chiarezza. Oh, Dio, e chi può dire le sofferenze che pativa Gesù e lo stato violento in cui si trovava mentre era costretto a mandare i castighi! Faceva tale violenza che non voleva mandarli! Faceva tale compassione vederlo in questo stato, che se gli uomini lo potessero vedere, ancorché i loro cuori fossero di diamante, si spezzerebbero per tenerezza come fragil vetro. Onde ho incominciato a pregarlo che si placasse e che si contentasse di farmi soffrire a me e risparmiasse il popolo.
Poi ho soggiunto: “Signore, se non volete dare ascolto alle mie preghiere, [ri]conosco che lo merito. Se non volete avere compassione dei popoli, ne avete ragione, perché grandi sono le nostre iniquità; ma vi chieggo in grazia che abbiate pietà della violenza che vi fate nel punire le vostre immagini. Ah! Sì, ve lo chieggo per amor di voi stesso, che non mandiate castighi fino a togliere il pane ai vostri figli e farli perire. Oh, no, non è della natura del vostro cuore operare in questo modo! Ecco perciò la violenza che provate, che se avesse potere vi darebbe la morte”.
E lui tutto afflitto mi ha detto: “Figlia mia, è la giustizia che mi fa violenza, e l’amore che ho verso gli uomini mi usa violenza più forte, da mettere il mio cuore in angoscia di morte nel punire le creature”.
Ed io: “Perciò, Signore, scaricate sopra di me la giustizia, ed il vostro amore non sarà più violentato dalla giustizia e non si troverà in contrasti di castigare le genti, che davvero come faranno se voi fate, come mi fate comprendere, disseccare tutto ciò che serve all’ali­mento dell’uomo? Deh! Vi prego, lasciatemi soffrire a me e risparmiate loro, se non in tutto, almeno in parte”.
E Gesù, come se si vedesse costretto dalle mie preghiere, si è avvicinato alla mia bocca ed ha versato dalla sua un poco d’amarezza densa e stomachevole, che appena trangugiata mi ha prodotto tali e tante specie di pene che mi sentivo morire. Allora il benedetto Gesù, sostenendomi in quelle pene, altrimenti sarei rimasta vittima (eppure non era stato altro che un poco che aveva versato; che sarà del suo cuore adorabile che tanto ne conteneva?), ha mandato un sospiro come se si fosse sollevato da un peso, e mi ha detto: “Figlia mia, la mia giustizia aveva deciso di distruggere tutto, ma ora sgravandosi un poco sopra di te, per amor tuo concede un terzo di ciò che serve all’alimento dell’uomo”.
Ed io: “Ah, Signore, è troppo poco, almeno metà!”
E lui: “No, figlia mia, contentati”.
Ed io: “No, Signore; almeno se non volete contentarmi per tutti, contentatemi per Corato e per quelli che mi appartengono”.
E Gesù: “Oggi sta preparata una grandine che deve fare gran danno. Tu stai coi dolori della croce; esci fuori di te stessa in forma di crocifissa, va’ nell’aria e metti in fugga i demoni da sopra Corato, che alla forma crocifissa non potranno resistere ed andranno altrove”.
Così sono uscita fuori di me stessa, crocifissa, ed ho visto la grandine ed i fulmini che stavano per scoppiare sopra Corato. Chi può dire lo spavento dei demoni, come se la davano a gambe alla vista della mia forma crocifissa, come si morsicavano le dita per rabbia! E giungevano a prendersela contro il confessore, che questa mattina mi aveva dato l’ubbidienza di soffrire la crocifissione, giacché con me non se la potevano prendere, anzi erano costretti a fuggire da me per il segno della redenzione che vi scorgevano. Onde dopo di averli messi in fuga, mi sono ritirata in me stessa trovandomi con una buona dose di patimenti. Sia tutto per la gloria di Dio.
Siccome mi trovavo in qualche modo sofferente, mi pareva che quelle sofferenze erano una dolce catena che tirava il mio buon Gesù a farlo venire quasi [di] continuo, e mi pareva che quelle pene chiamavano Gesù a fargli versare altre amarezze. Onde nel venire, or mi sosteneva nelle sue braccia per darmi forza ed ora versava di nuovo. Io però di tanto in tanto gli dicevo: “Signore, adesso sento in me parte delle vostre pene, vi prego di contentarmi, come vi dissi ieri, di darmi almeno la metà di ciò che serve ad alimentare l’uomo”.
E lui: “Figlia mia, per contentarti ti consegno le chiavi della giustizia e la conoscenza di quanto è necessario assolutamente punire l’uomo, e con ciò farai quello che ti piace. Non ne sei contenta?”
Nel sentire dirmi ciò mi consolai, e dicevo nel mio interno: “Se starà a me, non castigherò affatto nessuno”. Ma quanto restai disingannata quando il benedetto Gesù mi diede una chiave e mi mise in mezzo ad una luce, ché guardando da mezzo a quella luce scorgevo tutti gli attributi di Dio, come pure quello della giustizia! Oh, come è tutto ordinato in Dio! E se la giustizia punisce, è ordine; e se non punisse non starebbe in ordine cogli altri attributi. Onde mi vedevo misero verme in mezzo a quella luce, che se volessi impedire il corso alla giustizia, guasterei l’ordine ed andrei contro gli uomini stessi, perché comprendevo che la stessa giustizia è amore purissimo verso di loro.
Onde mi son trovata tutta confusa ed imbarazzata, perciò per sbarazzarmi ho detto a Nostro Signore: “Con questa luce di cui mi avete circondato, capisco le cose diversamente, e se lasciaste fare a me farei peggio che voi, perciò non accetto questa conoscenza e vi ringrazio [per] le chiavi della giustizia. Quello che accetto e voglio è che facciate soffrire me e che risparmiate le genti; del resto non voglio sapere niente”.
E Gesù, sorridente al mio dire, mi ha detto: “Come, subito vuoi sbarazzarti non volendo conoscere nessuna ragione? e volendomi fare più forte violenza te ne vuoi uscire con due parole: ‘Fate soffrire a me e risparmiate loro’?”
Ed io: “Signore, non è che non voglio sapere ragione, ma perché non è ufficio mio ma vostro; il mio ufficio è quello di essere vittima. Perciò voi fate il vostro ufficio ed io faccio il mio. Non è vero mio caro Gesù?”
E lui mostrando come un’approvazione mi è scomparso.
Mi pare che il mio adorabile Gesù continua a dimezzare la giustizia col versare un poco su di me ed il resto sopra le genti. Questa mattina specialmente, quando mi son trovata con Gesù, mi si strappava l’anima nel vedere la tortura del suo dolcissimo cuore nel castigare le creature. Era tanto lo stato sofferente in cui si trovava Gesù, che non faceva altro che mandare continui gemiti. Teneva in testa una folta corona di spine, tutta incarnata dentro, tanto che la testa pareva un pezzo di spine. Onde per sollevarlo un poco gli ho detto: “Dimmi mio Bene, che hai che sei tanto sofferente? Permettete che vi tolga queste spine, che vi tormentano non poco!”
Ma Gesù non mi rispondeva, anzi neppure ascoltava ciò che io dicevo. Quindi mi son messa a togliere quelle spine ad una ad una, e dopo quella corona l’ho messa nella mia testa. Or mentre ciò facevo, ho visto che a parte lontane[54] doveva fare un terremoto che avrebbe fatto strage di gente. Dopo, Gesù è scomparso ed io son ritornata in me stessa, ma con somma mia afflizione nel pensare allo stato sofferente di Gesù ed alle sciagure della misera umanità.
Questa mattina, nel venire il mio amabile Gesù, ho incominciato a dire: “Signore, che fate? Pare che vi inoltriate troppo con la giustizia”. Mentre volevo continuare a dire per scusare le miserie umane, Gesù mi ha imposto silenzio col dirmi: “Taci, se vuoi che mi trattenga con te, vieni a baciarmi e a salutarmi, con le tue solite adorazioni, tutte le mie membra sofferenti”.
Così ho incominciato dalla testa e poi man mano per tutte le altre membra. Oh, quante piaghe profonde conteneva quel corpo sacrosanto che al solo guardarlo metteva raccapriccio! Onde, non appena ho finito è scomparso, lasciandomi con scarsissimo patire e con un timore: chi sa come si verserà sopra le genti, che non si è benignato di versare sopra di me le sue amarezze!
Dopo poco è venuto il confessore e gli ho detto ciò che dissi di sopra e lui mi ha risposto: “Oggi per ubbidienza assoluta, quando fai la meditazione devi pregarlo che ti faccia soffrire la crocifissione e che cessi di mandare i flagelli”.
Così quando ho fatta la meditazione l’ho pregato secondo l’ubbidienza ricevuta. Quando appena, si faceva vedere, ma senza darmi retta, anzi, or si faceva vedere che volgeva le spalle alle genti, or che dormiva per non essere da me importunato, e che so io; mi sentivo crepare che non si curava di farmi fare l’ubbidienza, onde ho preso coraggio, e mettendo tutta la fiducia nella santa ubbidienza l’ho preso per braccio per risvegliarlo e gli ho detto: “Signore, che fate, questo è l’amore che portate alla vostra virtù tanto prediletta dell’ubbidienza? Que­sti sono gli elogi che tante volte le avete dati? Questi sono gli onori che avete prodigati, fino a dire che vi sentite scosso e non potete resistere alla virtù dell’ubbi­dienza e vi sentite soggiogare dall’anima che si dona a questa virtù, che adesso pare che non vi curate di farmi ubbidire?”
Mentre ciò dicevo ed altre cose che andrei troppo per le lunghe se volessi scriverle, il benedetto Gesù si è scosso, e come colpito da vivissimo dolore ha dato in dirottissimo pianto, e singhiozzando ha detto:
“Anch’io non voglio mandare flagelli, ma è la giustizia che mi costringe, e quasi per forza; ma tu con questo parlare vuoi pungermi al vivo, è toccarmi un tasto per me troppo delicato e da me molto amato, tanto che non volli altro onore né altro titolo che quello di ubbidiente. Ed ecco, per farti vedere che non è che non mi curo di farti ubbidire, con tutto ciò che[55] la giustizia mi costringe a non farlo, ti partecipo in parte i dolori della croce”.
Mentre ciò diceva è scomparso, lasciandomi contenta che mi ha fatto ubbidire, e con un dispiacere nell’ani­ma, come se fossi stata causa di far piangere il Signore col mio parlare. Ah, Signore, vi prego a perdonarmi!
Trovandomi non poco sofferente, il mio adorabile Gesù, nel venire, tutta mia compativa e mi ha detto: “Figlia mia, che hai che soffri tanto? Lasciami sollevarti un poco”.
Ma Gesù era più sofferente di me. Così ha baciato l’anima mia; siccome era crocifisso mi ha tirato fuori di me stessa ed ha messo le mie mani nelle sue, i miei piedi nei suoi, la mia testa poggiava sulla sua e la sua sopra la mia. Come ero contenta nel trovarmi in questa posizione! Sebbene i chiodi e le spine di Gesù mi davano dolori, pure erano dolori che mi davano gioia perché sofferti per l’amato mio Bene, anzi avrei voluto che più crescessero.
Anche Gesù pareva contento di me, che mi teneva in quel modo attirata a sé. Mi pareva che Gesù ristorava me ed io fossi di ristoro a lui. Onde in questa posizione siamo usciti fuori, ed avendo trovato il confessore, subito l’ho pregato per i bisogni di lui e ho detto al Signore che si benignasse di fare sentire quanto è dolce e soave la sua voce, al confessore.
Gesù per contentarmi si è rivolto a lui ed ha parlato della croce col dire: “La croce assorbe nell’anima la mia Divinità, la rassomiglia alla mia umanità, e ricopia in sé stessa[56] le mie stesse opere”.
Dopo abbiamo continuato a girare un altro poco, ed oh! Quante viste dolorose, che trafiggevano l’anima parte a parte: le gravi iniquità degli uomini che neppure si abbassano a fronte nella[57] giustizia, anzi si scagliano con maggiore furore, quasi che volessero rendere ferite per doppie ferite[58]; e la grande miseria che loro stessi si stanno preparando. Onde con nostro sommo rammarico ci siamo ritirati. Gesù è scomparso ed io mi sono ritirata in me stessa.
Siccome questa mattina il benedetto Gesù non ci veniva, nel mio interno mi sentivo suscitare qualche om­bra di turbazione sul perché non ci veniva; onde nel venire mi ha detto:
“Figlia mia, contenersi in Dio e non uscire dai confini della pace è tutto lo stesso; sicché se tu avverti un poco di turbazione è segno che fai un poco di uscita da dentro Dio. Perché contenersi in lui e non aver perfetta pace è impossibile, molto più che i confini della pace sono interminabili, anzi tutto ciò che a Dio appartiene, tutto è pace”.
Dopo ha soggiunto: “Non sai tu che le privazioni dell’anima servono come l’inverno alle piante, che mettono più profonde le radici, le fortifica, e le fa rinverdire e fiorire a maggio?”
Dopo ciò mi ha trasportata fuori di me stessa, ed avendogli raccomandato vari bisogni, è scomparso ed io mi sono trovata in me stessa, con un gran desiderio di tenermi sempre dentro Dio, acciocché mi potessi trovare nei confini della pace.
Seguitando [Gesù] a non venire, ho cercato di applicarmi a considerare il mistero della flagellazione. Mentre ciò facevo, quando appena, ho visto il benedetto Gesù tutto piagato e grondante sangue, e mi ha detto:
“Figlia mia, il cielo con tutto il creato ti addita l’a­mor di Dio, il mio corpo piagato ti addita l’amor del prossimo; tanto che[59] la mia umanità è unita alla mia Divinità, [che] di due nature ne feci una sola Persona e così in me le due nature resi inseparabili, per cui non solo soddisfeci alla divina giustizia, ma operai la salvezza degli uomini. E per fare che tutti assumessero questo obbligo d’amare Dio ed il prossimo, non solo ne feci un solo, ma giunsi a farne un precetto divino. Sicché le mie piaghe ed il mio sangue sono tante lingue che insegnano ad ognuno il modo d’amarsi e l’obbligo che tutti hanno di badare alla salvezza altrui”.
Dopo, prendendo un aspetto più afflitto, ha soggiunto: “Che tiranno spietato è per me l’amore, che non solo impiegai tutto il corso della mia vita mortale in continui sacrifizi, fino a morire svenato sopra una croce, ma mi lasciai vittima perenne nel sacramento dell’Eucaristia; e questo non solo, ma tutte le mie membra predilette le tengo vittime viventi in continue sofferenze, impiegate per la salvezza degli uomini; come fra tanti ho eletto te per tenerti sacrificata per amor mio e per gli uomini. Ah, sì, il mio cuore non trova requie né riposo se non trova l’uomo! E l’uomo, come corrisponde? Con ingratitudini enormissime!”
Detto ciò è scomparso.
Questa mattina, trovandomi fuori di me stessa e non trovando il mio sommo Bene, ho dovuto girare e rigirare in cerca di lui. Quando mi sono stancata [fino] a sentirmi venir meno, me lo son sentito dietro le spalle, che mi sorreggeva. Onde ho distesa la mano e l’ho tirato innanzi dicendogli: “Diletto mio, sai che non posso stare senza di te! Eppure mi fai tanto aspettare fino a venir meno. Dimmi almeno qual ne è la causa? Dove ti ho offeso, che mi sottoponi a strazi così crudeli e a martìri così dolorosi qual è la tua privazione?”
E Gesù interrompendo il mio dire mi ha detto: “Figlia mia, figlia mia, non accrescere più lo strazio al mio cuore esacerbato al sommo, trovandosi in continua lotta per le violenze che continuamente tutti mi fanno: violenza mi fanno le iniquità degli uomini, che attirando su di loro la giustizia mi sforzano a castigarli; e la giustizia cozzandosi in continua lotta con l’amore che ho verso gli uomini, mi straziano il cuore in modo sì doloroso da farmi morire continuamente. Violenza mi fai tu, che venendo io e conoscendo tu i castighi che sto facendo, non te ne stai quieta, no, ma mi sforzi, mi fai violenza, e non vuoi che castighi; e conoscendo io che tu non puoi fare diversamente alla mia presenza, per non esporre il cuore ad una lotta più fiera mi astengo dal venire. Perciò non volermi violentare a farmi venire per ora, lasciami sfogare il mio furore e non volere accrescere le mie pene col tuo parlare.
Del resto non voglio che ci pensi, perché l’umiltà più sublime è quella di perdere ogni ragione e di non discorrere sul perché e come, ma di disfarsi nel proprio nulla; e mentre sta ciò facendo, senza avvedersi si trova dispersa in Dio, e ciò produce nell’anima l’unione più intima, l’amore più perfetto verso il sommo Bene; però con sommo vantaggio dell’anima, perché perdendo la propria ragione acquista la ragione divina; e perdendo ogni discorso sul conto proprio, cioè se fredda o calda, se favorevoli o avverse le cose che le succedono, non se ne interesserà ed acquisterà un linguaggio tutto celeste e divino. Oltre di ciò l’umiltà produce nell’anima una veste di sicurezza, onde involta in questa veste di sicurezza, l’anima se ne sta nella calma più profonda, tutta abbellendosi per piacere al suo diletto e amato Gesù”.
Chi può dire quanto sono rimasta sorpresa da questo suo parlare? Non ho avuto una parola per rispondergli; dopo è scomparso ed io mi sono trovata in me stessa, quieta sì, ma al sommo afflitta, prima per le afflizioni e le lotte in cui si trovava il mio caro Gesù e poi per timore che ancor non ci venisse. Chi potrà resistere? Come farò a sopportare me stessa per la sua assenza? Ah, Signore, datemi la forza per sopportare sì duro martirio, è tanto insopportabile alla mia povera anima! Del resto, dite quel che volete, che da me non lascerò nessun mezzo, tenterò tutte le vie, userò tutti gli stratagemmi come tirarvi a venire.
Dopo aver passato qualche giorno di privazione, al più si è fatto vedere ad ombra ed a lampo, però tutte le mie potenze me le sentivo tutte addormentate, in modo che io stessa non capivo ciò che succedeva nel mio interno. In questo assonnamento, una sola pena si destava nel mio interno ed era che mi pareva di essermi accaduto come a colui che mentre dorme perde la vista ovvero viene spogliato di tutte le sue ricchezze; onde il misero non può dolersi né difendersi né usare qualche mezzo per liberarsi dai suoi infortuni. Poveretto, in che stato compassionevole si trova! Ma quale la causa? Il sonno, perché se fosse desto si saprebbe certo ben difendere dalle sue sventure. Tale è il mio misero stato; non mi vien dato neppure di mandare un gemito, un sospiro, di versare una lacrima, perché ho perduto di vista colui che è tutto il mio amore[60], tutto il mio bene e che forma tutto il mio contento. Parmi che per non farmi dolere della sua privazione mi ha assonnata e mi ha lasciata. Ah, Signore, destatemi voi, acciocché possa vedere le mie miserie e conoscere almeno di chi sono priva!
Ora mentre mi trovavo in questo stato, da dentro il mio interno ho inteso il benedetto Gesù che si lamentava continuamente. Quei lamenti hanno ferito il mio udito; ed un po’ destandomi ho detto: “Mio solo ed unico Bene, dai vostri lamenti avverto lo stato troppo sofferente in cui vi trovate; ciò vi avviene perché volete soffrire da solo e non farmi parte delle vostre pene; anzi, per non avermi in vostra compagnia mi avete assonnata e mi avete lasciata senza farmi capire più nulla. Capisco il tutto donde ciò viene, ed è [per essere] più libero nel castigare; ma deh, abbiate pietà, compassione, di me che senza di voi sono cieca, e di voi ché è sempre buono in tutte le circostanze avere chi vi faccia compagnia, chi vi sollevi e chi in qualche modo spezzi il vostro furore; perché per ora state nel furore di mandare flagelli, ma quando vedrete le nostre immagini perire per la miseria, manderete più lamenti che ora e forse mi direte: ‘Ah, se tu ti fossi più impegnata a placarmi, se avessi preso su di te le pene delle creature, non vedrei tanto straziate le mie stesse membra!’ Non è ciò vero, mio pazientissimo Gesù? Deh, sollevatevi un poco e lasciatemi soffrire in vece vostra!”
Mentre ciò dicevo, lui continuamente si lamentava, quasi in atto di volere essere compatito e sollevato; ma questo stesso sollievo del parteciparmi le sue pene, lo voleva strappato quasi per forza. Onde dietro le mie importunità ha disteso nel mio interno le sue mani e i suoi piedi inchiodati e mi ha partecipato un poco le sue pene. Dopo ciò dando un po’ di tregua ai suoi lamenti mi ha detto:
“Figlia mia, sono tristi tempi che a ciò mi costringono, perché gli uomini si sono tanto ingagliarditi ed insuperbiti che ognuno crede di essere dio a sé stesso; e se io non metto mano ai flagelli, farei un danno alle loro anime, perché la sola croce è l’alimento dell’umiltà. Onde se ciò non facessi, verrei io stesso a far loro mancare il mezzo come farli umiliare ed arrenderli dalla loro strana pazzia, sebbene la maggior parte degli uomini si irritano e mi offendono. Ma io faccio come un padre che spezza a tutti il pane come alimentarsi; ma alcuni figli non lo vogliono prendere, anzi se ne servono per gettarlo in faccia al padre. Che colpa ne ha il povero padre? Tale sono io; perciò compatiscimi nelle mie afflizioni”.
Detto ciò è scomparso, lasciandomi mezza desta e mezza addormentata, non sapendo io stessa né se debbo perfettamente destarmi né se devo un’altra volta assonnarmi.
Continuo a starmi assonnata. Questa mattina per pochi minuti mi son trovata desta e comprendevo il mio stato miserabile e sentivo l’amarezza della privazione del mio sommo ed unico Bene. Appena ho potuto versare due lacrime, dicendogli: “Mio sempre buon Gesù, come non vieni? Queste non sono cose da farsi: ferire un’anima di te e poi lasciarla! E per soprappiù, per non farle conoscere quello che fate la lasciate in preda del sonno. Deh, venite, non mi fate tanto aspettare!”
Mentre ciò dicevo ed altri spropositi ancora, in un istante è venuto e mi ha trasportato fuori di me stessa; e siccome volevo dirgli il mio povero stato, Gesù, imponendomi silenzio, mi ha detto:
“Figlia mia, quello che voglio da te è di non più riconoscerti in te stessa, ma di riconoscerti solamente in me; sicché di te non più ti ricorderai, né avrai più di te riconoscenza, ma ti ricorderai di me e disconoscendo te stessa acquisterai la mia sola riconoscenza. Ed a misura che oblierai e distruggerai te stessa, così ti avanzerai nella mia conoscenza e ti riconoscerai solamente in me. Quando avrai tutto ciò fatto, non più penserai con la tua mente ma con la mia; non guarderai coi tuoi occhi, non più parlerai con la tua bocca né palpiterai col tuo cuore né opererai con le tue mani né camminerai coi tuoi piedi, ma guarderai coi miei occhi, parlerai con la mia bocca, palpiterai col mio cuore, opererai con le mie mani, camminerai coi miei piedi.
Perché ciò avvenga, cioè per riconoscerti solamente in Dio, l’anima ha bisogno che vada alla sua origine e che ritorni al suo principio, Iddio, da donde uscì, e che uniformi tutta sé stessa al suo Creatore; e tutto ciò che ritiene di sé stessa e che non è conforme al suo principio lo deve disfare e ridurre al nulla. In questo sol modo, nuda, disfatta, può ritornare alla sua origine e riconoscersi solo in Dio ed operare secondo il fine per cui è stata creata. Ecco perciò che per uniformarsi tutta in me, l’anima deve rendersi invisibile con me[61]”.
Mentre ciò diceva, io vedevo il castigo terribile delle piante disseccate, e come ancora più si deve inoltrare. Appena ho potuto dire: “Deh, Signore, come faranno le povere genti?” E lui per non darmi retta, come un lampo mi è sfuggito ed è scomparso. Chi può dire l’amarezza dell’anima mia nel ritrovarmi in me stessa, per non avergli potuto dire neppure una parola per me, e per il mio prossimo, e per la tendenza al sonno come di nuovo son rimasta?
Questa mattina, trovandomi sommamente afflitta per la privazione del mio amante Gesù, quando appena l’ho visto mi ha detto: “Figlia mia, quante maschere si smaschereranno in questi tempi di castighi! Perché questi castighi presenti non sono altro che una predisposizione a tutti quelli che ti manifestai lo scorso anno”.
Mentre ciò diceva, nel mio interno pensavo: “Se il Signore continua a fare come sta facendo, cioè che siccome vuole mandare castighi non viene, non mi partecipa le sue pene, mi tratta con modi insoliti, chi potrà resistere? Chi mi darà la forza a starmene in questo stato?”
E Gesù, rispondendo al mio pensiero ha soggiunto, in atto di compatimento: “Ed allora vuoi tu che ti sospenda lo stato di vittima e poi te lo faccio riprendere?”
Mentre ciò diceva, ho provato tale confusione e amarezza vedendo[62] che il Signore con quella proposta mi cacciasse da sé; non ho saputo dire né sì né no, anche per sentire che cosa decide l’ubbidienza. Onde, senza aspettare il mio dire è scomparso lasciandomi con un chiodo fitto nel cuore, nel pensare che Gesù mi rigettava da sé. Era tanto il dolore, che non ho fatto altro che versare lacrime amare.
Continuando a stare amareggiata, il mio adorabile Gesù avendo di me compassione è venuto, e pareva che mi sostenesse con le sue braccia. Poi, trasportandomi fuori di me stessa, vedevo che vi regnava un profondo silenzio, una mestizia, un lutto per ogni dove. Era tanta l’impressione che faceva sull’anima il vedere in quel modo le genti, che si provava una stretta al cuore. Allora il benedetto Gesù tirandomi come in disparte mi ha detto: “Figlia mia, allontaniamo per poco ciò che ci affligge e ristoriamoci a vicenda”.
E mentre ciò diceva ha cominciato a carezzarmi e sollevarmi con l’alito dei suoi dolci baci. Ma era tanta la confusione mia che non ardivo di rendergli i baci e le carezze; e lui ha soggiunto: “Come, io ristoro te coi casti baci e con le carezze, e tu non vuoi ristorare me col rendermi i tuoi baci e le tue carezze?” Così mi son sentita fiducia di rendergli la pariglia. Mentre ciò facevo è scomparso.
Continuo a starmi amareggiata ed afflitta come una stupida. Questa mattina non era venuto affatto. È venuto il confessore ed ha messo l’intenzione della crocifissione; in primo il benedetto Gesù non concorreva, onde dopo averlo pregato che si benignasse di farmi ubbidire, quando appena mi si faceva vedere e mi ha detto: “Che vuoi? Perché volermi fare violenza per forza una volta che è necessario castigare i popoli?”
Ed io: “Signore, non sono io, è l’ubbidienza che così vuole”.
E lui: “Ebbene, quando è l’ubbidienza ti voglio partecipare la mia crocifissione e frattanto voglio ristorarmi un poco”.
Mentre ciò diceva mi ha partecipato i dolori della croce, e mentre io soffrivo Gesù si è messo vicino a me e pareva che si ristorasse alquanto. Ora mentre mi trovavo in questa posizione, insieme con lui, mi ha fatto vedere nell’aria che da una parte veniva una nube, ma che al sol vederla metteva terrore e spavento, e tutti dicevano: “Questa volta moriamo”. Mentre tutti stavano atterriti, si è sollevata da mezzo a me e Gesù una croce risplendente, che facendosi contra a questa procella l’ha messa in fuga in gran parte (pare che fosse un uragano accompagnato da fulmini, che trascinava con sé le fabbriche), tanto che pareva che le genti si calmavano, e la croce che l’ha fugato in gran parte, mi pareva che fosse il piccolo mio patire che Gesù mi ha partecipato.
Sia benedetto il Signore e tutto sia per la sua gloria ed onore.
Questa mattina, avendo fatta la santa comunione, ho visto il mio adorabile Gesù e gli ho detto: “Mio diletto Signore, perché non volete placarvi?”
E Gesù benedetto, spezzando il mio dire ha risposto: “Eppure i castighi che sto mandando sono niente a confronto di quelli che stanno preparati”.
Mentre ciò diceva, innanzi a me vedevo tante persone infettate da malori contagiosi, che ne morivano. Onde presa da raccapriccio, gli ho detto: “Deh, Signore, ci vorrebbe anche questa! Che fate, che fate? Se ciò volete fare, toglietemi da questa terra, che non mi regge l’anima vedere spettacoli così funesti. Chi mi darà la forza di stare in questo stato?”
Mentre sfogavo la mia afflizione, Gesù compatendomi mi ha detto: “Figlia mia, non temere del tuo stato di assonnamento. Questo dice che, siccome sto io con le genti come se dormissi, come se non li sentissi e guardassi, così ho messo te nello stesso stato. Del resto, se ti dispiace, te lo dissi altra volta, vuoi che ti sospenda lo stato di vittima?”
Ed io: “Signore, non vuole l’ubbidienza che accetti la sospensione”.
E lui: “Ebbene, che vuoi da me? Statti quieta ed ubbidisci!”
Chi può dire quanto sono restata afflitta? Non solo, ma mi pare d’essere restate[63] addormentate le potenze interne, da vivere come se non vivessi. Ah, Signore, abbiate pietà di me, non mi lasciate in abbandono, in uno stato sì compassionevole e doloroso!
Continua lo stesso stato e forse anche peggio, e se qualche volta [Gesù] si fa vedere ad ombra e a lampo, è quasi sempre in silenzio. E questa mattina trovandomi al sommo dell’afflizione e della stupidità per il sonno continuo, quando appena si è fatto vedere mi ha detto:
“L’anima veramente mia, non solo deve vivere per Dio, ma in Dio. Tu cerca di vivere in me, che in me troverai il ricettacolo di tutte le virtù, e passeggiando in mezzo a loro ti alimenterai del loro profumo, tanto da restarne satolla, e tu stessa non farai altro che mandare luce e profumo celeste, perché il vivere in me è la vera virtù ed ha virtù di dare all’anima la stessa forma della Divina Persona in cui fa la sua dimora, e di trasformarla nelle stesse virtù divine in cui si nutrisce”.
Dopo ciò come un lampo è scomparso, e l’anima mia correndo dietro a quel lampo si è trovata fuori di me stessa, ma era già sfuggito e non mi è stato dato di ritrovarlo; ed ho subito solo l’amarezza di vedere grandine terribile che aveva fatto grande strage, fulmini come se avesse[ro] prodotto degli incendi, ed altre cose che stavano preparate. Visto ciò mi son ritrovata in me stessa più afflitta di prima.
Trovandomi nella stessa confusione, come un lampo [Gesù] si è fatto vedere, e mi ha fatto capire che non avevo scritto tutto ciò che lui mi aveva detto il giorno innanzi, cioè che l’anima non solo deve vivere per Dio. Onde il benedetto Gesù mi ha ripetuto la differenza che passa tra il vivere per Dio e il vivere in Dio, col dirmi:
“Nel vivere per Dio, l’anima può star soggetta alle turbazioni, alle amarezze, essere incostante, a sentire il peso delle passioni, a mischiarsi nelle cose terrene. Ma il vivere in Dio, no, è tutto diverso, perché la cosa principale per potersi dire che una persona vivesse in un’altra persona, dovrebbe avvenire che avesse lasciato i propri pensieri ed avesse pure quelli dell’altra, così del suo stile, dei suoi gusti, e ancor più che avesse lasciato la sua volontà per prendere la volontà dell’altra.
Così, perché un’anima viva nella Divinità e vi abiti, deve lasciare tutto ciò che è suo, cioè spogliarsi di tutto, lasciare le proprie passioni; in una parola lasciare tutto per trovare tutto in Dio. Or quando l’anima si è non solo spogliata, ma assottigliata ben bene, allora potrà entrare per la porta stretta del mio cuore a vivere in me, a mio modo e della mia stessa vita; perché sebbene il mio cuore è larghissimo, tanto che non c’è termine ai suoi confini, ma la porta è strettissima e solo può entrarvi chi è denudato del tutto. E questo con ragione, perché essendo io Santissimo, non ammetterei giammai a vivere in me alcunché che fosse estraneo alla mia santità. Perciò, figlia mia, cerca di vivere in me e possederai il paradiso anticipato”.
Chi può dire quanto io comprendevo di questo vivere in Dio? Ma dopo è scomparso e sono rimasta nel mio stesso stato.
Questa mattina avendo fatta la santa comunione e continuando lo stesso stato di confusione, me ne stavo tutta rannicchiata in me stessa, quando dopo [ho] visto il mio adorabile Gesù che veniva a me tutto in fretta dicendomi: “Figlia mia, spezzami un poco il mio furore, altrimenti...”.
Onde io tutta spaventata ho detto: “Che volete che faccia per spezzare il vostro furore?”
E lui: “Col richiamare in te le mie sofferenze verrai a placare il furore mio”.
In questo mentre, vedevo come se chiamasse il confessore mandando un raggio di luce, e lui subito ha messo l’intenzione di farmi soffrire la crocifissione. Il Signore benedetto prontamente ha concorso ed io mi son trovata in tante sofferenze che per la forza dei dolori mi sentivo uscire l’anima dal corpo. Quando mi credevo in punto di spirare, e contenta io che Gesù ricevesse l’ani­ma mia, ho visto il confessore che col dire basta mi richiamava in me stessa. Allora Gesù mi ha detto:
“L’ubbidienza ti chiama”.
Ed io: “Deh, Signore, me ne voglio venire!”
E Gesù: “Che vuoi da me? L’ubbidienza continua a chiamarti”.
E così pare che questa nuova ubbidienza non ha fatto andare più innanzi le sofferenze. Ma obbedienza certo per me crudele,che mentre mi pareva afferrare il porto, sono stata sbalzata fuori a navigare la via.
Onde dopo, sebbene son rimasta sofferente, ma non mi sentivo quella cosa di morire, il mio benigno Signore ha ripreso a dire: “Figlia mia, se tu oggi non avessi spezzato il mio furore, era giunto tanto al colmo che non solo avrei distrutto le piante, ma anche gli uomini; e se lo stesso confessore non si fosse interposto col richiamare in te le mie sofferenze, non avrei avuto neppure riguardo di lui. È vero che sono necessari i castighi, ma è necessario che di tanto in tanto, quando il mio furore s’inoltra, tu me lo spezzi, altrimenti quanti flagelli manderei!”
E mentre ciò diceva, mi pareva di vederlo stanco che lamentandosi diceva: “Figli miei, poveri figli miei, come vi vedo ridotti!”
E con mia sorpresa mi ha fatto capire che dopo essersi calmato un poco, doveva riprendere il furore per continuare i castighi, e questo era servito solo a non farlo troppo infierire contro le genti. Ah, Signore, placatevi ed abbiate pietà di quei tali che voi stesso chiamate ‘figli miei’!
Pare che ho passati diversi giorni senza stare immersa nel letargo del sonno, ed un poco insieme con Gesù benedetto, dandoci a vicenda un po’ di ristoro. Ma quanto temo che mi abbia a gettare un’altra volta in quel sonno così profondo! Onde questa mattina, dopo avermi ristorato col latte che scendeva dalla sua bocca versandolo in me, ed io l’ho ristorato col togliergli la corona di spine per conficcarla nella mia testa, tutto afflitto mi ha detto:
“Figlia mia, il decreto dei castighi è firmato, non resta altro che decidere il tempo dell’esecuzione”.
Questa mattina il mio adorabile Gesù non ci veniva. Dopo molto aspettare è venuto e mi ha detto:
“Figlia mia, la migliore cosa è rimettersi in me; essendo io pace, ancorché [tu] vedessi mandare castighi, resteresti in pace senza provare turbazione”.
Ed io: “Ah, Signore, sempre là andate: ai castighi! Placatevi una volta e non più flagelli; e poi non posso rimettermi al vostro Volere a questo riguardo”.
E lui ha soggiunto: “Non posso placarmi. Che diresti tu se vedessi una persona denudata, che invece di coprire la sua nudità badasse ad adornarsi di gioielli, tralasciando di coprire la sua nudità?”
Ed io: “Mi farebbe orrore a vederla e certo l’avrei biasimata”.
E lui: “Ebbene, tali sono le anime, denudate del tutto non hanno più virtù che le coprono; onde è necessario che le percuota, le flagelli, le assoggetti a privazioni, per farle rientrare in loro stesse e farle badare alla nudità delle loro anime, alle quali il vestimento delle virtù e della grazia è a loro immensamente più necessario che non sia al corpo il coprirsi coi vestimenti. E se io non usassi i castighi con queste anime, vuol dire che baderei ai gingilli, quali sono le cose che si riferiscono al corpo, come la persona da te biasimata, e non baderei alla cosa più essenziale qual è l’anima, che l’han ridotta sì mostruosa da non più riconoscersi”.
Dopo ciò mi pareva che tenesse in mano una cordicella, che menandola da dietro il collo mi legava, e poi legava il suo a quella stessa corda; e così ha fatto al cuore, alle mani, e con ciò pareva che mi legasse tutta al suo Volere. Fatto ciò è scomparso.
Avendo fatta la santa comunione, non vedevo secondo il solito il benedetto Gesù; onde, dopo aver molto aspettato mi son sentita uscire fuori di me stessa e l’ho trovato. Appena visto mi ha detto:
“Figlia, stavo ad aspettarti per potermi in te un po’ riposare, ché più non posso; deh, dammi un sollievo!”
Subito l’ho preso fra le mie braccia per contentarlo, e l’ho visto che teneva una piaga profonda alla spalla, che faceva compassione e ribrezzo a guardarla; onde per pochi minuti si è riposato, e dopo quel breve riposo ho fatto per guardare e la piaga era risanata. Quindi tra la meraviglia e lo stupore e vedendolo più sollevato, ho preso coraggio e gli ho detto:
“Signore benedetto, il mio povero cuore è straziato da un timore che non mi vuoi più bene, temo che sia in corso la tua indignazione; perciò non più venite come prima e non versate in me le vostre amarezze e non date più a me il mio bene, qual è il patire, e negandomi questo, venite a negarmi voi stesso. Deh! date la pace al mio povero cuore: dimmi, assicurami, giurami, mi vuoi bene? Continui a volermi bene?”
E lui: “Sì, sì, sì, ti voglio bene”.
Ed io: “Come posso essere sicura di ciò, mentre quando ad una persona si vuole vero bene, tutto ciò che vuole si dà? Io vi dico: ‘Non castigate le genti’, e voi castigate, ‘versate le amarezze’, e voi non versate, anzi pare che questa volta vi inoltrate troppo. Onde dove posso io appoggiarmi che mi volete bene?”
E lui: “Figlia mia, tu tieni conto dei castighi che mando, e di quelli che risparmio non ne fai conto. Quanti altri castighi avrei mandato, quante altre stragi e sangue avrei fatto versare se non avessi riguardo a quei pochi che mi amano ed io amo di un amore speciale?”
Onde dopo ciò, pareva che Gesù prendesse la via per andare dove succedevano strazi di carne umana, ed io volendo seguirlo non mi è stato dato di farlo, e con mio sommo rammarico mi son trovata in me stessa.
Trovandomi nel solito mio stato, quando appena ho visto il mio adorabile Gesù tutto afflitto dentro il mio cuore, ed insieme ho visto molta gente che commetteva tanti peccati; questi peccati prendevano la volta verso di me per venire a ferire il mio diletto Signore fin dentro il mio cuore. Ma Gesù respingendoli da sé, venivano a cadere sopra le stesse genti, e cadendo sopra di loro formavano la loro stessa rovina, cambiandosi in tante specie di flagelli sopra i popoli, da fare raccapricciare i cuori più duri. Allora Gesù tutto affliggendosi mi ha detto:
“Figlia mia, dove giunge la cecità degli uomini, che mentre cercano di ferire me feriscono sé stessi con le loro proprie mani!”
Questa mattina, dopo essere stata tutta la notte e gran parte della mattina ad aspettare il mio adorabile Gesù, non si benignava di venire. Onde stanca di aspettarlo mi sforzavo di uscire dal mio solito stato, pensando che non fosse più Volontà di Dio. Mentre mi sforzavo di uscire quasi impaziente, il mio benigno Gesù si è mosso da dentro il mio cuore facendosi vedere appena e guardandomi in silenzio. Impaziente com’ero gli ho detto: “Mio buon Gesù, come tanto crudele? Si può dare crudeltà più grande di questa: l’abbandonare un’anima in preda allo spietato tiranno dell’amore che la fa vivere in continua agonia? Oh, come ti sei cambiato da amante in tiranno!”
Mentre ciò dicevo, innanzi a me vedevo tante membra di genti mutilate; perciò ho soggiunto: “Ah, Signore, quanta carne umana mutilata! Quante amarezze e pene! Ahi, non era minor crudeltà se ti fossi soddisfatto in questo mio corpo e farlo in tanti pezzi per quante divisioni avete fatto fare in queste membra? Non era minor male veder soffrire una sola che tanti poveri popoli?”
Mentre ciò dicevo, Gesù continuava a guardarmi fisso, come se restasse colpito, non so dire se dispiaciuto. Pure mi ha detto: “Eppure è il principio del giuoco, ancora è niente a confronto di ciò che verrà”.
Detto ciò si è involato alla mia vista senza poterlo più vedere, lasciandomi in un mare di amarezze.
Dopo aver passato un giorno assorbita e tanto assonnata che non capivo me stessa, avendo fatta la santa comunione mi son sentita uscire fuori di me stessa, e non ho trovato il mio sommo ed unico Bene; ho incominciato a girare e rigirare dando in delirio.
Mentre ciò facevo, mi son sentita una persona in braccio, tutta velata, che non potevo vedere chi fosse. Onde non potendo più resistere ho squarciato quel velo ed ho visto il sospirato mio tutto. Nel vederlo mi son sentita che volevo rompere in querele e spropositi, ma Gesù per spezzare la mia impazienza ed il mio delirio ha baciato questa misera creatura. Il bacio di quelle divine labbra mi ha infuso la vita, la calma; ha spezzata la mia impazienza, tanto che non ho saputo dire più niente. Allora dimenticando tutte le mie miserie, che ne ho tante, mi son ricordata delle povere genti ed ho detto a Gesù:
“Placatevi, risparmiate tanti popoli da stragi così crudeli, andiamo insieme, a quelle parti dove tali cose succedono, acciocché rincoriamo, consoliamo quei poveri cristiani che si trovano in sì triste stato”.
E lui: “Figlia mia, non voglio portarti, che il tuo cuore non reggerebbe a vedere carneficina sì straziante”.
Ed io: “Ah, Signore, come è stato che ciò avete permesso?”
E lui: “[È] necessario assolutamente per la purgazione in tutte le regioni, perché nel campo seminato da me sono cresciute tanto le cattive erbe, le spine, che si son fatti alberi, e questi alberi spinosi non fanno altro che attirare nel mio campo acque velenose e pestifere; e se qualche spiga si mantiene intatta, non riceve altro che punture e fetore, tanto che non possono germogliare altre spighe, primo perché manca loro il terreno occupato da tante piante nocive, secondo per le continue punture che ricevono che non danno loro pace. Ecco la necessità della strage per svellere tante piante cattive, e lo spargimento del sangue per purgare il mio campo dalle acque velenose e pestifere. Perciò non volerti rattristare al principio, perché [non] solo là dove ho mandato già i flagelli, ma a tutte le altre parti ci vuole la purgazione”.
Chi può dire la costernazione del mio cuore nel sentire questo parlare di Gesù? Onde di nuovo ho insistito che volevo andare a vedere, ma Gesù non dandomi retta mi è scomparso; ed io rimasta sola, ho preso la via per andare a trovarlo, ma or trovavo il mio angelo che mi rimandava indietro ed ora anime purganti, tanto che sono stata costretta a ritornare in me stessa.
Questa mattina il mio adorabile Gesù è venuto e mi ha fatto vedere una macchina, dove pareva che si stritolassero tante membra umane, e come due segni nell’aria di castighi che mettevano terrore. Chi può dire la costernazione del mio cuore nel vedere tutto ciò? Ma il benedetto Gesù vedendomi così amareggiata mi ha detto: “Figlia mia, allontaniamo per poco ciò che tanto ci affligge e solleviamoci col giocare un poco insieme”.
Chi può dire ciò che è passato tra me e Gesù in questo giuoco, le finezze d’amore, gli stratagemmi, i dolci baci, le carezze che a vicenda ci facevamo? Sebbene mi passava[64] il mio diletto Gesù, perché io essendo debole venivo meno, tanto vero che non potendo contenere in me ciò che lui mi dava, ho detto: “Diletto mio, basta, basta, più non posso, io vengo meno, il mio povero cuore non è tanto largo d’essere capace di ricevere tanto, perciò basta per ora”.
Allora volendomi rimproverare il parlare dell’altro giorno, dolcemente mi ha detto: “Fammi sentire le tue querele, dì, dì, sono io crudele? Il mio amore per te si è cambiato in crudeltà?”
Ed io, tutta arrossendo ho detto: “No, Signore, non siete crudele quando venite, ma quando non ci venite allora dico che siete crudele”.
Sorridendo lui al mio dire, ha soggiunto: “Pure continua a dire che quando non vengo sono crudele. No, no, non ci può essere in me crudeltà alcuna, ma tutto è amore; e sappi che se è come tu dici, lo stesso essere crudele è amore più grande”.
Trovandomi tutta preoccupata sul misero mio stato, specialmente che non fosse più Volontà di Dio, e ritenevo come indizio vero di ciò lo scarso patire e le continue sue privazioni. Ora mentre io stavo logorando il piccolo mio cervello su ciò e sforzandomi ad uscirne[65], il mio sempre amabile buon Gesù come lampo si è fatto vedere, dicendomi: “Figlia mia, che vuoi tu che faccia? Dimmi. Farò ciò che vuoi tu”.
Ed io, ad una proposta così inaspettata, non ho saputo che dire; provavo tale una confusione che il benedetto Gesù dovesse fare ciò che io volevo, mentre io devo fare ciò che lui vuole, che sono restata muta. Onde non vedendo dire niente, come lampo è sfuggito; ed io correndo dietro a quella luce mi son trovata fuori di me stessa, ma non l’ho trovato, e sono andata girando la terra, il cielo, le stelle; ed or lo chiamavo con la voce, ora col canto, pensando tra me che il benedetto Gesù a sentire la voce ed il mio canto resterebbe ferito e con sicurezza l’avrei trovato.
Or mentre giravo ho visto lo strazio crudele che si continua a fare nella guerra della Cina, le chiese abbattute, le immagini di Nostro Signore gettate per terra, e questo è niente ancora. Quello che mi ha fatto più spavento è stato che se or lo fanno i barbari, poi lo faranno i finti religiosi, che smascherandosi e facendosi conoscere chi sono, unendosi agli aperti nemici della Chiesa, daranno tale un assalto che pare incredibile a mente umana. Oh, quanti strazi più crudeli! Pare che hanno giurato di finirla per la Chiesa[66]. Ma il Signore prenderà vendetta di loro col distruggerli; perciò sangue da una parte e sangue dall’altra.
Perciò mi son trovata dentro un giardino che mi pareva che fosse la Chiesa, e là dentro vi era una turba di gente sotto l’aspetto di dragoni, di vipere e di altre bestie inferocite, che devastavano quel giardino, e poi uscendo fuori formavano la rovina delle genti.
Or mentre ciò vedevo, mi son trovata in braccio il mio diletto Signore ed ho detto: “Finalmente vi siete fatto trovare, siete voi veramente il mio caro Gesù?”
E lui: “Sì, sì, sono il tuo Gesù”.
Ed io volevo dirgli che risparmiasse a tanta gente, e lui, non dandomi retta a questo, tutto afflitto ha soggiunto: “Figlia mia, sono stanco abbastanza, andiamo nel Divin Volere se vuoi che mi trattenga con te”.
Ed io temendo che se ne andasse ho fatto silenzio facendogli prendere sonno. Onde poco dopo è rientrato nel mio interno, lasciandomi rincuorata, ma sommamente afflitta.
Ho passato una notte ed un giorno inquieta. Più da principio mi sentivo uscire fuori di me stessa, senza che potessi trovare il mio adorabile Gesù. Non vedevo altro che cose che mi facevano terrore e spavento. Vedevo che nell’Italia si alzava un fuoco ed un altro ne stava alzato nella Cina, che a poco a poco, unendosi insieme, si confondevano in uno solo. In questo fuoco vedevo il re dell’Italia, per inganno repentinamente morto; questo era mezzo come aizzare ed ingrandire l’incendio. Insomma vedevo una gran sommossa, un tumulto di gente, un uccidere gente. Con queste cose vedute mi sentivo in me stessa, e mi sentivo straziarmi l’animo da sentirmi morire, molto più che non vedevo il mio adorabile Gesù. Onde dopo molto aspettare, si è fatto vedere con una spada in mano, in atto di menarla sopra la gente. Mi sono spaventata, e fatta un po’ ardita ho preso in mano la spada, dicendogli: “Signore, che fate? Non vedete quanti strazi succederanno se menate questa spada? Quello che più mi addolora [è] che veggo che prendete in mezzo l’Italia! Ah, Signore, placatevi, abbiate pietà delle vostre immagini! E se dite che mi amate, risparmiate a me questo acerbo dolore”.
E mentre ciò dicevo, mi tenevo con quanta più forza potevo la spada. Gesù mandando un sospiro, tutto afflitto mi ha detto: “Figlia mia, lasciala cadere sopra le genti, ché più non posso”.
Ed io, stringendola più forte: “Non posso lasciarla, non mi dà l’animo di farlo”.
E lui: “Non te l’ho detto tante volte che son costretto a non farti vedere niente, altrimenti non son libero di fare ciò che voglio?”
E mentre ciò diceva, ha abbassato il braccio con la spada e si è messo in atto di calmarsi del suo furore. Dopo poco è scomparso, ed io son rimasta con timore: chi sa, senza ancor farmi vedere niente, mi tirasse la spada e la menasse sopra le genti. O Dio, che crepacuore il solo ricordarmi!
Continua il mio adorabile Gesù a venire scarsissime volte e per poco tempo. Questa mattina mi sentivo tutta annientata e quasi non ardivo di andare in cerca del mio sommo Bene; ma lui sempre benigno, è venuto e volendomi infondere fiducia mi ha detto:
“Figlia mia, innanzi alla mia maestà e purità, non vi è chi possa stare di fronte, anzi tutti sono costretti a starsene atterriti e colpiti dal fulgore della mia santità. L’uo­mo vorrebbe quasi fuggire da me, perché è tale e tanta la sua miseria che non ha coraggio di sostenersi innanzi a Dio. Ed ecco che facendo campo[67] della mia misericordia assunsi l’umanità, che temperando i raggi della Divinità è mezzo come infondere fiducia e coraggio all’uo­mo per venire a me; il quale mettendosi di fronte alla mia umanità, che spande raggi temperati della Divinità, ha il bene di potersi purificare, santificare ed anche divinizzare nella mia stessa umanità deificata. Perciò tu statti sempre di fronte alla mia umanità, tenendola come specchio in cui tergerai tutte le tue macchie; non solo, ma come specchio in cui rimirandoti acquisterai la bellezza e man mano andrai ornandoti a somiglianza di me medesimo. Perché è proprietà dello specchio far comparire dentro di sé l’immagine simile a quella di chi si rimira; se tale è lo specchio materiale, molto più è il divino, perché la mia umanità serve all’uomo come specchio per rimirare la mia Divinità. Ecco perciò che tutti i beni all’uomo dalla mia umanità derivano”.
Mentre ciò diceva, mi sentivo infondere tale fiducia che mi è venuto il pensiero di volergli parlare dei castighi; chi sa mi avesse data udienza o potessi avere l’in­tento di placarlo del tutto! Ma mentre mi accingevo a ciò, come lampo è scomparso, e l’anima mia correndo dietro a lui si è trovata fuori di me stessa; ma non l’ho potuto più ritrovare. E con sommo mio rammarico ho visto tante persone che andavano nelle carceri, altri settari che uscivano per attentare altre vite di re e di altri capi; vedevo che si rodevano di rabbia perché manca loro il mezzo ancora come uscire tra i popoli e farne macello, eppure giungerà il tempo loro. Onde dopo ciò mi son trovata in me stessa tutta oppressa ed afflitta.
Trovandomi nel solito mio stato, stavo desiderando e cercando il mio amato Gesù, onde dopo averlo lungamente aspettato è venuto e mi ha detto: “Figlia mia, perché mi cerchi fuori di te, mentre potresti più facilmente ritrovarmi dentro di te? Quando tu mi vuoi trovare entra in te, giungi fin nel tuo nulla, ed ivi senza di te, nel brevissimo giro del tuo nulla scorgerai le fondamenta che ha gettate in te e le fabbriche che ha innalzato in te l’Es­sere Divino. Guarda e vedi”.
Io ho guardato ed ho visto le solide fondamenta e le mura altissime che giungevano fino al cielo. Ma quello che mi faceva più stupire era che vedevo che il Signore aveva fatto questo bel lavoro sopra il mio nulla, e le mura erano tutte murate senza nessuna apertura. Si vedeva solo alla volta un’apertura che corrispondeva solo al cielo, ed in questa apertura vi risiedeva Nostro Signore, sopra una colonna stabile che sporgeva dalle fondamenta formate sul nulla. Ora mentre me ne stavo tutta stupita a guardare, il benedetto Gesù ha soggiunto:
“Le fondamenta formate nel nulla significa che la mano di Dio là opera dove c’è il nulla, e mai vi mescola le sue opere con le opere materiali. Le mura senza aperture all’intorno, è che l’anima non deve avere nessuna corrispondenza di attacchi con le cose terrene, tanto che non c’è nessun pericolo che vi potesse entrare neppure un poco di polvere, perché tutto ben murato. La sola corrispondenza che le danno queste mura è per il cielo, cioè dal nulla al cielo, ed ecco il significato dell’aper­tura fatta nella volta; la stabilità della colonna è che l’anima è tanto stabile nel bene che non c’è vento contrario che la possa muovere, ed io che vi risiedo sopra è indizio certo che l’opera fatta è tutta divina”.
Chi può dire quello che comprendevo su ciò? Ma la mia mente si perde e non sa dire nulla. Sia sempre benedetto il Signore e sia tutto per sua gloria ed amore.
Questa mattina il mio adorabile Gesù non ci veniva, onde ho molto aspettato; quando appena si è fatto vedere mi ha detto: “Come uno strumento musicale risuona gradito all’orecchio di chi lo ascolta, così i tuoi desideri, le lacrime tue, risuonano al mio udito come una musica delle più gradite; ma per fare che scenda più dolce e dilettevole ti voglio insegnare un altro modo, cioè desiderarmi non come desiderio tuo, ma come desiderio mio, perché io amo grandemente di manifestarmi teco. Insomma, tutto ciò che tu vuoi e desideri, volerlo e desiderarlo perché lo voglio io; cioè prenderlo da dentro di me e farlo tuo, così sarà più dilettevole la tua musica al mio udito, perché è musica uscita da me stesso”.
Poi ha soggiunto: “Tutto ciò che esce da me entra in me; ecco perciò che gli uomini si lamentano che non ottengono così facile quello che mi domandano, perché non sono cose che escono da me, e non essendo cose che escono da me, non sono così facili ad entrare in me e uscire per poi darsi a loro; perché esce da me ed entra in me tutto ciò che è santo, puro e celeste. Or qual mera­viglia se viene loro chiusa l’udienza quando ciò che mi domandano non sono [cose] prese dentro di me? Ecco, perciò, tieni tu bene a mente che tutto ciò che esce da Dio entra in Dio”.
Chi può dire ciò che comprendevo sopra queste due parole? Ma non ho parole a sapermi spiegare. Ah! Signore, datemi grazia che possa domandare tutto ciò che è santo e che sia desiderio e Volontà vostra, così potete comunicarvi con me più abbondantemente.
Questa mattina, dopo presa la santa comunione, il mio diletto Gesù si è fatto vedere in atto di volermi ammaestrare. Portava come un esempio e mi ha detto: “Figlia mia, se un giovane prendesse moglie, e questa presa d’amore verso di lui volesse stare sempre insieme senza staccarsi un momento, senza badare alle altre cose e fac­cende di casa, dovute da una moglie per felicitare questo giovane, or che direbbe costui? Gradirebbe l’amore di costei, ma al certo non sarebbe contento della condotta di questa tale, perché questo modo di amare non sarebbe altro che un amore sterile, infecondo, che porterebbe danno a quel povero giovane anziché frutto, ed a poco a poco questo strano amore recherebbe noia a costui anziché gusto; perché tutta la soddisfazione di questo amore sarebbe solamente della giovane. E siccome l’amore sterile non ha legna come fomentare il fuoco, presto presto verrebbe ad incenerirsi; perché il solo amore operante è durevole, gli altri amori come fumo se ne volano al vento. E poi si giunge ad infastidirsi, a non curare e forse a disprezzare ciò che tanto si amava. Tale è la condotta di quelle anime che badano solo a sé stesse, cioè alla loro soddisfazione, ai fervori ed a tutto ciò che loro gradisce, dicendo che questo è amor per me, mentre è tutta loro soddisfazione, perché si vede coi fatti che non prendono cura dei miei interessi e delle cose che a me appartengono; e se viene a mancare ciò che le soddisfa, più non si curano di me e giungono anche ad offendermi. Ah, figlia, il solo amore operante è quello che distingue i veri dai falsi amatori, ché tutto il resto è fumo!”
Mentre ciò diceva vedevo persone, ed io come se volessi badare a quelle, ma Gesù mi ha distratto da ciò col dirmi: “Non volerti impicciare dei fatti altrui, lasciamoli fare perché ogni cosa tiene il suo tempo; quando sarà il tempo del giudizio allora sarà il tempo di discernere tutte le cose, che crivellandosi ben bene si verrà a conoscere il grano e le paglie ed il seme sterile e nocivo. Oh, quante cose che compariscono grano si troveranno in quel giorno paglie e semi sterili, degne solo d’essere gettate nel fuoco!”
Questa mattina il mio adorabile Gesù non ci veniva, onde dopo molto aspettare, quando il mio povero cuore non ne poteva più, si è fatto vedere da dentro il mio interno e mi ha detto: “Figlia mia, non volerti affliggere che non mi vedi, ché sto dentro di te, e da qui per mezzo tuo sto rimirando il mondo”.
Onde dopo ha continuato a farsi vedere di tanto in tanto senza dirmi più niente.
Avendo passato un giorno inquieta, mi sentivo tutta piena di tentazioni e peccati. Oh, Dio, che pena straziante è l’offendervi! Facevo quanto più potevo a starmene in Dio, a rassegnarmi al suo Santo Volere, ad offrirgli per amor suo quello stesso stato inquieto, a non dar retta al nemico, mostrandomi con somma indifferenza acciocché non l’avessi io stessa aizzato a tentarmi maggiormente, ma con tutto ciò non potevo fare a meno di sentire il bisbiglio che il nemico mi suscitava d’intorno.
Onde trovandomi nel solito mio stato non ardivo desiderare il mio diletto Gesù, tanto mi vedevo brutta e miserabile. Ma lui, sempre benigno con questa peccatrice, senza che lo chiedessi è venuto, e come se mi compatisse mi ha detto: “Figlia mia, coraggio, non temere; sai tu che certe acque fredde ed impetuose sono più potenti a purgare da ogni minimo neo, che lo stesso fuoco? E poi, tutto si converte in bene per chi veramente mi ama”.
Detto ciò è scomparso, lasciandomi rincorata, sì, ma debole come se avessi sofferto una febbre.
Avendo passato parecchi giorni di privazione e d’amarezze, al più vistolo qualche volta ad ombra ed a lampo, questa mattina [ero] al sommo dell’amarezza; non solo ma mi sentivo come se avessi perduto la speranza di più rivederlo. Onde dopo aver fatta la santa comunione mi pareva che il confessore mettesse l’inten­zione della crocifissione. Allora il benedetto Gesù per farmi obbedire si è mostrato e mi ha partecipato le sue pene.
In questo frattempo ho visto la Regina Mamma che prendendomi mi offriva a lui, acciò si placasse; e Gesù avendo riguardo alla Mamma accettava l’offerta e pareva che si placasse un poco. Dopo ciò la Mamma Regina mi ha detto: “Vuoi tu venire in purgatorio a sollevare il re dalle pene orribili in cui si trova?”
Ed io: “Mamma mia, come lei vuole”.
In un istante mi ha preso e di volo mi ha trasportato in un luogo di supplizi atroci, tutti di continue morti. E là ci stava quel misero che da un supplizio passava al­l’altro. Pareva che [per] quante anime si erano perdute per causa sua, altrettante morti lui doveva subire. Onde dopo essere passata io per parecchi di quei supplizi e restato lui un po’ sollevato, di nuovo la Santissima Vergine mi ha sottratto da quel luogo di pene e mi son trovata in me stessa.
Trovandomi al solito mio stato e non vedendo il mio adorabile Gesù, me ne stavo tutta afflitta, ed un po’ impensierita sul perché non ci veniva. Onde dopo molto aspettare e riaspettare è venuto, e vedendolo che dalle mani sgorgava sangue, l’ho pregato che dalla mano sinistra versasse il sangue sopra il mondo a pro dei peccatori che stavano per morire ed in pericolo di perdersi, e dalla mano destra che versasse il suo sangue sopra il purgatorio. E lui, benignamente ascoltandomi, si è scosso ed ha versato sangue sopra una parte e sopra l’altra.
Dopo ciò mi ha detto: “Figlia mia nelle anime interne[68] non ci può stare la turbazione, e se vi entra è perché esce fuori di sé stessa, e facendo così è fare da carnefice a sé stessa; perché uscendo fuori di sé stessa s’appiglia [a] tante cose che né riguardano e che non sono Dio, e delle volte neppure cose che riguardano il vero bene dell’anima; onde ritornando in sé stessa e portando cose che sono estranee, si strazia da sé stessa e con ciò viene ad infermare sé stessa e la grazia. Perciò statti sempre in te stessa e starai sempre calma”.
Chi può dire ciò che comprendevo con chiarezza, e come trovavo la verità in queste parole di Gesù? Ah! Signore, se vi benignate di ammaestrarmi, datemi grazia di profittare dei vostri santi ammaestramenti, altrimenti sarà per mia condanna.
Continuando [Gesù] a non venire, andavo dicendo: “Mio buon Gesù, non farmi tanto aspettare, questa mattina non ho voglia d’inquietarmi e cercarvi tanto fino a stancarmi, venite una volta subito, così, alla buona”.
E vedendo che non ci veniva, continuavo a dire: “Si vede che volete che mi debbo stancare e giungere fino ad inquietarmi, altrimenti non ci venite”.
Mentre ciò ed altri spropositi dicevo, è venuto e mi ha detto: “Mi sapresti dire chi mantiene la corrispondenza tra l’anima e Dio?”
Ed io, ma sempre con una luce che mi veniva da lui, ho detto: “L’orazione”.
E Gesù, approvando il mio detto, ha soggiunto: “Ma chi attira Iddio a familiare conversazione con l’anima?”
Ed io non sapendo rispondere, subito la luce si è mossa nel mio intelletto, ed ho detto: “Se l’orazione vocale serve a mantenere la corrispondenza, certo che la meditazione interna deve servire di alimento come mantenere la conversazione tra Dio e l’anima”.
Lui contento di ciò ha replicato: “Or mi sapresti tu dire chi spezza le dolci catene, chi toglie gli amorosi corrucci che possono insorgere tra Dio e l’anima?”
Ed io non rispondendo, lui stesso ha detto: “Figlia mia, la sola ubbidienza tiene questo uffizio; perché lei sola decide delle cose spettanti tra me[69] e l’anima, avvenendo delle contese o pure prendendo qualche corruccio per mortificare [l’anima], sorgendo l’ubbidienza spezza le contese e toglie i corrucci, e mette pace tra Dio e l’anima”.
Ed io: “Ah, Signore! Molte volte pare che anche l’ubbidienza non si vuol brigare e se ne sta indifferente, e la povera anima è costretta a starsi in quello stato di contese e di corrucciamento”.
E Gesù: “Questo lo fa per un certo tempo, volendosi anche lei compiacere di assistere a quelle amabili contese; ma poi prende il suo ufficio e pacifica tutto. Sicché l’ubbidienza dà la pace all’anima e a Dio”.
Avendo fatta la santa comunione, il mio adorabile Gesù mi ha trasportata fuori di me stessa, facendosi vedere sommamente afflitto ed amareggiato. Onde l’ho pregato che versasse in me le sue amarezze. Ma Gesù non mi dava retta, ma insistendo, dopo tanto tempo si è compiaciuto di versare. Quindi dopo aver [egli] versato un poco ho domandato: “Signore, non vi sentite meglio adesso?”
E lui: “Sì, ma non era quello che versai che mi dava tanta pena, ma un cibo stomachevole ed insipido che non mi lascia riposare”.
Ed io: “Versate un poco a me, così vi solleverete un poco”.
E lui: “Se non posso digerirlo e sopportarlo io, come lo potresti tu?”
Ed io: “Conosco che la mia debolezza è estrema, ma voi mi darete grazia e forza e così potrò riuscire a contenerlo in me”.
Comprendevo però che il cibo stomachevole erano le impurità, [quel]lo insipido le opere buone malamente fatte, tutte strapazzate, che a Nostro Signore gli sono piuttosto di fastidio e di peso, e quasi sdegna di riceverle, e non potendo sopportarle le vuol rovesciare dalla sua bocca. Chissà quante delle mie ci sono insieme! Onde costretto da me ha versato anche un poco di quel cibo. Come aveva ragione Gesù che era più tollerabile l’amaro, che quel cibo stomachevole ed insipido! Se non fosse per suo amore, a qualunque costo non l’avrei accettato.
Dopo ciò il benedetto Gesù mi ha messo il braccio dietro il collo, e poggiando la sua testa sulla mia spalla si è messo in atto di voler prendere riposo. Mentre riposava mi son trovata in un luogo dove stavano tante basole[70] movibili, e sotto l’abisso. Io temendo di precipitare l’ho risvegliato, invocando il suo aiuto, e lui mi ha detto:
“Non temere, è la via che tutti battono; non ci vuol altro che tutta l’attenzione, e siccome la maggior parte camminano sbadati, ecco la causa perché molti si precipitano dentro l’abisso e pochi sono quelli che giungono al porto della salvezza”.
Dopo ciò è scomparso ed io mi son trovata in me stessa.

Nos cum Prole pia benedicat Virgo Maria.



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